Il "Codex Laurentianus Mediceus Ms 68 II", conservato presso la Biblioteca Medicea Laurenziana in Firenze, è il manoscritto più antico che attesta il famoso brano su Cristo e i Cristiani, riportato nel XV Libro, cap. 44, degli Annales dello storico romano Cornelio Tacito. La sua datazione è stimata dai paleografi intorno all’XI secolo, cioè un millennio dopo la morte dello scrittore latino, e costituisce l'archètipo di altri codici copiati in epoche ancor più recenti.
Fu rinvenuto nel 1356 (tre secoli dopo la presunta data di stesura) dal famoso monaco letterato, Zanobi da Strada, nella veste di Vicario del Vescovo Angelo Acciaiuoli, all'interno della grande Abbazia dell'ordine benedettino di Montecassino, specializzata in grafia beneventana latina, fornita di scriptorium e arricchita con una biblioteca di codici miniati nonché opere sacre e classiche.
Da circa tre secoli la sua autenticità è oggetto di controversia fra i massimi esperti della materia e, superfluo a dirsi, viziata da posizioni ideologico fideiste di parte che rappresentano l’ostacolo principale a chiudere definitivamente la questione. La posta in gioco è alta: si tratta della testimonianza più importante sull’esistenza di Gesù e i suoi seguaci nel I secolo proveniente dalla principale fonte storica extracristiana; ancor più significativa di quelle di Giuseppe Flavio, Svetonio e Plinio il Giovane.
Tutt’oggi il dibattito è ancora incentrato sull’analisi paleografica del documento e, come appena rilevato, è sempre in fase di stallo. Per di più gli esperti sanno che "La paleografia è una scienza fondata su stime di massima, insicure a causa dell’arco di tempo trascorso così esteso; è un metodo che, troppo spesso, viene fatto passare come una certezza per confondere i non specialisti, pertanto è storicamente scorretto” (Robert Eisenman, uno dei più importanti paleografi del mondo).
Dato il grande interesse manifestato su questo delicato argomento storico, anche a livello internazionale, non si capisce cosa aspettano i dirigenti della Biblioteca Medicea Laurenziana, in particolare gli esperti del Settore Manoscritti, a sottoporre il "Codex MS 68.II" alla verifica strumentale dello spettrometro di massa al fine di accertarne la datazione, finora stimata soltanto col metodo paleografico.
Tale necessità deriva dalla constatazione che tutti gli antichi Codici, datati (anch'essi paleograficamente) sia prima che dopo il "laurentianus 68.2" - manoscritti dagli amanuensi cristiani nel corso di molti secoli e riguardanti la Patrologia Latina e Greca - pur richiamando le gesta di Nerone ignorano la vicenda dell'eccidio dei seguaci di Gesù perpetrato dal Cesare a seguito del rovinoso incendio di Roma del 64 d.C.
E' una contraddizione stridente considerato il dovere storico spettante a tutti i Padri della Chiesa, come a tutti gli storici cristiani, di riferire la cronaca dell'abominevole strage dei propri màrtiri fin subito dopo l'evento.
Ne consegue che i tre secoli di silenzio, intercorsi fra la trascrizione del più antico manoscritto e l'epoca del suo ritrovamento, rappresentano un vuoto sospetto cui si aggiunge la posizione della Chiesa, inspiegabilmente avversa alla diffusione della testimonianza tacitiana per ulteriori due secoli. Da ciò deriva la necessità di una analisi strumentale, la quale, nel caso determinasse una datazione sovrapponibile a quella della "scoperta" del manoscritto, si trasformerebbe in una prova utile ad individuare il committente. Infatti, solo cinque secoli dopo la stesura dell'antico codice, nel 1470 d.C. la Chiesa concesse ai tipografi, Johann & Wendelin, di stampare a Venezia gli Annales di Tacito, contenenti i Libri dall'XI al XVI, grazie alla fonte costituita dal "Codex Laurentianus Ms 68.2".
Tutto ciò premesso, è nostro dovere informare i lettori, interessati alla Storia del Cristianesimo, che esistono altre metodologie scientifiche, basate su dati oggettivi inconfutabili, come archeologia, numismatica e testimonianze storiche, ad iniziare dai resoconti, incompatibili con la grave persecuzione neroniana, già riportati nei numerosi Codici della Patrologia ecclesiastica. In sostanza, un insieme di elementi accertati che ci consentono di pervenire ad una conclusione storiologica definitiva.
Sottoponiamo, quindi, ad analisi comparata tutte le informazioni concernenti la presunta cronaca tacitiana riguardante la testimonianza su Gesù e i suoi adepti all'inizio dell'era cristiana.
Le “Testimonianze” di Tacito e Giuseppe Flavio su Gesù
Parte I: sintesi
Con questo studio intendiamo mettere a confronto le informazioni, ad oggi pervenuteci tramite copie manoscritte non originali, di Cornelio Tacito e di Giuseppe Flavio - gli unici storici che citano “Cristo”, identificandolo col “Gesù” dei Vangeli - per verificare se, dagli scritti tramandatici, viene effettivamente comprovata l’esistenza del “Figlio di Dio” nel I secolo, oppure si tratta di menzogne interpolate da copisti, nei documenti redatti, allo scopo di dare una base storica alla dottrina cristiano-gesuita.
Alla fine del I secolo, nelle sue opere, giunte sino a noi tramite manoscritti medievali, il sacerdote fariseo Giuseppe Flavio (37-105 d.C.), nato a Gerusalemme e influente membro del Sinedrio, riferisce le differenze ideologiche e comportamentali degli adepti alle quattro correnti religiose ebraiche (da lui citate come "le quattro filosofie") esistenti in Giudea sino a quando rimase in vita: Farisei, Sadducei, Esseni e Zeloti.
Viceversa lo storico ebreo non descrive i principi della religione chiamata “Messianismo” o, in lingua greca “Cristianesimo” (Χριστιανισμός), nonostante ciò, nella sua narrazione, in due brani si richiama a “Gesù Cristo”: "Testimonium Flavianum" e “Giacomo fratello di Gesù Cristo”.
Pertanto, scopo della nostra indagine è approfondire il motivo di questa incoerenza e verificarla, così come abbiamo fatto con l'analisi su "Giacomo il Minore" fratello di Gesù. Infatti tale studio dimostra che "Giacomo il Minore", in realtà, era un altro individuo, anch'egli di nome Giacomo, ma privo di qualunque relazione con colui che la Chiesa, in epoca posteriore, farà diventare primo Vescovo di Gerusalemme e fratello di Gesù Cristo. Si trattava invece di un altro "Giacomo", fratello di un comune giudeo che casualmente si chiamava "Gesù" (non il figlio di Dio o di "san Giuseppe"), a sua volta figlio di un sacerdote di nome "Damneo". La cronaca descritta da Giuseppe Flavio vede uno dei tanti "Gesù" di Gerusalemme, in questo caso nominato Sommo Sacerdote del Tempio, come specificato dallo storico ebreo.
Analisi confermata dai ritrovamenti archeologici che hanno dimostrato l'inesistenza di qualsiasi Vescovo cristiano in Gerusalemme nei primi due secoli, contraddicendo la "Historia Ecclesiastica" di Eusebio di Cesarea.
Infatti l’inesistenza di cristiani, nel 40 d.C., durante il principato di Gaio Caligola - un Imperatore convinto di essere Dio - si riscontra nell’autentico “Testimonium Flavianum”, atto vergato di suo pugno da Giuseppe Flavio:
“Poiché mentre tutti i popoli, sudditi dell’Impero Romano, avevano dedicato altari e Templi a Gaio, e gli avevano dato, sotto ogni aspetto, la stessa attenzione che avevano verso gli Dei, solo il popolo giudaico disdegnava di onorarlo con statue e di giurare in suo nome” (cfr Ant. XVIII 258).
Specificando “tutti i popoli adoravano Gaio”, in contrapposizione a “solo il popolo giudaico si rifiutava di farlo”, è evidente che allo storico ebreo non risultava alcuna presenza di "sudditi dell'Impero Romano" cristiani, i quali, stando alla artefatta “tradizione cristiana”, anch’essi, come gli ebrei, erano contrari a divinizzare chiunque tranne Cristo.
Un dato di fatto confermato anche da Cornelio Tacito; "Historiae Libro V, 5":
"Gli Ebrei non pongono simulacri di dèi nelle loro città e tanto meno nei loro templi; né riservano tale forma di adorazione per i loro Re"
Quando
scrisse l’intera sua opera, Giuseppe F. non poteva sapere che scribi
fraudolenti, tre secoli dopo la sua morte, per ordine del Vescovo
Eusebio di Cesarea, interpolarono in “Antichità Giudaiche” (XVIII 63/64)
un falso “Testimonium Flavianum”, in cui si fa dichiarare a Giuseppe
Flavio l’Avvento di un Messia (Cristo) ebreo di nome “Gesù”, adorato
come il vero ed unico Dio “… e fino ad oggi non è venuta meno la tribù di coloro che da Lui sono detti Cristiani”. La frase affibbiata a Giuseppe “fino ad oggi” è volutamente, ed ipocritamente, intesa come il “presente” dello storico ebreo, da lui documentato sino a tutto il I secolo.
La “cristianità primitiva” del I secolo fu fatta apparire, da scrittori
apologisti del IV secolo, come se fosse diffusa nell’Impero già sotto
Tiberio (addirittura prima di Gaio), e attestata dal Vescovo Eusebio, il quale,
da impostore incallito, chiamò questo Imperatore a testimoniare su Gesù
Cristo, assieme a Tertulliano (cfr HEc. II 2 e "Apologeticum" cap. 5,2).
Un cristianesimo
diffuso, propagandato sin dall’inizio addirittura sui vangeli, documenti
anch’essi, come dimostriamo nell'VIII studio, risalenti al
IV secolo:
"Gesù andava attorno per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e predicando la buona novella del regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità del popolo. La sua fama si sparse per tutta la Siria
e così condussero a lui tutti i malati, tormentati da varie malattie e
dolori, indemoniati, epilettici e paralitici; ed egli li guariva. E grandi folle lo seguirono dalla Galilea, dalla Decapoli, da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano" (Mt 4,23).
Un
"cristianesimo dilagante" in Siria, ma sconosciuto da Lucio Vitellio,
Governatore di quella Provincia dal 35 al 39 sotto Tiberio, e presente due volte in
Gerusalemme sempre durante la Pasqua ebraica (sconfessando di fatto la menzognera "testimonianza" di Tertulliano), oltre che in assoluto contrasto per la forma
mentis di Gaio. Costui, un Imperatore impazzito convinto di essere Dio,
pretendeva la adorazione di tutti i popoli al punto di scatenare una
guerra contro i Giudei se non lo avessero riconosciuto come tale (per
fortuna degli Ebrei, Caligola fu eliminato appena in tempo) …
Figuriamoci quale massacro di cristiani gesuiti avrebbe compiuto Gaio se
questi fossero esistiti veramente.
Fu dunque la assenza di cristiani martirizzati da Gaio che obbligò la censura della biografia di questo Imperatore da parte degli amanuensi che trascrissero gli Annales di Cornelio Tacito nell’XI secolo, mille anni dopo la morte del cronista imperiale. Gli scribi che trascrissero le cronache dello storico romano sapevano che il mancato eccidio di seguaci di Gesù Cristo, non attuato da Gaio, avrebbe dimostrato che non esisteva questa setta religiosa: una evidenza così contrastante con la testimonianza, attribuita dai calligrafi impostori a Tacito ... al punto di accertarne la falsificazione.
Un altra significativa verifica alla totale assenza di cristiani gesuiti nel I secolo ci è pervenuto dallo storico e filosofo ebreo, Filone Alessandrino (20 a.C. - 45 d.C.), influente membro della comunità giudaica di Alessandria, il quale, nel suo trattato "De Providentia" (II 107), riferisce che si recava frequentemente al Tempio di Gerusalemme per offrire sacrifici a Dio ma, in nessuna delle sue opere, Filone riporta l'avvento del Messia giudeo di nome "Gesù", a lui coevo; un Messia che, stando ai vangeli, fu osannato dal popolo di Gerusalemme come "Re dei Giudei" e "figlio di Davide". Né sa, Filone, dell'esistenza di una nuova dottrina religiosa, già dilagata nella Giudea, il cui capo spirituale era Giacomo, Vescovo di Gerusalemme e fratello del Messia prescelto da Yahweh. Tanto meno, l'erudito ebreo ha mai sentito parlare di spettacolari miracoli compiuti, dinanzi al Tempio giudaico, dagli apostoli di Cristo, prodigi tali da guarire folle di malati accorsi anche dalle città vicine a Gerusalemme, secondo quanto narrato in "Atti degli Apostoli" (At 5,12/16). Un insieme di notizie fondamentali, talmente enormi per il coinvolgimento diretto della religione ebraica, che lo stesso Filone si sarebbe sentito in obbligo di tramandarle ai posteri e, perchè no, convertirsi anche lui al Cristianesimo: la dottrina per la "salvezza della vita eterna".
Anche Gaio Svetonio Tranquillo parla di “cristiani” presenti nel primo secolo e di lui riferiamo a breve perché la sua testimonianza, già da sola, comprova che la semplice parola “Cristo”, a se stante, non distingue il “Cristo” giudaico dell’Attesa messianica ... dal “Cristo Gesù” dell’Avvento.
Lo stesso dicasi per Gaio Plinio Cecilio Secondo, detto "Plinio il Giovane", che, all’inizio del II secolo, come vedremo più avanti, in qualità di Governatore della Provincia imperiale di Bitinia, nell "Epistolarum X 96" inviato a Traiano (è in rete: basta cliccare), oltre a “Cristo” cita i “cristiani” ma, l’assenza del nome proprio del "Messia" significa che quei cristiani non si identificavano affatto con "Gesù", né avevano mai sentito parlare di "resurrezione" o di "vita eterna" oltre la morte.
Nelle testimonianze storiche, la mancanza del nome “Gesù”, “Yeshùa” in aramaico, che vuol dire “Salvatore”, è un particolare di importanza fondamentale. Infatti gli Ebrei chiamavano “Salvatore”, inteso come puro attributo divino, i Re ed i condottieri che, al pari di Giosuè, riuscivano a liberare la “terra promessa” dal dominio pagano. Le locuzioni “Cristo” e “Cristiani” sono generiche e si riferiscono a fedeli giudei, cioè Ebrei della diaspora, esuli, promotori di sommosse, vittime di repressioni o guerre giudaiche, sparsi nelle province dell’Impero in “Attesa” del Messia nazionale.
Il significato indeterminato di “cristiani” (vocabolo greco tradotto da quello originale ebraico "messianisti", a sua volta derivato da "Messia") sarà sfruttato successivamente dalla Chiesa e fatto passare come “credenti cristiani gesuiti” per i quali “l’Avvento” del Messia, chiamato “Gesù”, si era già concretizzato negli anni 31-33 del primo secolo. Pertanto qualunque riferimento a “Cristo” o ai “cristiani”, riportato dagli scrittori dell’epoca, secondo la Chiesa, doveva riferirsi al suo unico Cristo Salvatore: Gesù.
Detto in parole più semplici: “cristiani” erano coloro che aspettavano Cristo, e “cristiani” erano coloro convinti che il Messia fosse già venuto. Ciò che li distingueva era il nome “Gesù”, col quale i secondi battezzarono il Messia; mentre i primi non poterono battezzare nessuno perché, per loro, non era ancora giunto il Messia prescelto da Dio, atteso dagli Ebrei in veste di un invincibile condottiero davidico.
Come approfondiremo più avanti, le risultanze dell'indagine ci consentiranno di provare che i “cristiani” di Plinio il Giovane in realtà erano “messianisti” ebrei Esseni di Bitinia, tutt'altro che seguaci di un "Gesù Salvatore" e "Figlio di Dio, Redentore Universale". Ebrei, quindi, non ancora coinvolti dalla mutazione gnostica riguardante la figura biblica del Messia “Salvatore” giudaico, che prese avvio nell’alto Egitto, ove si erano rifugiati gli Esseni nazionalisti perseguitati da Vespasiano sul finire della guerra giudaica. Come evidenziato nello studio riguardante l'esistenza di san Giovanni apostolo, in Bitinia non potevano esserci Cristiani gesuiti per la semplice ragione che Dio stesso aveva impedito agli apostoli di convertire gli abitanti di quella regione:
“Attraversarono la Frigia e la Galazia, avendo lo Spirito Santo vietato di predicare nella Provincia d'Asia. Raggiunta la Misia, si dirigevano verso la Bitinia, ma lo Spirito di Gesù non lo permise ...” (At 16,6/7).
La motivazione di questo "divieto divino" è spiegata nella apposita analisi tramite la quale - dopo aver letto l'episodio riferito da Plinio il Giovane e viste le modalità con cui è stato riportato negli antichi codici manoscritti - accertiamo il mancato riconoscimento ecclesiastico del supplizio dei numerosi cristiani uccisi dal Governatore di Bitinia poiché per la Chiesa quei màrtiri erano "messianisti" giudei non seguaci di Gesù. Difatti, gli esegeti del Clero hanno sempre saputo che i cristiani di Bitinia non conoscevano “Gesù Cristo”, il Figlio di Dio e Salvatore dell'intera umanità.
Ma l'aspetto altrettanto grave per la dottrina cristiano-gesuita consiste nel fatto che lo studio dimostra l'inesistenza dell'apostolo Giovanni: una risultanza tale da riflettersi, inevitabilmente, sulla presente ricerca in modo dirompente, come fra poco accerteremo.
Infatti, nel 112 d.C., in Bitinia, i “messianisti” di allora non erano a conoscenza del “Cristo Gesù, Salvatore universale”, inventato successivamente. Si trattava di una setta ebraica di Esseni sempre in “attesa” del Messia (Cristo) davidico, non il “Figlio di Dio”, bensì un prescelto da Dio come avvenne con Re Davide. Unica speranza ad essi rimasta da contrapporre all’enorme potere militare romano che aveva distrutto, quarant’anni prima, la Città Santa e il Tempio.
Praticavano la liturgia essena del pasto comunitaro, riportata nella loro “Regola” (Rotolo di Qumran) con altre norme adottate dai futuri Cristiani gesuiti. Ma, se quei fedeli fossero stati gli stessi seguaci di un "Gesù Figlio di Dio", nuova figura di Messia simile ad una "Hostia" sacrificale pagana - offerta per essere mangiata "corpo e sangue" per entrare "in comunione con Lui" e risorgere dopo morti - cioè espressione di una fede diversa da quella ebraica, quei fedeli si sarebbero sentiti in obbligo di distinguersi e avrebbero chiamato il loro Cristo col nome completo “Gesù Cristo”, non soltanto “Cristo”, consapevoli che il solo termine “Messia" si riferiva al "prescelto da Dio" dotato di poteri divini che i Giudei attendevano, come dimostrano i rotoli del Mar Morto.
Essendo stato un suo compito ufficiale specifico, per aver fatto parte di un collegio sacerdotale designato a sorvegliare i culti stranieri, Tacito, nelle sue “Historiae”, dedica buona parte del Libro V a descrivere la religione e le vicende del popolo giudaico, tramite una retrospettiva storica, dal lontano passato sino al 70 d.C.
Nella lunga narrazione lo storico ignora l'esistenza della religione cristiana e colui che l'aveva creata, "Gesù Cristo", nonché il nome di "Ponzio Pilato", il funzionario romano che lo eliminò.
Nonostante lo storico, a partire da Pompeo Magno (63 a.C.), elenchi numerosi Governatori imperiali della Giudea di rango equestre, facendo anche il nome di alcuni Procuratori, non considera Pilato degno di essere menzionato sebbene autore di una impresa memorabile per aver ucciso un sedicente "Re dei Giudei", acclamato come tale dalla folla di Gerusalemme, nonché fondatore di una "rovinosa superstizione" che si era estesa fino ad invadere l'Urbe.
Viceversa, negli “Annales”, a seguito del devastante incendio di Roma, è scritto:
“... coloro che, odiati per le loro nefande azioni, il popolo chiamava Cristiani. Il nome derivava da Cristo, il quale, sotto l’imperatore Tiberio, tramite il procuratore Ponzio Pilato era stato sottoposto a supplizio; repressa per il momento, quella rovinosa superstizione dilagava di nuovo, non solo per la Giudea, luogo d’origine del male, ma anche per Roma” (Libro XV 44).
Ma nelle sue “Historiae” Tacito non fa il minimo accenno a Gesù Cristo, al cristianesimo dilagante a Roma e in Giudea, al “Procuratore” Ponzio Pilato ed agli “Apostoli”.
E’ impossibile non rilevare che la grave lacuna nelle “Historiae” diventa una esplicita contraddizione degli “Annales” perché Tacito avrebbe dovuto essere iper sensibilizzato al problema del nuovo “cristianesimo gesuita” proprio per la gravità di quanto accaduto a Roma, nel 64 d.C., ad epilogo del devastante incendio che vide (secondo il testo dei suoi Annali trascritto dai copisti nell'XI secolo) come vittime sacrificali, crocefissi una “ingente moltitudine” di cristiani accusati da Nerone di avere incendiato l’Urbe.
In sintesi, nella terra di Cristo, la Giudea, “luogo d’origine dove il male dilagava”, lo storico romano non sente il dovere di riferire in "Historiae" sulle misure repressive, messe in atto da un “Procuratore” imperiale di Tiberio, tese a stroncare il “grave flagello” e culminate con l’uccisione di Cristo, il Capo di un “culto straniero”. Tacito racconta della Giudea, dei suoi abitanti, del loro vetusto unico Credo ebraico, a partire dal primo remoto "legislatore" Mosè "loro guida venuta dal cielo", e non sente il bisogno di approfondire quali furono le motivazioni religiose, là originatesi, che trascinarono “una ingente moltitudine” di cittadini cristiani nel più drammatico martirio collettivo, da lui descritto negli “Annali”, spettacolare e unico nella storia di Roma...senza accennare al recente ultimo "legislatore" ebraico, Figlio di Dio, di nome Gesù, la cui dottrina, dopo soli tre decenni, ormai dilagava nell'Impero infettandolo come un nefando morbo.
Niente! In "Historiae" lo storico riferisce solo di Giudei ed ebraismo, un credo che approfondisce per dodici capitoli, mentre sul Cristianesimo, Gesù Cristo e Apostoli: neanche una parola ... No! E' una mancanza talmente vistosa al punto da invalidare gli stessi "Annales" di Tacito laddove non può aver scritto questo brano nel XV Libro ignorando il fatto che Ponzio Pilato aveva giustiziato un illecito "Re dei Giudei": un evento talmente rilevante da essere già citato nel VI Libro degli "Annales" concernente le cronache del principato di Tiberio ... la cui cronaca risulta fermata nel 36 d.C., senza che venga evidenziato tale tragico evento. Vedi la dimostrazione dettagliata nella terza parte III del X studio ove si elencano tutti i tagli effettuati dagli amanuensi per impedire agli storici di conoscere le reali vicende che avrevvero contraddetto la montatura del cristianesimo primitivo.
Nel I secolo, dei tanti prodigi esibiti dal “Maestro” e dai “Dodici” non ne sentirono parlare: né Tacito, nelle sue “Historiae”; né gli Esseni nei loro rotoli manoscritti; né l'erudito ebreo Filone e lo storico Giuseppe residenti nel “luogo d’origine dove il male dilagava ” e … nessun altro. Ma, soprattutto, non ne sentirono parlare, e tanto meno videro, i Giudei … troppo impegnati a combattere i pagani, invasori della loro terra.
Essi continuarono a sperare che un condottiero, il vero Unto Divino, li guidasse alla vittoria … sino al 132 d.C., quando, sempre in “Attesa” del loro “Salvatore”, lo ravvisarono in Simon bar Kokhba: fu su di lui che riposero le ultime speranze di riscatto.
L’Avvento del “Salvatore”, identificato dagli Ebrei in Simone bar Kosìba, Principe dei Giudei, chiamato col nome profetico messianico “Figlio della Stella” (Kokhba), dimostra che il messianismo gesuita, conseguente all’Avvento di “Gesù” nella loro terra un secolo prima, è un’invenzione che viene spazzata via dalla Storia come carta straccia a conferma delle falsificazioni contenute nelle “Sacre Scritture”.
All’infuori della “vampata” di cristiani apparsa nel cap. 44 del XV libro degli Annali, nelle opere di Tacito, nulla risulta che si riferisca al cristianesimo di “Gesù”, ai suoi prodigiosi capi apostoli, alla sua ideologia ed ai decreti di Roma che, secondo i “Padri della Chiesa”, ordinavano la persecuzione dei suoi adepti. No! Non fu Tacito lo scriba dello spettacolare martirio ardente!
Abbiamo già verificato, nello studio su Giovanni apostolo e in quello su "La Natività", che Tertulliano, vissuto secondo la "tradizione ecclesiastica" dal 160 al 230 d.C., in realtà, non è mai esistito. L'amanuense medievale di "Apologeticum", senza rendersene conto, afferma che i Cristiani (gesuiti), erano equiparati ai Giudei dai Romani, e di questo incolpa lo storico Tacito il quale, in Historiae, si è già visto, parla solo di Giudei … ma, se lo scriba cristiano, che aveva letto Tacito, avesse trovato scritto in Annales:
“…coloro che, odiati per le loro nefande azioni, il popolo chiamava Cristiani. Il nome derivava da Cristo, il quale, sotto l’Imperatore Tiberio, tramite il Procuratore Ponzio Pilato, era stato sottoposto a supplizio…”
come avrebbe potuto riportare le affermazioni in Apologeticum XVI, dal momento che lo storico latino, secondo quanto interpolato da amanuensi falsari, sapeva perfettamente che i Cristiani erano seguaci di Gesù Cristo e adoravano Lui, non una testa d'asino?
E’ dunque provato che il calligrafo di "Apologeticum", non sapeva dello spettacolare martirio perché non era ancora stato inventato dai futuri scribi di Dio, ad iniziare dal concepimento di "Padre Tertulliano", il quale, se fosse veramente esistito, non sarebbe mai incappato in simile contraddizione.
In base ai manoscritti rispettivamente datati, già richiamati nello studio sull'Apostolo Giovanni, evidenziamo che il primo codice "Codex Latinus Parisinus 1623" contenente "Apologeticum" accreditato a Tertulliano risale al X secolo, cioé oltre un secolo prima che apparisse il "Codex Laurentianus Ms 68 II" tacitiano, conservato nella Biblioteca Medicea di Firenze. Queste semplici constatazioni già da sole bastano per dimostrare che Tacito non conosceva i Cristiani seguaci di Gesù ma solo Ebrei, così come lo sapeva benissimo anche lo scriba di "Apologeticum XVI" al punto di essere stato lui, per primo, ad affibbiare al più famoso storico della Roma imperiale una falsa testimonianza su inesistenti gesuiti "adoratori di una testa d'asino" e su un impossibile "Cristo" inventato secoli dopo la Sua presunta "Natività".
Come abbiamo appena letto, lo scriba tertullianeo accusa Tacito di essere “gran chiacchierone di menzogne” … ma, più avanti, saremo noi a dimostrare che il vero falsario fu proprio l'amanuense di Dio quando, allo stesso fine, scrisse di suo pugno, mille anni dopo, facendo "testimoniare" a un "Tertulliano" inventato la dichiarazione dell'Imperatore Tiberio sull'Avvento di "Gesù Cristo" e sul decreto del Senato romano che ne vietava il culto agli stessi Cristiani.
Ma non basta
Se l'eminente storico patrizio avesse stilato manu propria il brano su Cristo, riportato nel cap. 44, non avrebbe mai affermato che Ponzio Pilato era un “Procuratore”, bensì un “Prefetto”.
Il 6 d.C., esiliato da Cesare Augusto l’Etnarca Erode Archelao, sul suo ex territorio fu costituita la Provincia romana di Giudea, Samaria e Idumea, annessa amministrativamente e giuridicamente alla Siria. Venne affidata a Coponio, un governatore di rango equestre con il titolo di “Praefectus”, al comando di più coorti ausiliarie formate da uomini reclutati nelle province e due o più ali di cavalleria, col compito prioritario di garantire l’esazione dei tributi dovuti a Roma e, nel contempo, mantenere l’ordine pubblico.
L’annessione comportava una subordinazione giurisdizionale al Legato di Siria, sia militare che amministrativa; quest'ultima fu attuata, prima, con l’intervento di “tassazione” eseguito da P. Sulpicio Quirinio tramite il censimento del 6 e, dopo, con quello di “detassazione”, effettuato dal Legatus Augusti pro Praetore, Lucio Vitellio, nel 36 d.C.
Col titolo di “Praefectus” i Governatori della Provincia si susseguirono in tale ufficio sino al 40 d.C., perché, l'anno successivo, il 41 d.C., Claudio decretò la riunificazione del regno di Palestina sotto Re Erode Agrippa I, nipote di Erode il Grande, con l'incarico di riscuotere i tributi in quella regione per conto dell'Imperatore.
Da evidenziare che i territori assegnati al nuovo Re giudeo corrispondevano quasi interamente a quelli concessi da Cesare Augusto al defunto Grande Monarca (Ant. XIX 351).
Così come Cesare Augusto fece con Erode il Grande, Claudio impose gli stessi òneri amministrativi al suo nipote, Erode Agrippa I, ripristinando la tassazione originale ai Giudei, affrancata loro da Lucio Vitellio nel 36 d.C.
Era dall’epoca di Erode il Grande che la Palestina non veniva riconosciuta come Grande Regno unificato e, in conseguenza di ciò, Roma smise di inviare i Prefetti che, sino allora, avevano governato la Giudea dal 6 d.C.
Essendo Re di tutta la Palestina, Giuseppe Flavio chiama Erode Agrippa "il Grande" alla pari del nonno "Erode il Grande".
Claudio, proponendosi di rendere più efficiente il sistema burocratico che gestiva l’aerarium, (la conquista della Britannia costava) lo centralizzò creando il fiscus che sottopose alla sua gestione come patrimonium (Dione Cassio, Storia Romana LIII 22) e, alla morte di Erode Agrippa, nel 44 d.C., ricostituì nuovamente la Provincia romana su tutto l’ex Regno, pertanto molto più estesa di quella governata dai Prefetti. Oltre la Tetrarchia del defunto Erode Filippo (un figlio di Erode il Grande), che fu assegnata ad Erode Agrippa da Gaio Caligola nel 37 d.C., erano incluse le regioni di Giudea, Samaria, Idumea, Galilea, Perea e il distretto di Cesarea Marittima. Quindi l'Imperatore “mandò Cuspio Fado come Procuratore della Giudea e di tutto il regno” (Ant. XIX 363) e da allora, sino al termine della prima guerra giudaica, l’ufficio e di conseguenza il titolo dei Governatori romani, in quel territorio, divenne “Procurator”, appunto per rimarcare la maggiore responsabilità inerente alla cura amministrativa autonoma delle proprietà in favore del Princeps di Roma. Morto Erode Agrippa il Grande, Claudio inviò un Procuratore "Procurator Augusti" adottando, anche in questo caso, lo stesso criterio di Cesare Augusto quando morì Erode il Grande: allora l'Imperatore "inviò in Giudea Sabino, Procuratore di Cesare per la Siria, per prendersi cura delle proprietà di Erode" (Ant. XVII 221). Da notare che Erode il Grande, sino alla sua morte, oltre del suo reame era anche "Procuratore di tutta la Siria"; un aspetto importante che abbiamo evidenziato con lo studio sulla "Natività".
I nuovi Procuratori di Claudio, come prima i Prefetti, disponevano di “una schiera (due ali) di cavalleria, composta da uomini di Cesarea e di Sebaste, e di cinque coorti” (Ant. XIX 365) e secondo Svetonio “alcune ali della cavalleria” (Cla. 28); ma, sotto il profilo giurisdizionale e militare, rimanevano subordinati al Governatore di Siria, luogotenente dell’Imperatore e comandante di almeno quattro legioni oltre ai corpi ausiliari.
Nel 1961, archeologi italiani, a Cesarea Marittima, nell'anfiteatro di quella che fu la antica capitale imperiale romana della Provincia di Giudea, rinvennero una lapide (di cm.82 x 65) con scolpito nella pietra:
TIBERIEVM
PONTIVS PILATVS
PRAEFECTVS IVDAEAE
Inequivocabile!… Ma, allora, come è potuto succedere che Tacito - alto funzionario in carriera, dopo aver ricoperto importanti incarichi, compreso il consolato, sino a quello di Governatore d’Asia in qualità di Proconsole, e conosciuto, per esperienza diretta, i rapporti gerarchici connessi a tale responsabilità - nel libro XV degli Annali al cap. 44, abbia potuto scambiare un “Prefetto” per un “Procuratore”?
Ci arriviamo subito. Lo stesso errore, guarda caso, lo commette san Luca nel suo vangelo, di cui riproduciamo sotto i passi interessati (Lc 3,1), ripresi nel “Novum Testamentum” Graece et Latine, H. Kaine, Paris: Ed. F. Didot, anno 1861 e, nel “Novum Testamentum” Graece et Latine, A. Merk, Roma: Pont. Ist. Biblico, anno 1933:
I traduttori latini del vangelo di Luca dal greco, sin dall’inizio (Vulgata di san Girolamo), riportarono la unica “qualifica precisa” di Pilato come “procuratore”, nonostante provenisse da due vocaboli greci di significato diverso trascritti in due Codici distinti.
Successivamente (nell'XI secolo, secondo la stima paleografica del manoscritto laurenziano M II), quando il copista falsario decise di introdurre nella storia dell’incendio di Roma la notizia del “sacrificio” di Gesù, lo abbinò, ovviamente, al nome del suo “sacrificatore”, cioè Ponzio Pilato, che sapeva essere “procuratore” dopo aver letto il passo del vangelo tradotto in latino.
L'amanuense era consapevole di manipolare lo scritto in latino dell’importante storico e questa “precisazione” richiedeva un riscontro che trovò nello stesso Tacito (Ann. XII 54 e 60) quando il romano chiama giustamente (dal 44 d.C. in poi, ma non prima del 41, come stiamo per dimostrare) “Procuratori” di Galilea e Samaria, Ventidio Cumano e Antonio Felice.
Tutto doveva coincidere: la storia che Tacito aveva fatto conoscere agli uomini e la storia che Dio aveva fatto conoscere all’evangelista. La storia doveva confermare la parola di Dio: la Verità da Lui dettata all’evangelista e riportata nel Vangelo.
Verificata la corrispondenza fra san Luca e Tacito, “l’Abate Priore”, senza rendersene conto, ordinò agli abatini amanuensi, di riprendere la qualifica, specifica ma errata, del Vangelo di Luca trasferendola nella “testimonianza” di Tacito.
Scusate … scappa da ridere, ma accadde proprio così: gli ingenui copisti falsari rimasero vittime della loro … “buona fede”.
Questo spiega perché, da oltre mezzo secolo, cioè, da quando fu scoperta la famosa lastra di pietra con scolpito il nome e la qualifica di Ponzio Pilato, gli storici “ispirati” hanno iniziato a convocare congressi, scrivere libri, verbali e relazioni solo su questi quattro vocaboli: Ponzio Pilato Prefetto di Giudea … mentre il popolo dei lavoratori, impegnato a sbarcare il lunario, non si capacitava del perché tanto interesse.
Però loro, gli esegeti genuflessi, avevano già compreso il significato di quella scritta e tratto le conclusioni: la “dimostrazione” storica dell’esistenza di Gesù, testimoniata da Tacito nel cap. 44 libro XV degli Annali, era saltata … non solo, era diventata una prova che, una volta scoperto l’imbroglio, gli si ritorceva contro dimostrando che il cap. 44 fu una interpolazione creata da scribi falsari cristiani per far risultare nella storia ciò che non era vero: a Roma, nel primo secolo, una “ingente moltitudine di seguaci della setta di Gesù Cristo” era un falso conclamato.
Una volta sconfessato dall’archeologia, l’attributo di “Procuratore”, riportato a suo tempo su milioni di Vangeli di Luca in tutto il mondo, diventava, di conseguenza, la conferma della falsificazione dello scritto di Tacito.
Allora gli ispirati storici baciapile corsero ai ripari studiando la strategia da seguire: prima di tutto, per evitare confronti diretti, eliminare, nelle successive edizioni dei Vangeli in lingua moderna, la qualifica di “procuratore”, sostituendola con il più generico “governatore” e, per ovviare al passato, sminuire, sempre e il più possibile, la differenza tra “Procuratore” e “Prefetto”… fino al punto da non poterli più distinguere.
Sapevano e sanno che, in questo caso, i vocaboli originali scritti in greco nei vangeli non hanno importanza.
Tacito scriveva in latino e la sua testimonianza venne trascritta in latino da scribi falsari che si susseguirono nei secoli. A loro risultava che Ponzio Pilato era “Procuratore” perché il vangelo latino di Luca lo definì tale: questo era quanto e ... basta.
Agli storici mistici odierni interessa che i “beati poveri di spirito” continuino ad inginocchiarsi davanti a statue, simulacri e feticci per conservare il potere secolare della Chiesa; pertanto, poiché “Prefetto” e “Procuratore” sono troppo facili da comprendere, derivando l’italiano dal latino, hanno riempito di chiacchiere complicate e senza costrutto relazioni e libri, tirando in ballo il greco, che “ci entra come i cavoli a merenda”, per concludere che Tacito, indifferentemente, avrebbe potuto scrivere sia “praefectus” che “procurator” e, se scrisse “procurator”… fu un caso.
Finsero e fingono di ignorare che Tacito visse nel I secolo e conosceva per esperienza diretta i compiti di entrambi i funzionari, lo stesso vale per Giuseppe Flavio, il quale, come lo storico latino, poteva consultare gli Archivi Imperiali.
I due scrittori non potevano sbagliare sulla investitura di un funzionario che operava in una Provincia imperiale. Incarico preciso e definito, vigente nel I secolo; come stiamo per dimostrare.
Il più antico testo greco, il "Codex Palatinus Ms 14" (su pergamena) della Biblioteca Vaticana, datato con stima paleografica al X secolo e contenente, originariamente, i libri dall'XI al XX di "Antichità Giudaiche" più "Bios" (Vita), è "mancante", guarda il caso, di tre libri: XVIII, XIX e XX, attinenti l'epoca di Gesù e i suoi successori.
Otto secoli dopo la traduzione delle copie manoscritte dal greco delle opere di Giuseppe Flavio, pervenute in forma ufficiale tramite la "Editio Maior" del famoso filologo Benedikt Niese (1849-1910), oggi leggiamo che Pilato era “Procuratore”, ma … quali copie manoscritte dell’ebreo lessero i primi traduttori in latino dal greco quando, tre secoli prima del Niese, riportarono che, Coponio, Marco Ambivolo, Annio Rufo, Valerio Grato e Ponzio Pilato, dal 6 d.C. in poi, furono tutti “Praefectus”?
Come esposto in: FLAVII IOSEPHII “ANTIQVITATVM IVDAICARVM” Libri XX, "DE BELLO IVDAICO" Libri VII, tradotti dal greco (come riportato sul frontespizio) da Sigismundo Gelenio per Hier. Frobenium et Nic. Episcopium, Basileae, MDXLVIII (Lib. XVIII cap. I e seg.), anno 1548, e come risulta in altri testi, anch'essi tradotti dal greco, risalenti allo stesso secolo, che abbiamo copiato con fotocamera digitale.
Dagli stessi documenti risulta che, successivamente alla morte di Erode Agrippa il Grande, Claudio smise di inviare Prefetti e incaricò Cuspio Fado come primo funzionario romano il quale viene indicato come “Procurator”, distinguendo nettamente i due incarichi a riprova che nel manoscritto originale greco, autentica fonte, il curatore della traduzione, Sigismundo Gelenio, vi lesse due vocaboli diversi. Parimenti, alla morte di Erode il Grande, anche Tizio Sabino, inviato da Cesare Augusto, viene qualificato da Sigismundo Gelenio come "Procurator".
Ne consegue che, trattandosi di due circostanze analoghe, è ovvio che Roma, ammministrativamente, si sia comportata con le stesse modalità.
Riportiamo una copia delle pagine 479 e 531 del testo citato con le qualifiche distinte di
"praefectus" et "procurator" (cliccare sopra per visualizzare il testo).
Questa è la prova che cinque secoli fa erano rimaste in circolazione copie di codici manoscritti di opere dello storico ebreo non ancora “epurate” in questo particolare e, nel contempo, è la dimostrazione che la documentazione, fattaci pervenire dal lontano passato dagli esegeti credenti, fu “scelta” e “ufficializzata” allo scopo di depistare la ricerca riportando appositamente, perchè risultasse come tale, “Procuratore” Ponzio Pilato, in “Antichità Giudaiche” e in “La Guerra Giudaica”, e “coprire”, in tal modo, l’errore contenuto nel vangelo di Luca, e quello, conseguente, del passo falsificato di Tacito.
Il sistema di stampa di Gutemberg stava diffondendo, oltre la Bibbia, le opere di Giuseppe Flavio e Tacito, ma, l’errore “dettato da Dio” all’evangelista Luca, dopo essere stato riportato negli “Annales” dello storico latino, costrinse i copisti amanuensi a correggere i manoscritti di Giuseppe Flavio, che ancora riportavano il vero titolo di “Prefetto” da Coponio a Pilato ... e far sparire quelli già copiati correttamente.
Accortisi che l’errore riportato nei vangeli fu ripreso e riportato negli “Annali” di Tacito, i falsari compresero che gli storici li avrebbero collegati e, scoperto l’inganno, denunciato la falsità del martirio di gesuiti fatto da Nerone … pertanto i “Prefetti”, citati da Giuseppe Flavio nelle sue opere, dovevano diventare tutti “Procurator”… come quello di Tacito falsificato.
E’ da molti secoli addietro che le Eminenze Grigie dell'Alto Clero, decisero di “correggere” la storia per salvaguardare la “credibilità” degli scritti sacri, poiché questi, con gli sbagli contenuti, erano ormai enormemente diffusi e ricopiati dai religiosi che li diffusero in tutto il mondo. Al contrario, i manoscritti originali di Giuseppe Flavio, rarissimi ed accaparrati esclusivamente da loro, furono trascritti e poi distrutti.
Errori e manomissioni coperti dagli esegeti genuflessi odierni, nonostante gli sia caduta una grossa lapide in testa, schiacciandone … la logica.
Tramite le attestazioni, trasmesseci dai filologi precedenti sino al Niese compreso, si possono definire in modo preciso le funzioni e le responsabilità amministrative, giuridiche e gerarchico-militari dei Luogotenenti, dei Procuratori e dei Prefetti che governarono nella Provincia imperiale di Siria.
Durante l’epoca del Principato, a partire dall’incarico di “Procuratore di tutta la Siria” (Bellum I 399), conferito da Cesare Augusto ad Erode il Grande, la differenza fondamentale tra la funzione di “Procuratore” e quella di “Prefetto” consisteva nel fatto che, il primo - oltre a governare, difendere e mantenere l’ordine pubblico nel territorio assegnatogli (compito sin qui analogo al Prefetto) - come “curatore” aveva, in più, un “mandato” con il potere di censire, stimare, confiscare, accatastare e decidere amministrativamente, compreso la facoltà di stabilire le misure tributarie, finalizzate a migliorare le rendite dei territori assoggettati al dominio dell’Imperatore (cfr Tacito: Annales XIV 54 e XVI 17).
Sotto il profilo economico-militare, un territorio sottomesso all’Impero poteva essere governato, amministrato e “curato” da un Re indigeno (ovviamente insediato o ratificato dal Cesare), oppure da un pubblico ufficiale “Governatore”, incaricato dall’Imperatore o dal Senato, che poteva essere di rango equestre, consolare o pretorio, di conseguenza scelto in funzione della carica rapportata alla grandezza o importanza economica del territorio o singola città. A partire da un editto del 53 d.C., fra i Procuratori con il compito di curare i beni dell'Imperatore, Claudio (Tacito: Ann. XII 60) nominò addirittura un liberto come suo fiduciario.
“Le sentenze emesse tramite i suoi Procuratori dovevano avere la stessa efficacia di quelle pronunciate da Claudio”.
Con questo decreto (Ann. XII 60) Claudio confermò Antonio Felice, fratello del liberto Pallante, “Procuratore” della Giudea. Fatto non condiviso da Tacito che contro di lui così si espresse:
“Claudio affidò la Provincia di Giudea a cavalieri romani o a liberti. Uno di questi, Antonio Felice, esercitò poteri regali con animo da servo, fra violenze e arbitrii di ogni tipo” (His. V 9).
Questo particolare sta a significare che i Romani e i cronisti dell’epoca seguivano con interesse il potere politico di chi amministrava quella Provincia.
Quando la costituzione del governo di un territorio, sottomesso all’Impero, da monarchica veniva modificata in quella egemonica imposta direttamente da Roma, il Cesare, attraverso un funzionario da lui delegato, era interessato a verificare o rivedere le stime delle rendite precedenti. Quanto più l’estensione o l’importanza economica del territorio si ingrandiva, tanto più le rendite dovevano aumentare.
Solo un “Legatus Augusti”, con mandato specifico, e un “Procuratore” potevano “curare” amministrativamente tali interessi, assumere iniziative ed emettere norme a tal fine. Al contrario, un cavaliere “Prefetto” aveva il dovere di applicare le normative e il potere di farle rispettare; non di modificarle. Il compito di un Prefetto era esclusivamente militare e nella Provincia imperiale di Giudea l’incarico era ricoperto da cittadini romani di rango equestre al comando di più coorti, ognuna delle quali agli ordini di un Tribuno.
Nell’ambito del territorio della Provincia assegnatagli, il “Praefectus” agiva come un Comandante di Brigata, inserito nella gerarchia militare e subordinato solo al Luogotenente dell’Imperatore, Capo di Stato Maggiore, ed allo stesso Princeps.
Come abbiamo visto nei due passaggi sopra riportati, Tizio Sabino (Ant. XVII 221/223) fu il primo “pro curatore romano che si prese cura del Regno alla morte di Erode il Grande” … e, Cuspio Fado (Ant. XIX 363) fu il primo “pro curatore romano che si prese “cura” del Regno alla morte di Erode Agrippa il Grande”.
Dopo la morte di Erode il Grande e dieci anni di guerre e rivoluzioni giudaiche, Cesare Augusto esiliò Archelao e dette un incarico di eccellenza al suo Legato di Siria, comandante di più legioni, Publio Sulpicio Quirinio, per effettuare nel 6 d.C. il censimento della Siria (Erode ne fu Procuratore) e dei territori ad essa annessi, pertanto …
“La regione soggetta ad Archelao fu annessa alla Siria e Quirinio, persona consolare, fu mandato da Cesare a compiere una stima delle proprietà in Siria e vendere il patrimonio di Archelao” (Ant. XVII 355).
“Quirinio visitò la Giudea, allora annessa alla Siria, per compiere una valutazione delle proprietà dei Giudei e liquidare le sostanze di Archelao … e nello stesso tempo ebbero luogo le registrazioni delle proprietà”
(Ant. XVIII 1-2, 26).
Contemporaneamente l’Imperatore inviò …
“Coponio, di ordine equestre, visitò la Giudea; fu inviato (da Cesare) con lui (assieme a Quirinio) per governare sui Giudei con piena autorità” (ibid.).
Lo storico, descrivendo i compiti assegnati da Cesare Augusto, è chiaro: al contrario di Quirinio, Coponio non ebbe l’incarico di “curatore” dei beni imperiali, così come, dopo di lui, quelli che lo sostituirono si limitarono a difendere e conservare quei “beni” essendo cavalieri “Prefetti”.
Lucio Vitellio, nel 36 d.C., Legato di Siria su mandato di Tiberio, con pieni poteri su tutto l’Oriente, poté tassare la tribù dei Cliti di Cappadocia, detassare i Giudei e…destituire Pilato. La descrizione dettagliata degli incarichi espletati dai due funzionari romani da parte di Giuseppe Flavio, ne prova l'esatta conoscenza al punto di evidenziare le diversità.
A partire da Coponio, il 6 d.C., sino al 40 d.C., tutti i Governatori della Provincia di Giudea, compreso Ponzio Pilato, furono qualificati dallo storico ebreo come "Prefetti", in conformità alla spiegazione, data da lui stesso, riguardante l'ufficio da essi svolto.
Gli scribi cristiani sostituirono “Prefetto” con “Procuratore”, come erroneamente riferito nel vangelo latino di Luca, senza capire che gli storici del I secolo, in base al volere dei Cesari, attribuirono compiti diversi ai due funzionari imperiali e, di conseguenza, ne descrissero le mansioni distinte.
Ponzio Pilato fu un Prefetto, non un Procuratore, perciò Tacito non scrisse mai
“Cristiani, il cui nome derivava da Cristo, il quale, sotto l’Imperatore Tiberio, fu condannato a supplizio tramite il Procuratore Ponzio Pilato…”
… ma, ancora non basta …
Parte II: sintesi
Dal IV secolo d.C. in poi, gli scribi dei “Padri” Apologisti si sentirono in obbligo a far “entrare” nella storia “Gesù”, pertanto, nei manoscritti tardo medievali di "Apologeticum", accreditati ad un ignoto Padre Tertulliano (sconosciuto da tutti i "Padri" fino al suo inventore Eusebio), leggiamo di una discussione in Senato, su proposta di Tiberio (che morì il 37 d.C.), mirante a legalizzare il messianismo gesuita:
“Essendo stati annunziati a Tiberio, al tempo in cui il Cristianesimo entrò nel mondo dalla Palestina, i fatti che colà la Verità aveva rivelato della Divinità stessa, votando egli per primo favorevolmente. Il Senato, poiché quei fatti non aveva approvati, li rigettò” (op. cit. V 2).
Lo scopo, fatto proprio dagli storici spiritualisti odierni (indifferenti per tornaconto alla datazione dei codici), era duplice:
1°, far risultare che sin dalla Sua morte si era affermato il movimento dei seguaci di Gesù;
2°, mantenerlo fuori legge, con la bocciatura del Senato, per giustificarne le persecuzioni, inventate, da parte degli Imperatori del I secolo … al contrario delle altre religioni che non ebbero alcuna difficoltà ad essere riconosciute e legalizzate, compresa quella giudaica, la più fanatica nazionalista antiromana.
“E’ bene stare sottomessi e pagare i tributi perché quelli dediti a questo compito sono funzionari di Dio” (Rm 13);
“Schiavi, obbedite ai vostri padroni secondo la carne con timore e tremore” (Ef 6,5);
“Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite perché non c’è autorità se non da Dio, e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio” (Rm 13,1/7).
La votazione del Senato riportata da Tertulliano, ridicola nel contenuto perché nessuno storico dell'epoca riferisce tale decreto avverso il “Cristianesimo”, e tanto meno “l’Annunciazione a Tiberio” (del solito …“Angelo del Signore”?), dimostra l’ipocrisia di cui erano capaci i “Padri”, sin dal IV secolo, allo scopo di dare una base di “verità” alla nuova dottrina che andava evolvendosi dalla primitiva esseno giudaica.
La totale mancanza di fonti documentate, utili a comprovare l'emissione di decreti normativi, specifici, secondo il diritto romano - in base al quale i funzionari imperali avrebbero potuto giudicare, perseguitare e sottoporre a supplizio i cristiani seguaci di "Gesù" - ha suggerito agli esegeti contemplativi odierni di riprendere questo “passaggio storico” di Padre Tertulliano e sottoscriverlo, sfrontatamente, come un “atto probabile di Tiberio” (alcuni da docenti universitari ad iniziare dalle "geniali" cattoliche, Ilaria Ramelli e Marta Sordi) con l’intento di “dimostrare” che il “cristianesimo gesuita” già esisteva negli anni 30, e convalidarne "giuridicamente" la persecuzione in virtù del voto negativo del Senato romano.
Si, i loro nomi rimarranno nella storia ... smentiti sia dalla logica che dalla storia.
Infatti, ancor prima che “Gesù” venisse crocifisso, Tiberio, nel 29 d.C., come riferì Tacito, “facendo valere l’autorità vincolante del principe privò il Senato di ogni potere” (Ann. V 5) e fino alla sua morte (37 d.C.), tale organo non votò più in sua presenza limitandosi ad emettere delibere accertandosi, preventivamente, di non contraddirlo.
Questo particolare storico fu recepito dagli stessi calligrafi cristiani autori dei primi codici manoscritti di Apologeticum - contrastanti fra loro e comparsi, improvvisamente, a partire dal X sec. d.C. in poi - i quali completarono il brano riportato (op. cit. V 2) con il seguente sproposito:
Ma se Tacito avesse documentato la delibera imperiale a favore dei Cristiani, Tertulliano la avrebbe citata con precisione, senza inventarla. Controprova: ammettiamo per assurdo (ma solo per assurdo) che Tiberio avesse emesso un simile decreto … perché Plinio il Giovane sentì il bisogno di scrivere a Traiano (Epistolarum X 96 - è in rete) per sapere come regolarsi con i “cristiani”, e perché l’Imperatore gli rispose (Epistularum X 97, in rete) senza fare cenno all'editto emesso da Tiberio in precedenza? Si trattava di una ordinanza in base alla quale Traiano avrebbe dovuto far giustiziare lo stesso Plinio il Giovane perchè questi, in contrasto all'editto tiberiano, non si limitò ad accusare i Cristiani ma addirittura li torturò e li mise a morte. E’ evidente che il problema “cristiani”, cioè “messianisti Giudei, non gesuiti”, si evidenziò sotto il profilo giuridico, la prima volta, con l'episodio descritto da Plinio il Giovane avvenuto nel 112 d.C.
Tanto più che lo stesso Tertulliano, agli inizi del III secolo d.C. (data, imposta senza costrutto, cui viene fatta risalire la redazione dell'archètipo di "Apologeticum" col brano rifererito su Tiberio), dimostra di non conoscere, contraddicendoli, gli "Atti degli Apostoli", in cui si afferma "ad Antiochia, per la prima volta, i discepoli furono chiamati Cristiani" (At 11,26) sotto il principato di Claudio (41-54 d.C.) anziché sotto quello di Tiberio (14-37 d.C.).
"Messia" cioé "Unto", a se stante, si riferiva esclusivamente a un un titolo e, nel caso esaminato da Plinio il Giovane, il nome di quel “Cristo” era essenziale per identificare il capo di una setta potenzialmente nemica di Roma, ad iniziare dal Vescovo*, loro sorvegliante in capo, successore degli apostoli e dello stesso Cristo … ma, come abbiamo visto, “Gesù” non venne fuori dalle risultanze dell’indagine che non fu affatto benevola con i “cristiani” dei quali molti furono torturati e uccisi (erano Esseni messianisti antiromani) ma, soprattutto, ignorava la relazione di Tacito ... inventata un millennio dopo.
* Qualsiasi culto, compresi quelli pagani, richiedeva la presenza di un "Ministro del Dio": il Sacerdote. E questo valeva anche per i Cristiani, tanto più che, in Bitinia, secondo quanto riferito da Plinio il Giovane, "Non soltanto le città, ma anche i borghi e le campagne sono pervase dal contagio di questa superstizione".
Il mancato interessamento da parte del Legato imperiale di Traiano sull'esistenza di un capo della numerosa comunità religiosa eversiva, in Bitinia, dimostra che non esisteva il Vescovo, perchè, in tal caso, sarebbe stato lui il primo ad essere martirizzato. Questo particolare esclude si trattasse di una "ecclesia" cristiana gesuita (la Chiesa per prima ne è consapevole e non ha mai fatto propri i "màrtiri" di Plinio il Giovane), tanto meno di una Sinagoga ebraica.
Se ne accorse anche lo scriba cristiano che trascrisse, secoli dopo, la "Historia Ecclesiastica" di Eusebio di Cesarea ove si riporta l'evento (HEc. III 33) nel bel mezzo di una successione di Vescovi "assisi sul Trono" che prosegue anche nel IV Libro, ma ... non risulta quello della affollata comunità di Bitinia.
Procediamo con l'indagine dell'episodio in cui si riferisce di "due ancelle dette Ministre": é un altro aspetto importante perché nelle comunità cristiane gesuite, secondo la dottrina (in questo caso equiparata a quella ebraica) riferita da Paolo di Tarso:
"Come in tutte le comunità dei fedeli, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare, stiano invece sottomesse, come dice anche la Legge (Mosaica). Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea" (1 Cor. XIV 34,35);
"la donna impari il silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, nè di dettar legge all’uomo, piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo…essa potrà vivere salvata (andare in paradiso) partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità nella santificazione, con modestia" (1 Tim 2,11).
Tornando a Plinio Secondo, in base alle risultanze della sua inchiesta, é evidente che il Governatore non aveva le stesse cognizioni sui “cristiani” di Tacito, amico poco più anziano di lui. Meglio ancora, né Plinio né Traiano sentono il dovere di “ricordare” quanto avvenuto a Roma in conseguenza del tragico incendio del 64 d.C. e la altrettanto famosa persecuzione da parte di Nerone dei “cristiani” descritti dal cronista romano come "nemici del genere umano affetti da una smodata superstizione”.
No! Tacito, alto funzionario di Roma era conosciuto da entrambi i romani ma, nei suoi “Annales” autentici, non aveva riportato la persecuzione dei "cristiani gesuiti" perché Plinio il Giovane e Traiano la ignoravano.
Da rilevare che la testimonianza dello storico patrizio doveva essere offensiva verso i “gesuiti” poiché era un sacerdote pagano, viceversa avrebbe palesato la sua falsità … e questo gli scribi falsari lo sapevano.
Agli stessi Ebrei, fino al 70 d.C., non venne fatto obbligo di adorare i Cesari. Soltanto dopo la prima guerra giudaica, a partire da Vespasiano, come riporta Giuseppe Flavio, i Giudei furono obbligati a “onorare” gli Imperatori (Bellum VII 416/19) perché, secondo Tacito:
“Gli Ebrei non elevano statue, nemmeno templi e rifiutano queste adulazioni ai Re e onore ai Cesari” (His. V 5).
La guerra era finita, Gerusalemme e il Tempio distrutti, la Palestina giudaica in ginocchio ma gli Ebrei Zeloti dovevano essere giustiziati, ovunque si trovavano, anche ad Alessandria d'Egitto:
“Seicento sicari (zeloti) vennero catturati immediatamente e quelli che avevano cercato di fuggire all'interno dell'Egitto vennero arrestati e riportati indietro (ad Alessandria). Riguardo a costoro non vi fu alcuno che non restasse ammirato per la loro fermezza e per la forza d'animo, o cieco fanatismo che dir si voglia. Infatti, pur essendo stata escogitata contro di loro ogni forma di supplizio e di tortura, soltanto perché dicessero di riconoscere Cesare (Vespasiano) come loro Padrone, nessuno cedette ma tutti serbarono il proprio convincimento al di sopra di ogni costrizione, accogliendo i tormenti e il fuoco con il corpo che pareva insensibile e l'anima quasi esultante. Ma ad impressionare soprattutto i presenti furono i ragazzi, dei quali non uno si lasciò piegare a chiamare Cesare il suo Padrone*: a tal punto la forza d'animo prevalse sulla debolezza dei loro corpi!" (Bellum VII 416/19).
* Gli Ebrei traducevano "Padrone" e "Signore" con "Adonài", un termine usato solo dai Sommi Sacerdoti quando si rivolgevano al loro Dio "Yahweh".
Vespasiano non si considerava “Dio” ma, avendoli combattuti di persona, sapeva come fare per distinguere fra Ebrei e Zeloti integralisti, i quali ultimi, obbedendo alla propria fede nazionalista, non si sarebbero mai sottomessi al dominio di nessun “Padrone” o “Signore” se non al loro Dio Yahweh. La cronaca letta è una vicenda avvenuta in una singola città, inerente il màrtirio di centinaia di Ebrei integralisti i quali preferirono sopportare atroci supplizi anziché rinunciare ai propri ideali. Ma nessun Apostolo, Padre, Vescovo, o storico cristiano accennò alle migliaia di màrtiri appartenenti all'intera ecumene ebraica disseminata nelle Province orientali della Roma imperiale.
Una volta dimostrata la falsificazione di tutte le testimonianze extra cristiane riguardanti i finti màrtiri gesuiti, quell'epoca vide solo Ebrei nazionalisti torturati dai Romani: erano messianisti ("cristiani" dal greco) che speravano nell'avvento del Messia davidico che li avrebbe liberati dal giogo pagano. Il primo storico cristiano gesuita, Eusebio di Cesarea, dopo aver letto negli Archivi Imperiali i fatti descritti da Giuseppe Flavio, ritenne opportuno mascherare le vittime della repressione romana contro gli Zeloti, trasformandole in "discendenti di stirpe reale":
“Vespasiano, dopo la caduta di Gerusalemme, ordinò di ricercare tutti i discendenti della tribù di Davide, perché tra i Giudei non rimanesse più nessuno di stirpe reale. Per questo motivo si abbatté sui Giudei un'altra gravissima persecuzione” (HEc. III 12).
Fino al 70 d.C. nessun Imperatore, compreso Nerone, impose il proprio culto tranne Gaio Caligola, per due anni dal 39 al 41 d.C.: lui si era illuso di essere un Dio, ma la sua insanità mentale fu riferita da tutti gli scribi romani.
Poiché nessuno storico del I secolo accusa i “cristiani gesuiti” di rifiutarsi di venerare “Cesare”, o il “Principe”, ne consegue che la mancata persecuzione dei seguaci di Gesù, da parte del “Dio” Gaio Caligola convinto di dover essere adorato come tale, dimostra che quella setta non esisteva nell’Impero.
Secondo lo stereòtipo del "cristiano" inculcatoci nella mente sin da bambini, inevitabilmente, durante il principato di Caligola, si sarebbe formata una lunga lista di màrtiri da venerare ... se fossero esistiti i cristiani gesuiti.
Chi pagò un grave scotto furono soltanto gli Ebrei alessandrini e poco mancò che il contrasto con la Giudea si trasformasse in conflitto aperto se Gaio Caligola non fosse stato eliminato da un complotto di Stato.
Consapevoli del "vuoto" storico di màrtiri gesuiti sotto il "Dio" Caligola, ad iniziare da "Atti degli Apostoli", nessun Apostolo, Evangelista, Padre, Vescovo, Apologeta, storico cristiano, compresi Eusebio di Cesarea nel IV secolo e Girolomao Sofronio, nonché tutti i "Dottori" e storici ecclesiastici successivi, nessuno di loro menziona il decreto di Gaio Caligola che imponeva a tutti i sudditi dell'Impero di adorarlo come un "Dio" ... ben sapendo che l'assenza di màrtiri seguaci di Gesù Cristo dimostrava che il Suo "Avvento" ancora non era stato inventato nel I secolo.
Capita, a volte, che il silenzio possa diventare una testimonianza.
Ci riferiamo al mutismo di tutti i Padri “apostolici” e “apologisti” della Chiesa Cristiana, dalle origini al IV secolo, quelli cioè coevi o più vicini al grande martirio neroniano: la spettacolare crocifissione di massa con la testimonianza di Gesù e Pilato, non viene riportata da alcuno scrittore dell’Impero Romano, all’infuori di Tacito, ma, contraddizione grave per la verifica critica, è ignorata anche dagli stessi Padri apostolici e apologisti cristiani, scrittori prolissi (i cui manoscritti risalgono al medioevo) pervasi da profondo misticismo e tanta fantasia nell’inventarsi màrtiri, i quali, se fossero veramente esistiti, avrebbero avuto, oltre che l’interesse ideologico fideista, anche il dovere storico di riferire un genocidio così crudele che colpì direttamente fedeli adepti al loro stesso Credo.
Nessuno di loro relaziona dell’eccezionale martirio, neanche l'immaginario Tertulliano (ignoto a tutti i Padri sino a Eusebio del IV secolo) il quale, tramite un manoscritto risalente al X secolo, ci riporta una persecuzione diversa di “cristiani”, non crocifissi ma, tramite “spada” per ordine di Nerone, senza rapportarli all’incendio di Roma, né a Gesù Cristo né a Ponzio Pilato, diversamente a quanto fatto testimoniare da Tacito col Codice laurenziano oltre un secolo dopo il precedente manoscritto. Soprattutto, lo scriba di “Apologeticum” non cita lo storico romano come testimone della vicenda, nonostante, lo abbiamo già accertato in “Apologeticum XVI”, avesse letto le sue opere.
Inoltre, fatto di rilevanza primaria che si ritorce contro gli esegeti mistici odierni (che fingono di ignoralo), Eusebio di Cesarea, lo storico Vescovo cristiano del IV secolo, nella sua “Historia Ecclesiastica” (l'editio princeps risale al 1544, collazionata tra famiglie di Codici datati fra l'XI e il XIII secolo) - improntata ad inventare Vescovi e martiri disseminati in tutto l’Impero Romano sin dalla morte di “Gesù” - pur riferendo il passo di Tertulliano (HEc. II 25,4), Eusebio non riporta la cronaca di Tacito con le atrocità subite dai “cristiani gesuiti” e i dettagli su Gesù, Tiberio e Pilato. Cronaca che non avrebbe potuto sfuggire allo storico Vescovo e da lui tramandata ai posteri se Tacito l’avesse scritta, ma … nessuno poté raccontarla poiché, sino al 339 d.C. quando morì Eusebio, non era ancora stata inventata ... in coerenza col “Credo” di Nicea, del 325 d.C., che non prevedeva Ponzio Pilato come “sacrificatore” del “Salvatore”.
Un altro storico cristiano, il monaco Giovanni Xifilino, rinomato letterato di Costantinopoli, nell'XI secolo fu incaricato dall’Imperatore bizantino, Michele VII Parapinace, a redigere l’epitome dell’imponente opera “Storia Romana” di Cassio Dione, il famoso storico romano e Senatore sotto l’Imperatore Alessandro Severo.
Durante la stesura dell’opera dionea, il credente Xifilino, in diverse occasioni, si sentì in “dovere” di inserire arbitrariamente informazioni su presunti “Cristiani”, a partire dal II secolo d.C., accusando Cassio Dione di non averlo fatto. Come nel caso degli Imperatori Adriano ed Antonino Pio, i quali “furono giusti e miti nei confronti dei Cristiani…al punto che Adriano scrisse lettere contro chi denunciava i Cristiani” (Cassio Dione, Storia Romana LXIX 15,3). Vale a dire il tanto celebrato quanto falso “rescritto di Adriano” in favore dei Cristiani (è in rete e dato per certo dagli storici baciapile che non informano quanto segue) nel quale - fatto impossibile nella sua missiva al Proconsole Minucio Fondano - l’Imperatore sbaglia il nome del precedente Proconsole d’Asia da lui stesso incaricato “Serennio Graniano” invece che “Quinto Licinio Silvano Graniano”. Ma, oltre a ciò, Xifilino, “incollando” questa notizia commise l’errore ingiustificabile quando citò come “fonte” la “Storia Ecclesiastica” di Eusebio di Cesarea, il vero artefice della cantonata (HEc. IV 9,1-3). Un abbaglio che smentisce sia Xifilino che Eusebio, infatti Cassio Dione non poteva sapere di un autore come "fonte", Eusebio di cesarea, vissuto oltre un secolo dopo di lui ma, al contempo e senza rendersi conto, l’ipocrita monaco prova che la mancata relazione sui “Cristiani”, riguardo il "rescritto di Adriano" da parte dello storico romano, dimostra la sua falsità proprio perché, se tale Rescritto di Adriano fosse stato vero, l’avrebbe notificato Cassio Dione direttamente e senza sbagliare il nome del Proconsole della provincia d'Asia ... dal momento che il padre dello storico romano, il Console Cassio Aproniano, fu un testimone oculare diretto riguardo gli eventi accaduti sotto il principato di Adriano.
Questo aspetto sul modus operandi di Xifilino, da noi appositamente evidenziato nel XIX studio, conferma la falsificazione degli Annali di Tacito circa il martirio neroniano. Tanto è vero che, nella lunghissima epitome biografica attinente le gesta dell’Imperatore Nerone, il monaco bizantino riferisce le informazioni critiche di Cassio Dione identiche a quelle di tutti gli storici imperiali ma non dice nulla della strage di una ingente moltitudine di Cristiani, crocifissi ed arsi vivi dal sanguinario e megalomane Cesare. In questo caso il monaco non accusa Cassio Dione (come nella precedente circostanza documentata ed in altre similari) di aver omesso la cronaca del grave massacro di Cristiani.
Ma l’aspetto più significativo si evince dalla dimostrazione che sino all’XI secolo, quando operò Xifilino, nessuno storico cristiano poteva sapere dell’eccidio neroniano di seguaci di Cristo perché ancora non era stato inventato dagli amanuensi di Montecassino.
La “deposizione” tacitiana in esame - lo abbiamo accertato con l'errore evangelico del "Procurator", citato al posto dello storico e reale "Praefectus" romano - è stata creata, molti secoli successivi la prima traduzione in latino dei Vangeli (Vulgata di san Girolamo, inizio V secolo), per mano di un “pio scriba” dopo che il Cristianesimo del "Salvatore del Mondo" era ormai pervenuto al potere e diventato religione di Stato.
Dopo una prima espulsione dei Giudei, voluta da Tiberio nel 19 d.C., questi ultimi nel 41 d.C. "I Giudei erano talmente cresciuti di numero che Claudio non li espulse ma ingiunse loro di non riunirsi, pur permettendo di conservare i costumi tradizionali" (Cassio Dione: Storia Romana LX 6,6). Promulgando un apposito editto, Claudio vietò agli Ebrei alessandrini di accrescersi ed emigrare da Siria ed Egitto definendoli come "una piaga della terra" (Corpus Papyrorum Judaicarum = CPJ II 153). Nello stesso anno, come sopra riferito, l'Imperatore nominò Erode Agrippa I Re di tutta la Palestina ma, dopo la morte di quest'ultimo Re ebreo, sotituito nel 44 dal Procuratore pagano Cuspio Fado, i moti di ribellione in Giudea ripresero vigore e si estesero sino a Roma, di conseguenza, come già Tiberio, anche Claudio ordinò di cacciarli nel 49 d.C. con un decreto che Svetonio sintetizzò in sette parole:
“Iudaeos impulsore Chresto assidue tumultuantes Roma expulit”: i Giudei, su istigazione di “Chresto”, si sollevavano continuamente, (Claudio) li espulse da Roma” (Cla. 25).
Stiamo progredendo nella ricerca e non possiamo fare a meno di rilevare la censura di una cronaca, riportata direttamente nei testi dallo storico fariseo Giuseppe, a noi trasmessa, dai copisti cristiani, mutila di un episodio realmente avvenuto, con il preciso intento di colmare il grave "vuoto" storico dei seguaci di "Gesù".
“Quello che maggiormente li incitò (i Giudei) nella sovversione fu un’ambigua profezia, ritrovata nelle Sacre Scritture, secondo cui, in quel tempo, uno proveniente dal loro paese sarebbe divenuto il Dominatore del Mondo … così alcuni Giudei interpretarono i presagi come a loro faceva piacere, altri non li considerarono”.
Questa testimonianza sul Messia "Dominatore" - ravvisato poi (nel 67 d.C., dopo la sua cattura) dallo storico ebreo in Vespasiano (Bellum VI 310/315) - entrava in contrasto con il Messia gesuita “Salvatore” del Mondo evolutosi dalla riforma degli Esseni a seguito dell'olocausto giudaico del 135 d.C., un secolo prima del quale avevano profetato l'avvento di un Messia cosiffatto nel frammento di Qumran (4Q246):
"Egli sarà chiamato il Figlio di Dio: essi lo chiameranno il Figlio dell'Altissimo. Il Suo regno sarà un dominio eterno ... il popolo di Dio si leverà e fermerà tutti con la spada".
E' facile capire perché gli Esseni, nel secolo successivo, sentirono la necessità di trasformare il "Dominatore" in un "Salvatore", dopo il definitivo sterminio etnico subito dai Giudei sotto l'Imperatore Adriano (132-135 d.C.), in quanto il Messia, atteso "in quel tempo" dagli Ebrei, non riuscì a fare strage di invasori "Kittim" romani. Inoltre, se nel I secolo fosse veramente esistito un Gesù Cristo "Salvatore del Mondo" a guisa dei vangeli canonici o del "Testimonium Flavianum" - falsamente accreditato a Giuseppe Flavio da Eusebio di Cesarea tre secoli dopo - lo storico avrebbe dovuto riferirlo contrapponendolo, ideologicamente, al “Dominatore del Mondo”. In particolare, questa considerazione fu opportunamente valutata dall'impenitente storico falsario Vescovo, Eusebio, al punto che provvide subito a "fagocitare" nella dottrina cristiana la profezia ebraica di Giuseppe sul "Dominatore del Mondo" riferendola a "Gesù Cristo" (HEc. III 8,11) ... ma tenedosi alla larga dal "Christo" di Svetonio.
Ecco spiegato perché gli scribi cristiani, successivamente, si vedranno costretti ad eliminare questa testimonianza dell’ebreo a partire da Eusebio, il quale, nella sua "Historia Ecclesiastica", non riportò la persecuzione di Claudio nei confronti dei Giudei: sapeva che quell'evento, riferito da Svetonio e Giuseppe Flavio, informava su un "Cristo" ideologicamente pericoloso perchè in contrasto con quello della Chiesa.
Eusebio ignorò addirittura gli "Atti degli Apostoli", i quali narrano della persecuzione rapportandola indirettamente a san Paolo (per creare prove sulla sua esistenza) ma "sorvolano" su quel "Christo" evitando di mettere il dito nella piaga della dottrina. Con l'identico fine gli storici clericali odierni di tutte le sette cristiane, non trovando altri appigli, ad iniziare dalla docente cattolica Marta Sordi, hanno scelto di smentire, facendolo passare da scemo, lo storico presbitero cristiano, Paolo Orosio, per aver riferito il brano sopra citato su Christo e i Giudei nella sua opera ... voluta da sant'Agostino.
“Christo” è il nome greco di “Christòs” traslitterato in latino in maniera errata (come già evidenziato l’accostamento “Christo e Giudei” non lascia dubbi che si trattasse di "Christòs", il Messia ebreo) e contraddice il “Christus” in latino corretto di Tacito … ma, era di Tacito?
Svetonio fu Segretario dell’Imperatore Adriano e addetto agli Archivi Imperiali; egli scrisse in latino “Vita dei Cesari” intorno al 120 d.C. Questo particolare induce pensare che i “latini” di Roma, a quella data, non conoscevano la dizione latina corretta di “Christus” … tanto meno “Iesus Christus”.
Poiché Tacito scrisse “Annales” alcuni anni prima di “Vita dei Cesari” redatti da Svetonio, la sua “precisione” della forma letteraria di “Christus”, dimostra che fu introdotta da una “pia” mano molti secoli dopo. Per inciso: il “Christo” di Svetonio (come giustamente riferisce Orosio) è sincero, mentre il “Christus” di Tacito no!
Infatti Svetonio, in qualità di Segretario degli Archivi Imperiali, lesse Tacito, pertanto, se scorrendo gli “Annales” (come a noi risulta oggi nel XV libro) avesse saputo che “Christus” fu ucciso sotto Tiberio (morto nel 37), Svetonio si sarebbe sentito in obbligo di chiarire chi potesse essere quel “Christo” che nel 49 d.C. fu istigatore delle sommosse giudaiche …
Tacito, Plinio il Giovane, Svetonio e Traiano erano contemporanei e al vertice dello Stato imperiale romano, pertanto, non sono accettabili rapporti scoordinati su quel “Cristo”, che si ignoravano l’un l’altro, al punto di sottacere il grave episodio dell'eccidio neroniano di cristiani.
Com’è possibile che Svetonio, quando scrisse “Vite dei Cesari”, non abbia connesso il “Christo” del 49, quello attestato da un costernato ma sincero Paolo Orosio, all’incendio di Roma? E perché lo storico gesuita Orosio non sapeva del martirio di massa di cristiani ordinato da Nerone? Svetonio, segretario degli Archivi Imperiali sotto Adriano, nel 120 d.C., non poteva trascurare, né la grave vicenda storica, né gli “Annales” già scritti da Tacito, che considerava suo maestro, pochi anni prima.
Per contro, com’è possibile che Tacito, al termine dell’incendio di Roma del 64, quando gli scribi falsari gli fecero testimoniare che “Christus” fu ucciso sotto Tiberio (l’Imperatore morì nel 37), non sapesse che lo stesso Christus fu il promotore dei moti giudaici nel 49 sotto Claudio, causa del decreto d’espulsione? Perché Tacito non riferisce questo episodio, avvenuto realmente e conosciuto dai suoi genitori o amici più anziani?
Esiste solo una risposta a queste contraddizioni: la vera cronaca di Tacito sulla persecuzione dei Giudei nel 49 d.C. "impulsore Christo", sotto Claudio, doveva essere censurata dai copisti cristiani nel manoscritto "Laurentianus Mediceus 68 II", come risulta. Essa entrava in contrasto con l’altra “cronaca persecutoria”, interpolata nel passaggio mirato su Cristo e Pilato, finta ma molto più importante ai fini della “testimonianza cristiana”: il martirio dei cristiani gesuiti perpetrato da Nerone riferiva che Cristo era stato giustiziato sotto Tiberio morto nel 37 d.C.
Non è un caso se nessuno dei "Padri della Chiesa" riferì la testimonianza di Svetonio, ad eccezione di Orosio, il quale affermò, esterrefatto, che anche Giuseppe Flavio la riportava ... senza aggiungere altro perché vi lesse che i Giudei erano spronati nei moti insurrezionali convinti dalla profezia che sarebbe giunto il Messia "Dominatore del Mondo": un condottiero divino che li avrebbe guidati nella guerra di distruzione dei "Kittim" romani e liberato per sempre la terra d'Israele dal loro dominio.
In quei fatidici giorni di Luglio del 64 d.C., mentre il fuoco, inesorabilmente, divorava la Capitale del Mondo, un giovane “testimone”, aitante e di belle speranze, si allontanava correndo dal “Palazzo” per sfuggire alle fiamme che avanzavano minacciose.
A volte si dice “guarda caso!”… Beh ... il caso successe veramente: il giovane in questione era il “Testimonium” per eccellenza:… Giuseppe Flavio!
Nella sua autobiografia, (Bio. 3,13-16) lo storico sacerdote fariseo, ebreo conservatore, racconta che alla fine del 63 d.C., allora ventiseienne, su mandato del Sinedrio di Gerusalemme, si recò a Roma a perorare, presso l’Imperatore in persona, la liberazione di altri sacerdoti là inviati, in stato di arresto, dal precedente Procuratore di Giudea, Antonio Felice, per giustificarsi da “accuse risibili”, e si trattenne nell’Urbe sino a circa la metà del 65 portando a termine la missione affidatagli dopo che riuscì a far liberare i sacerdoti e …“ottenuto da Poppea non solo questo beneficio, ma anche grandi favori, me ne tornai in patria”. Giunse a Gerusalemme tra fine 65 inizio 66 d.C. e … “vi trovai i primordi delle agitazioni rivoluzionarie”.
Sì, nel 64 e prima fase del 65 d.C., Giuseppe era a Roma, quindi avrebbe dovuto vedere l’incendio e il martirio di una “ingente moltitudine di cristiani” avvenuto fra cumuli di macerie riarse.
Solo che il “Testimonium” non ne parla. Niente. Né di incendio, né di martirio, né di rovine riarse. Lui riferisce soltanto quello che vi abbiamo detto in poche righe. Lo storico descrive, dettagliatamente, Nerone anche in “Antichità Giudaiche” e in “La Guerra Giudaica”… ma di questo episodio, gravissimo, non fa alcun cenno, pur essendo stato ospitato nella corte da Poppea.
Riflettiamo un momento: sappiamo che l’incendio è avvenuto, essendo troppi gli storici d’epoca che lo citano e i reperti archeologici lo confermano; quindi è scontato che l’ebreo lo abbia visto e ne sia rimasto sconvolto. Un fariseo filo romano ha avuto l’occasione di andare, personalmente, a visitare “la capitale del mondo”, di conoscere dal vero la potenza imperiale, i palazzi degli uomini che dominavano e governavano la terra, l’organizzazione militare, il foro, i monumenti, i templi, i giochi, il circo, i giardini, il Cesare, e … i resti inceneriti della metropoli distrutta dal fuoco ma … nella memoria di quel viaggio non risulta nulla di tutto ciò.
Non torna! No, proprio non torna! Proviamo a sentire cosa dicono “gli storici spiritualisti” nel loro “Congresso”… sì, ne parlano: il silenzio di Giuseppe, sui màrtiri cristiani e sull’incendio, per loro è “ininfluente”! Come, ininfluente?… No! Stanno mettendo le mani avanti, hanno paura di cadere … ora iniziamo a capire: dietro tutto c’è … l’Abate Priore Mistico.
Lui, il Grande Abate Prior, leggendo la “Autobiografia”* dell’ebreo, quando arrivò a questo capitolo che parlava dell’incendio senza citare il màrtirio dei cristiani, capì le gravi implicazioni che ciò avrebbe comportato: diversamente da tutti gli storici che non avevano parlato del martirio correlato all’incendio, Giuseppe era un Giudeo che veniva dalla terra dove “stava dilagando il cristianesimo, la rovinosa superstizione” e come tale veniva chiamato in causa direttamente.
* I manoscritti che ci hanno trasmesso "Autobiografia" (Bios) vennero copiati dagli amanuensi ad iniziare dall'XI secolo, vale a dire alla stessa datazione del "Codex Laurentianus Ms 68 II" degli "Annales" di Tacito la cui falsificazione comportò, gioco forza, la censura di alcuni brani del terzo capitolo di Bios afferenti la permanenza a Roma del sacerdote ebreo durante l'immane incendio del 64 d.C. Parimenti, le date delle trascrizioni più antiche di tutti i resoconti storici di Giuseppe Flavio e Cornelio Tacito insieme, risalgono all'XI secolo: la coincidenza dimostra che la decisione del Clero fu concordata dai più alti gradi gerarchici, previo gli accorgimenti intesi a salvaguardare le "verità" della "tradizione sacra". A tal fine venne trascritto il testo di "Antichità Giudaiche" contenente, per la prima volta, i Libri dal XVIII al XX: il "Codex Ambrosianus F 128", ovviamente con inserito il falso "Testimonium Flavianum" e il "detto Cristo" aggiunto a "Gesù, fratello di Giacomo". I codici trascritti ex novo in epoche successive, beninteso in coerenza, riportano tutti le medesime falsificazioni.
Se Giuseppe, veramente, avesse assistito allo spettacolare martirio dei “cristiani” - nome che lui, a conoscenza del greco, intendeva “messianisti”, seguaci di un “Messia” già venuto, l’Eletto di Yahwhe, il cui “Avvento” fu annunciato dai Profeti … fondatore di una nuova religione, originatasi nella sua terra - come sacerdote giudeo, avrebbe scritto, scritto, e ancora scritto … molto più che il “Testimonium Flavianum”…
Il “Grande Martirio” doveva essere la “Grande Testimonianza” che lui, Abate Priore Mistico Depositario della Verità della Fede Cristiana, aveva fatto rendere a Tacito, lo storico più accreditato di tutto l’Impero! … Ma poi? Cosa ne avrebbero dedotto, un domani, gli storici dal resoconto autobiografico di un sacerdote giudeo, innocente testimone del solo incendio? … No, nessuna logica avrebbe potuto giustificare due testimonianze così contraddittorie fra loro: quella di Tacito sui “cristiani” seguaci di un “Messia” e il silenzio del giudeo Giuseppe sui “màrtiri ardenti” di Roma seguaci del Messia che lui e il suo popolo stavano aspettando.
E questo ancora era niente. Sempre lui, Abate Priore Massimo, sapeva che l’altro “Santo Episcopo, Eusebio di Cesarea, Venerabilissimo Padre della Fede Cristiana”, prima di lui aveva inserito in “Historia Ecclesiastica” il “Testimonium Flavianum” che parlava di “Gesù Cristo”… ma, dopo un martirio di “messianisti” così clamoroso e spettacolare, un’altra testimonianza su quel “Messia” giudeo, additittura "Figlio" dello stesso Yahweh, ed i suoi seguaci crocifissi in Roma, era d’obbligo, ma avrebbe dovuto essere … molto, troppo, più impegnativa.
Testimonianza? Perché testimonianza?! … Sotto la tortura, non testimonianza! Giuseppe, come Giudeo, proveniente dalla terra dove si era generata la “rovinosa superstizione”, sarebbe già stato assimilato dai Romani come "cristianizzato" ed “infiltrato” nel Palazzo, quindi lo avrebbero preso e, prima torturato e poi crocifisso, anche lui, insieme a tutti gli altri “cristiani” messianisti, compresi i sacerdoti che erano in prigione; nondimeno … in tal caso, le opere dell'ebreo non sarebbero giunte sino a noi …
A questo punto, l’Abate Priore Mistico, con le mani tremanti, la fronte imperlata di sudore, decise che la cosa più saggia, per evitare brutte sorprese “storiche”, era … di togliere il capitolo dell’incendio di Roma da tutte le opere dell’ebreo e, di “conservarlo” nell’inceneritore, cioè di renderlo ininfluente … come dicono gli storici baciapile odierni, convinti che il mondo sia pieno di creduloni: “ininfluente”, è ovvio.
E, no! Altro che "ininfluente". Se Giuseppe, come giudeo, poté scrivere le sue opere, vuol dire che non ci fu alcun martirio di cristiani, a Roma, nel 64 d.C., anche se, sappiamo, i “beati poveri di spirito” dovranno rileggersi questo capitolo una dozzina di volte per capirlo … forse.
… ma, ancora non basta …
Parte III: sintesi
Un’altro particolare accomuna gli scritti dei due storici e riguarda, sia il “Testimonium Flavianum”, sia questo capitolo degli “Annales”: entrambi sono interpolazioni inserite cronologicamente in maniera errata.
Ora osserviamo nei particolari l’incendio di Roma avvenuto nel Luglio del 64 d.C. descritto nel XV libro. I capitoli interessati vanno dal 38° al 44°.
Il 38°, 39° e 40° descrivono l’enorme catastrofe e il dramma della popolazione in modo realistico, particolareggiato ed efficace, quasi fosse un evento vissuto da Tacito; quelli dal 41° al 43° parlano della ricostruzione di Roma e la edificazione della “Casa Dorata” (Domus Aurea) di Nerone, ed infine, ma dopo, il capitolo del martirio e la testimonianza su Cristo e Pilato: il famoso 44° controverso.
La capitale dell’Impero, all’epoca, contava circa un milione di abitanti distribuiti in quattordici rioni (regiones urbis) di cui dieci finirono quasi interamente distrutti.
Lo storico, alla fine del 38° capitolo, riferisce che l’immane trappola di fuoco non fu accidentale, ma voluta, e coloro che appiccavano il fuoco con le torce gridavano che “avevano ricevuto l’ordine". Alla fine del 39° leggiamo:
“Si era sparsa la voce che, mentre la città era in preda alle fiamme, (Nerone) era salito sul palcoscenico del Palazzo a cantare la caduta di Troia, paragonando a quell’antica sciagura il disastro attuale”;
e nel 40° vengono ribadite le “dicerie” che accusano Nerone di avere voluto l’incendio per “cercare la gloria di fondare una nuova città e darle il suo nome”; poi, nel 41°, valutazione dei danni; successivamente, nel 42° e 43°, edificazione della “Domus Aurea” e ricostruzione di Roma.
Siamo arrivati al 44° capitolo e rileggiamo:
“Ma nessun mezzo umano, né largizioni del principe o sacre cerimonie espiatorie riuscivano a sfatare la tremenda diceria per cui si credeva che l’incendio fosse stato comandato. Per far cessare queste voci, Nerone inventò dei colpevoli…”.
Si è già capito come andò. Il copista amanuense (era un artista e sappiamo come sono gli artisti) si fumò uno spinello d’incenso di troppo e dimenticò la raccomandazione che l’Abate Priore Mistico gli aveva ripetuto cento volte:
“Fai attenzione fratello … non ti distrarre e rispetta, tassativamente, la cronistoria; pertanto, questo capitolo inseriscilo subito dopo il 40° perché lì si citano le ultime dicerie; occhio! E’ un passo molto importante, e se lo metti in fondo, dopo la ricostruzione, si capirebbe che è passato troppo tempo e le “dicerie”, che devono rappresentare il movente del principe per martirizzare i Cristiani, non avrebbero più senso, e tieni presente che il “Nero” muore nel 68. Hai capito? … Vai! Datti da fare … ah, un momento, quando hai finito portami il manoscritto originale di Tacito che ci penso io a conservarlo … come tutti gli altri”.
L’abatino fece tutto quello che gli disse l’Abate Priore: gli riportò l’originale e questi lo “conservò” subito nell’inceneritore; solo che l’amanuense, avendo capito fischi per fiaschi, inserì il brano “dopo il 43°” anziché il 40°, così oggi leggiamo che il “Nero” soffoca una “diceria” ormai sbollita da anni, tempo necessario trascorso per ricostruire Roma. L’interpolazione incollata dopo la ricostruzione “obbliga” il Principe a fare un supplizio di massa “a freddo” … che non ha più senso, se non per la spettacolare testimonianza dottrinale.
Il vero significato di questo anacronismo saremo in grado di spiegarlo, dettagliatamente, più avanti, con ulteriori informazioni storiche, consapevoli, sin d’ora, che la ricostruzione non poté avvenire prima di due o tre anni.
Come vedremo, nel 66 d.C. si metteranno in moto avvenimenti di una valenza tale che, ad iniziare dalla guerra giudaica, sommati alle conseguenze economiche causate dall’incendio, porteranno alla caduta di Nerone. Vicende che non risultano riportate negli “Annales” di Tacito: svista di gravità estrema che si spiega solo con la censura praticata, molti secoli dopo, dai copisti attenti a non lasciare tracce che permettessero di individuare nessi o correlazioni storiche, pericolose per la credibilità della persecuzione dei cristiani a seguito dell’incendio ... al punto di "portare alla luce" il Codice tacitiano, proveniente dall'Abbazia di Montecassino, ricopiato ma "tagliato" nella cronistoria in maniera mirata. E' doveroso da parte nostra rimarcare questa importante considerazione perché un Padre, Dottore della Chiesa veramente esistito nel IV secolo, san Girolamo Sofronio, in una sua opera "Commentarium in Zachariam" (3,14) giunta sino a noi con questa testimonianza sfuggita ai futuri censori cristiani della storia, riferì:
"Cornelio Tacito stilò trenta rotoli manoscritti sulla vita dei Cesari, dalla morte di Augusto alla morte di Domiziano".
Una informazione, confermata da Tacito (cfr. Annales XI 11), di importanza tale che, al fine di acclarare l'epurazione delle opere tacitiane, ci impone di proseguire nell'indagine perché dalla lettura di tutti i lavori di Girolamo non risulta alcun riferimento ai màrtiri gesuiti crocefissi a Roma da Nerone a causa dell'incendio del 64. Basta scorrere la lunga lista dei primi eroi, fondatori del cristianesimo primitivo, le cui vite furono riportate dallo stesso Girolamo in "De viris illustribus", per accertarsi che, tranne "Giacomo il Maggiore", nessuno degli immaginari Apostoli ed evangelisti risulta essere stato "martirizzato" entro il 64 d.C.: sono tutti morti dopo tale data. Poiché i più antichi codici che ci hanno tramandato il "De viris illustribus" sono datati alla seconda metà del IX secolo (vedi V studio cap. "Le sviste degli scribi tertullianei"), cioè antecedenti al "Codex Laurentianus Ms 68.2" degli Annales di Cornelio Tacito, datato all'XI secolo, ecco spiegata l'enorme contraddizione conseguente alla adulterazione del lavoro del famoso storico latino, il cui titolo originario era "Annalium ab excessu divi Augusti libri triginta". E possiamo scommettere che san Girolamo non si limitò a contare i trenta rotoli, al contrario, li lesse con molta attenzione appunto per verificare l'esistenza dei primitivi Cristiani gesuiti. Ma non vi trovò cronache che potessero accertare l'esistenza di seguaci del Redentore ebreo, Figlio di Dio ... altrimenti le avrebbe citate con precisione storica. E dopo Girolamo, con identico scopo, chissà quanti altri custodi delle "verità" della Fede avranno letto i rotoli di Tacito, invano ... infine hanno scelto di distruggerli dopo averli copiati, previa censura di alcuni Libri e brani, compromettenti, al punto che avrebbero dimostrato l'esatto contrario.
A proposito di inganni, rimarchiamo nuovamente agli esegeti odierni che si accingono a catechizzare la storia: fate molta attenzione e accertatevi,
prima di alterare qualsiasi vicenda reale, delle molteplici "ricadute"
su tutti i fatti interconnessi e conseguenti.
Come il goffo tentativo, intrapreso dallo stesso Girolamo, laddove in "De viris illustribus" Cap. I, per colmarne il vuoto storico "testimoniò" l'esistenza ed il martirio di san Pietro, così:
"Simone Pietro, figlio di Giovanni, nato a Betsaida in Galilea (falso: Betsaida era in Gaulanite, non in Galilea. Vedi VIII studio), e Capo degli apostoli ... durante il secondo anno dell'Imperatore Claudio (42 d.C.), si portò a Roma per debellare Simone mago. Ivi Pietro occupò la cattedra episcopale (fu Vescovo di Roma) per venticinque anni, fino all'ultimo anno di Nerone, vale a dire fino al quattordicesimo anno del suo regno (67 d.C.). Sotto di lui fu crocefisso con il capo all'ingiù e i piedi rivolti verso l'alto".
In "De viris illustribus", ancora san Girolamo volle "testimoniare" anche il martirio di san Paolo al Cap. V:
"Nell'anno quattordicesimo di Nerone (67 d.C.), nel medesimo giorno del martirio di Pietro, Paolo fu decapitato a Roma per la sua fede in Cristo".
Dalle due biografie inventate si ricavano le seguenti contraddizioni:
- Paolo di Tarso scrisse una lettera rivolta "ai Romani" della Chiesa di Roma senza sapere che ne era "Vescovo", dal 42 al 67 d.C. il suo collega apostolo san Pietro, quindi si prova la falsità delle biografie dei due Capi cristiani, beatificati con tanto di reliquie;
- Se Nerone avesse ordinato il martirio dei Cristiani, accusati di aver incendiato Roma nel 64 d.C., i primi ad essere giustiziati, con tremende torture, sarebbero stati Pietro e Paolo, appunto in quanto i due erano Capi della "rovinosa setta malefica cristiana", come definita da Tacito. Fatto ovvio, che però non risulta essere avvenuto.
Come sopra già riferito, la Chiesa, per prima, è consapevole di questa assurdità, quindi prova a "cavarsela" lasciando indefinita la data di morte dei due principali apostoli, compresa fra il 64 ed il 67 d.C., evitando accuratamente di spiegare il movente di questa incertezza per non evidenziarne le incompatibilità ... ben conosciute dalle sottili menti Vaticane. Ecco il motivo che viene deliberatamente celato dagli esegeti del Clero.
Questi ultimi sanno benissimo che la testimonianza di Girolamo, come abbiamo appena visto, è stata trascritta il IX secolo dagli amanuensi nei codici più antichi, vale a dire due secoli prima degli amanuensi che trascrissero il "Codex Laurentianus Ms 68.2". Così facendo, gli scribi falsari di questo secondo codice, inventando la tortura di massa dei Cristiani addebitata a Nerone, senza rendersene conto hanno contraddetto la precisa datazione della morte degli apostoli Pietro e Paolo, riferita da Girolamo, costringendo la Chiesa odierna ricorrere al sotterfugio di allargare la forbice cronologica della loro ipotetica fine, ma senza poter eliminarne la grave contraddizione che, inevitabilmente, sconfessa anche le finte reliquie dei due "santi apostoli" ... mai esistiti.
Sulpicio Severo: un'altra falsa testimonianza
E' doveroso informare i lettori che, una volta accertate le numerose contraddizioni sopra elencate, un altro maldestro tentativo degli amanuensi, inteso ad incolpare Nerone dell'eccidio di cristiani, è avvenuto quasi contemporaneamente al "Codex Laurentianus Mediceus Ms 68.2" e risalente anch'esso all'XI secolo.
Il martirio collettivo di seguaci di Cristo viene riferito anche nell'unico manoscritto, il "Codex Vaticanus Palatinus Lat. 825" in cui fu copiato il "Chronica" (Lib. II cap. 28-29, di cui possediamo copia) di Sulpicio Severo di Aquitania: uno storico cristiano di famiglia patrizia, vissuto dal 360 al 420 d.C., al quale venne accreditata la suddetta "testimonianza".
Nel merito di tale martirio, evidenziamo che - scorrendo il brano riguardante la strage di cristiani - in questo manoscritto manca il riferimento ai principali protagonisti (Cristo, Pilato, Tiberio) e i violenti incisi accusatori avverso i cristiani, ma, soprattutto, non viene citata da Sulpicio la fonte storica costituita da Cornelio Tacito, esclusivo, fra i tutti i cronisti imperiali, a descrivere l'evento sensazionale risalente al I secolo. Ricordiamo ai lettori che ogni cronista dell'Impero, e addirittura gli evangelisti, apostoli, padri apostolici e apologisti, come tutti i successivi storici cristiani - a partire da Eusebio di Cesarea, IV secolo, poi Girolamo sino a Giovanni Xifilino, XI secolo, (autore della epitome di "Storia Romana" su Nerone) - a nessuno di loro risultava la strage neroniana di seguaci di Gesù incolpati di aver incendiato Roma.
E' facile capire che il mancato richiamo della testimonianza diretta di Tacito, da parte di Sulpicio Severo, come l'assenza delle informazioni storiche concrete relative ai protagonisti della vicenda, rappresentano un vuoto incolmabile al punto di provare che allo storico Sulpicio, pur essendo un credente interessato ai propri màrtiri, non risultava la deposizione tacitiana perché, se fosse stata scritta dal cronista imperiale sei secoli prima, Sulpicio Severo si sarebbe obbligato a citarla. Così come avrebbero dovuto farlo il suo coevo amico Vescovo, Paolino di Nola, e Gennadio Scolastico, prete e storico cristiano, del V secolo, che documentò la vita di Sulpicio Severo; ma entrambi gli autorevoli prelati, autori di scritti ecclesiastici, non sapevano del martirio di massa ordinato da Nerone avverso i loro correligiosi. Ciò precisato, possiamo concludere che la strage neroniana di seguaci del Salvatore era sconosciuta anche a Sulpicio Severo, poiché, fino all'epoca di Paolino di Nola e di Gennadio Scolastico non era ancora stata inventata.
Verificati questi fatti, possiamo affermare con esattezza che gli amanuensi del "Codex Vaticanus Palatinus Lat. 825" inventarono la sceneggiatura generale e interpolarono la cronaca del massacro di cristiani, seppur mancante dei dati più significativi, attribuendola falsamente a Sulpicio Severo. Pertanto, da quanto accertato, ne consegue che questo documento si dimostra solo un semplice protòtipo, utile agli amanuensi di Montecassino che trascrissero poco tempo dopo i rotoli degli "Annales" tacitiani nel "Codex Laurentianus Mediceus Ms 68.2" per congetturare l'ingannevole martirio neroniano arricchendolo di importanti particolari storici con nomi di personaggi famosi (Tiberio, Cristo, pilato).
Da evidenziare che gli scribi falsari, al fine di eludere future verifiche, deleterie per la loro finta "testimonianza", distrussero l'autentico manoscritto del "Chronica" di Sulpicio Severo ... dopo essere stato riprodotto (sei secoli dopo la fine dello storico cristiano) con i particollari ingannevoli, ma incompleto dei dettagli, apparentemente fatti narrare da Tacito, sulla falsa strage neroniana dei seguaci di Gesù.
Un particolare degno di essere notato: nel documento di "Chronica" ai cap. 28 e 29 Lib. II leggiamo:
"Luca ha raccontato gli "Atti degli Apostoli" fino al momento in cui Paolo fu condotto a Roma sotto l'Imperatore Nerone ..."
"In quel tempo la religione di Dio era affermata nella Città (Roma), mentre Pietro vi esercitava l'episcopato ..."
"In questo modo iniziarono le persecuzioni contro i cristiani. In seguito la religione fu proibita anche da leggi e furono emanati editti che vietavano esplicitamente di essere cristiani. Fu allora che Paolo e Pietro furono condannati a morte: il primo fu decapitato, Pietro fu crocifisso".
Citando gli "Atti degli Apostoli" lo scriba di Chronica non ha considerato che l'autore, l'evangelista Luca, morto nel 93 d.C., sarebbe stato obbligato a riferire la strage di cristiani perpetrata da Nerone nel 64 ... se fosse veramente avvenuta, ma la testimonianza di Luca non risulta: quindi smentendo lo stesso "Chronica" di Sulpicio Severo. Inoltre, i primi ad essere torturati sarebbero stati Pietro e Paolo, in quanto capi del movimento cristiano: un evento che contaddice le testimonianze degli storici cristiani ad iniziare da Eusebio e Girolamo, secondo i quali Pietro e Paolo furono uccisi da Nerone nel 67 d.C., ma non incolpati dell'incendio di Roma; né, Eusebio e Girolamo, sanno dell'eccidio di massa neroniano. Inoltre, non esiste legge emanata dai reggenti imperiali che proibiva di essere cristiani; chi afferma il contrario lo dimostri con le citazioni d'obbligo.
I primi a comprendere tali assurdità frurono appunto gli amanuensi che trascrissero gli "Annales" di Cornelio Tacito, i quali si guardarono bene dal copiare i sopra riferiti richiami nel loro nuovo manoscritto. Le sottili menti vaticane sapevano (e sanno) che citazioni divergenti sulle biografie dei santi eroi cristiani primitivi avrebbero provato la loro invenzione, di conseguenza i copisti di "Annales" evitarono di entrare nel merito delle testimonianze di "Chronica" tagliando opportunamente i richiami sopra citati.
Ma ancora non basta
Ci sono contraddizioni ideologiche, molto gravi, che dobbiamo definire. Proviamo a metterci nei panni di quel milione di Romani di allora … anzi, ammettiamo per un momento che, nella Roma di oggi, degli energumeni, agli ordini di un “potente” psicopatico, incomincino ad incendiare le case della gente (anche quelle dei credenti), e immaginiamo quali potrebbero essere le reazioni (anche quelle dei credenti) nel sentirsi dire “stiamo eseguendo un ordine”: innanzi tutto gli “esecutori di ordini” verrebbero immediatamente cotti alla brace (anche dai credenti) e, subito dopo, si scatenerebbe una guerra civile contro il “Palazzo” dello psicopatico.
Stabilito ciò, ci sorgono dubbi atroci e …
La seconda domanda è: perché, alla fine del capitolo 44°, dopo aver organizzato lo “spettacolo” e “l’ingente moltitudine” di cristiani ardeva sulle croci per illuminare la scena, il “Nero”, vestito da auriga, se la spassava tranquillamente, non protetto dalle guardie pretoriane, in mezzo al popolo, senza che la plebe si vendicasse del male sofferto facendo arrostire lui, il Principe?
Eppure, “la diceria” popolare, che lo accusava come responsabile, appare ancora (sic!) esplicita nel capitolo 44°.
Chi ha scritto questo è un tarato mentale! Lo scriba falsario non ha riflettuto che fra le case bruciate vi erano anche quelle di una “ingente moltitudine di cristiani” e questo particolare, non solo li avrebbe assolti dall’accusa inventata contro di loro, ma avrebbe promosso la solidarietà popolare in loro favore; anzi sarebbero stati “il popolo”, e Nerone, attaccando loro, avrebbe nuovamente attaccato il popolo di Roma dopo avergli già distrutto le case … No! Non torna! Cosa aspettava quel popolo a reagire? … Qualora fosse vero quanto descritto nel cap. 44°.
E allora, cosa studiare ? … Semplice: riprendere una “diceria” di Svetonio (Nero 38); un brano così confuso che è inevitabile dichiararlo manomesso sia perché in esso risulta edificata la “Casa Dorata” (Domus Aurea) prima dell’incendio, sia perché vi si accusano i “cubicularii”, cioè camerieri! Sì: i “servi di camera”.
Solo amanuensi cristiani deficienti potevano far testimoniare allo storico Svetonio che inermi camerieri di Nerone avessero avuto la forza per incendiare impunemente le case dei Romani senza scatenare una feroce reazione popolare. Ma, contro ogni logica e in mancanza di alternative plaubili, secondo gli esegeti contemplativi odierni, i fatti si sarebbero svolti così …
Lui, con le torce, poteva risolvere tutti i problemi: avrebbe distrutto la città che, essendo poco “ellenica”, gli faceva schifo. L’avrebbe ricostruita, a tempo di “record” e, dopo aver fatto ricadere la colpa sui cristiani, li avrebbe “accesi” crocefissi; ultimo ritrovato tecnologico per illuminare le nuove opere di urbanizzazione, “mox” (subito dopo) la fine dei riti propiziatori e di ringraziamento agli Dei previsti dall’inaugurazione.
Sì, la giornata prometteva bene, batté le mani e chiamò deciso: «cubicularii» e, ancor più imperioso:«cubicularii!». Subito entrarono i camerieri e si inginocchiarono dicendo: «comanda Divino Cesare». E il Nero: «Prendete torce e stoppini e andate a incendiare Roma!»…!?! «Ma, Cesare … hai detto di mettere a fuoco l’Urbe?» … «Sì, e sbrigatevi, che stanotte voglio vedere le lingue di fuoco alte fino in cielo» … «Ma, se i romani fanno obiezione, cosa diciamo?» … « Ditegli che siete stati autorizzati! » … e loro: «Ah … beh, se è così, eseguiamo».
“miracolato un cane, facendolo parlare con voce umana in latino ciceroniano”; “risorgere un’aringa affumicata facendola sguazzare in una piscina natatoria”; “sconfitto il Mago Simone, detto l’Angelo di Satana, facendolo schiantare al suolo in una gara di levitazione”
Ma non gli bastò: alcuni istanti prima di issare la croce fece chiamare Caravaggio e Michelangelo, fra i più grandi pittori di sempre, e ordinò loro di riprendere la scena di quell’esperimento fatidico per tramandarlo ai posteri.
Questa è la ricostruzione scientifica ufficiale dei fatti riportata nel verbale d’assemblea, sottoscritto alla unanimità nel Congresso degli storici spiritualisti in piena crisi mistica, che abbiamo trafugato segretamente.
Ah, c’è anche una nota con scritto “classificato” ma, con l’impegno di non dirla a nessuno, la passiamo ugualmente:
La quinta domanda che poniamo agli esegeti mistici contemplativi è: di tutti gli scrittori che narrano l’incendio di Roma, perché solo Tacito lo collega allo spettacolare martirio?
Noi sappiamo che i tre storici, Tacito, Svetonio e Plinio il Giovane, si conoscevano. Plinio il Giovane era amico di Svetonio e questi, a sua volta, come Segretario degli Archivi Imperiali sotto Adriano, aveva letto gli Annali … allora, perché, dei tre, solo Tacito ha trasmesso ai posteri un evento così eccezionale come la grande crocefissione dei cristiani “ardenti”, incolpati di aver incendiato l’Urbe? Una vicenda di tale gravità era d’obbligo venisse riportata, oltre da loro tre, anche da tutti gli scrittori del I secolo e successivi, ad iniziare da Plinio il Vecchio (Nat. His. XVII 1,5), Svetonio (Nero 38) e Cassio Dione (Storia Romana LXII 16,18), i quali riferiscono dell'incendio incolpando Nerone ma tutti ignorano l'olocausto di cristiani ardenti.
E perché, solo per voi, storici genuflessi (e siete rimasti in pochi), quel martirio è così necessario? Mentre, per un semplice credente, pur sapendo che quel martirio non avvenne, il suo credo non verrebbe intaccato … perché vi ostinate a sentire il bisogno che Nerone abbia messo sulla griglia “una ingente moltitudine di cristiani” ?
Anziché rilassarvi, sapendo che non vi furono innocenti cristiani con i corpi straziati e dilaniati dalle fiamme, perché, la semplice ipotesi che ciò non avvenne la rigettate come se vi dispiacesse? Riempite le vostre relazioni di latinismi, ostentate un profondo sapere del “diritto” della Roma imperiale e dei suoi storici, che citate connettendoli agli “Atti”, ai “Vangeli”, alle “lettere”, ai “Padri apostolici” e ai “Padri apologisti”, in modo talmente confuso e dogmatico che non ci si capisce nulla.
Sciorinando le vostre dotte conoscenze, in questo modo, dimostrate di usarle come “scudo”; i fatti sono semplici, naturali, ma voi la buttate sul difficile e, dopo il vostro, fate in modo di “raggrovigliolare” il cervello della gente “dolciotta” che vi ascolta … pur di non rispondere alla semplice domanda che, da sempre, vi viene rivolta: perché, fra tanti storici, solo Tacito riferì di quel grande e spettacolare martirio? … Possibile che non siate sfiorati da un minimo dubbio? … Possibile che non sentiate il dovere, come studiosi, di valutare che il grande martirio di massa, con la testimonianza di “Gesù Cristo”, non fu riportato sui manoscritti originali di Tacito, così come il “Testimonium Flavianum” di Giuseppe Flavio?
Ciò che leggiamo oggi proviene da copie; gli originali non esistono più: si sono persi nella notte dei secoli entro i bui meandri dei monasteri, volutamente distrutti, e, questa mancanza contemporanea dei manoscritti originali di entrambi gli storici, da sola, dovrebbe obbligarvi, professionalmente, a considerare il movente ideologico religioso di parte, contenuto nei brani riportati, prima di sottoscriverli come “Storia”.
Oppure, ostentando le vostre certezze, intendete coprire, opportunamente, la semplice verità che il fedele comune neanche si immagina? … Si, voi sapete tutto e non volete che gli altri sappiano: tutte le testimonianze extracristiane del I secolo, riguardanti Gesù e i suoi seguaci, sono false.
Fate come i preti di un tempo: quando qualcuno poneva loro una domanda imbarazzante … rispondevano in latino.
Parte IV: sintesi
Allora, Nerone perseguitò o non perseguitò i “cristiani”?
Svetonio dice di sì, senza collegare la persecuzione all’incendio dell’Urbe e, particolare decisivo, senza parlare di crocifissioni ardenti e tanto meno di “Gesù” e Pilato (ancora non erano stati interpolati negli Annali di Tacito).
Una volta accertata la mutilazione del manoscritto tacitiano, anche noi, lo abbiamo capito grazie a Paolo Orosio, Giuseppe Flavio prima di essere censurato (citato da Orosio) e Gaio Svetonio: erano messianisti giudei sempre in tumulto in convinta “Attesa” del “Dominatore del Mondo” prescelto da Yahwhe, sicuri che il potente Messia davidico li avrebbe salvati dal dominio romano.
I “cristiani gesuiti”, al contrario dei Giudei, erano più buoni e - in "attesa" di essere martirizzati - se ne stavano sereni con le mani giunte guardando fissi in cielo "assidui e concordi in preghiera" … ma questo al “Nero” non dava fastidio. Invece così Svetonio:
Come già rilevato, neanche Svetonio, alla pari di Tacito, citò come testimoni e màrtiri, gli Apostoli, i “Padri apologisti” o "Vescovi"; tutti Capi di cristiani gesuiti che sarebbero vissuti in quel periodo anche a Roma, appunto perché i "cristiani" erano “messianisti” giudei … e gli amanuensi che crearono la "tradizione" cristiana lo sapevano bene.
Giovanni apostolo tace dell'eccidio neroniano di gesuiti nelle sue lettere; nemmeno Eusebio di Cesarea, nella sua “Storia Ecclesiastica”, rivendica Svetonio come testimone di una ingente moltitudine di suoi correligiosi “cristiani” martirizzati sotto Nerone, pur essendo un fantasioso inventore di moltitudini di “beati”, tutti decisi a lasciarsi morire: arsi vivi, divorati dalle belve, flagellati, bastonati, inchiodati, lapidati … piuttosto che “ripudiare la fede nel Salvatore”.
Al contrario degli utopici “màrtiri” cristiani gesuiti, immaginati soltanto dalla futura letteratura ecclesiastica, i Giudei erano credenti poco sottomessi, molto irritabili e portati a fare sommosse … per di più, convinti di avere ragione.
In conseguenza della guerra santa contro l’occupazione romana, iniziatasi nel 66 mentre Nerone si trovava in Grecia, l’anno successivo, nel 67 d.C., il movimento messianista giudaico dette luogo a sommosse per protestare contro l’ordine dell’Imperatore di inviare le legioni romane, condotte da Vespasiano, a riprendersi quei territori della Palestina che gli Zeloti avevano liberato “salvato” nell’autunno del 66 d.C., sconfiggendo le armate del Legato di Siria, Cestio Gallo, a Beth Horon.
“Nerone, appena informato dei rovesci subiti in Giudea, fu colto da una segreta angoscia e mentre in pubblico affettava noncuranza e disdegno, stimando che per il prestigio dell’Impero gli conveniva mostrare disprezzo per i casi avversi, ostentava un animo superiore ad ogni calamità; ma la sua ansia interiore era tradita dalla preoccupazione. Egli valutava a chi affidare l’Oriente in sommossa per punire l’insurrezione dei Giudei e impedire il dilagare della ribellione che aveva già contagiato i paesi circonvicini e trovò che il solo Vespasiano era all’altezza del compito…” (Bellum III 1-2).
Il futuro Imperatore Vespasiasiano si distinse come abile condottiero nella gerra che assoggettò la Britannia a Provincia dell'Impero Romano sotto l'Imperatore Claudio.
“I Damasceni (di Damasco), venuti a sapere la disfatta subita dai Romani, si affrettarono a sterminare i Giudei residenti nella loro città… Alla notizia della strage, i Giudei si diedero a devastare i villaggi dei Siri e le città vicine, Filadelfia, l’Esebonitide, Cerasa, Pella e Scitopoli. Poi piombarono su Gadara, Ippo, la Gaulanitide, mettendole a ferro e a fuoco, quindi avanzarono contro Cadasa dei Tiri, Tolemaide, Gaba e Cesarea. Neppure Sebaste e Ascalona resistettero al loro assalto e dopo averle date alle fiamme distrussero anche Antedone e Gaza ...” (Bellum II 462 e segg.).
“Tutta la Siria divenne teatro di orribili sconvolgimenti; ogni città si divise in due accampamenti (Giudei contro Pagani: e i Cristiani?) e la salvezza degli uni consisteva nel prevenire gli altri. E passavano il giorno a scannarsi e a far strage degli avversari spinti dalla cupidigia, infatti si appropriavano a man salva delle sostanze della gente ammazzata e, come da un campo di battaglia, si portavano a casa le spoglie degli uccisi, e si copriva di gloria chi aveva fatto più bottino. Si potevano vedere le città piene di cadaveri insepolti, corpi di vecchi e di bambini gettati alla rinfusa, di donne senza il più piccolo indumento e l’intera provincia (di Siria) piena di orrori indescrivibili” (ibid.).
“Al tempo in cui era stata dichiarata la guerra, e Vespasiano era da poco sbarcato in Siria, mentre dappertutto era salita al massimo la marea d’odio contro i Giudei…ad Antiochia i Giudei furono accusati di aver tramato di dare alle fiamme tutta la città in una sola notte sì che a stento fu impedito che il fuoco si appiccasse a tutta la città … il popolo non seppe contenere il furore e si scagliò contro la massa dei Giudei, convinti che per salvare la patria bisognava punirli e decretò che gli individui consegnati morissero tra le fiamme e subito quelli furono tutti bruciati nel teatro” (Bellum VII 46/48).
Sì, proprio così, questo evento fornirà l’ispirazione della sceneggiatura del martirio “cristiano” di massa ai futuri “Abati Priori” copisti falsari … manca solo Nerone sul cocchio vestito da auriga.
E tutto ciò, come per i martiri riarsi “cristiani gesuiti”, avveniva in Antiochia nella indifferenza dell’evangelista “Giovanni” (sulla mezza età all’epoca dei fatti … se fosse esistito) e dei “Padri Apostolici”, anch’essi inesistenti testimoni per niente preoccupati del pericolo che correvano le folle antiochene cristianizzate da san Barnaba e san Saulo Paolo, in numero tale che "una folla considerevole fu condotta al Signore Gesù e ad Antiochia, per la prima volta, i discepoli furono chiamati Cristiani" (cfr. At 11,20/26).
La rivoluzione popolare del 66 d.C. fu promossa e capeggiata dai sacerdoti giudei (erano migliaia), farisei zeloti ed esseni zeloti, decisi, con una Guerra Santa, a liberare la terra del popolo di Israele dal dominio pagano. Come riferisce Tacito:
“I Giudei assegnavano alla dignità sacerdotale il ruolo di sostenere la propria potenza”.
Giuseppe, discendente dalla “più elevata ed eccellente stirpe sacerdotale”, ormai famoso per la sua impresa, essendo riuscito a liberare i sacerdoti giudei … con l’aria di fronda patriottica religiosa che tirava, dopo un primo momento d’incertezza, ritenne più igienico fingersi dei loro abbracciando la causa della “Salvezza” della Terra Santa.
Su mandato del Sinedrio, in virtù dei suoi titoli, fu insignito del Comando Generale delle forze ebraiche della Galilea, costituite da alcune decine di migliaia di uomini ma, niente affatto convinto di combattere contro le legioni romane, fu investito, anzi … se la squagliò prima di farsi stritolare dal rullo compressore dei legionari del futuro Imperatore.
Lo storico la racconta così ma è fin troppo chiaro che gli interessò salvare la pelle e i futuri personali profitti. Si rifugiò nella fortezza di Iotapata, dove, dopo un assedio di quarantasette giorni si consegnò al nemico in modo vergognoso … e fu la sua fortuna di ambizioso ruffiano, anche se rimase prigioniero sino al 70 d.C.
Tutto ciò avvenne nel 67 d.C., lo stesso anno in cui, nelle città orientali dell’Impero, scoppiarono i tumulti degli ebrei “messianisti” che protestavano contro la missione del Generale Vespasiano; tumulti che, con motivazioni storiche concrete, avvennero anche a Roma.
Da quanto sopra visto, nel cap. 44 del XV libro degli “Annali” di Tacito, la persecuzione dei “cristiani”, così come riportata, venne eseguita dopo la ricostruzione di Roma, ancora sotto Nerone. Ma la ricostruzione di una metropoli avrebbe richiesto anni, non un periodo breve, addirittura un paio di mesi, come quello “ipotizzato” dagli storici baciapile, che si citano l’un l’altro per farsi coraggio e sostenere una tesi assurda (sempre convinti che ci sia un mondo di grulli) finalizzata a giustificare la rabbiosa reazione di Nerone che avrebbe avuto un senso soltanto se fosse avvenuta subito dopo l’incendio.
In realtà i messianisti giudei furono perseguitati nell’Impero per i loro moti contro l’intervento militare dei Romani decisi a risottomettere la “Terra Promessa” nella primavera del 67 d.C., non per aver incendiato Roma tre anni prima: il nesso fra l’incendio e la repressione di Nerone fu artatamente creato da falsari copisti, secoli dopo.
I Giudei messianisti, in quell’epoca tragica per loro, anelavano la venuta di un Messia, non un “Gesù Salvatore” per crocifiggerlo, mangiarselo e berne il sangue, bensì quello dei rotoli di Qumran, vero e proprio Dominatore del Mondo che, grazie alla sua “Rivelazione”, avrebbe distrutto col suo esercito di angeli vendicatori, in una vera e propria nemesi apocalittica, i Romani invasori pagani e la loro capitale: Roma, la “Babilonia del peccato”.
Le sommosse giudaiche, nell’Impero, furono represse da un Nerone adirato da quanto accaduto in Giudea, “luogo d’origine del male, la rovinosa superstizione che dilagava anche per Roma…” vale a dire il “messianismo nazionalista” dei “cristiani zeloti”.
Giuseppe Flavio saprà dei moti da prigioniero, ma quando descriverà la guerra, nella sua opera “dimenticherà” di trascrivere la persecuzione “di spada” ovvero “ius gladii” (come riferita anche da Tertulliano mille anni dopo) del 67 d.C., dei cristiani giudei perché … fu l’Abate Priore a fargli venire l’amnesia con “l’inceneritore”, in quanto sconfessava il cap. 44° del XV libro degli Annali di Tacito.
Mentre Nerone agli inizi del 64 d.C. era a Napoli, Poppea ospitò Giuseppe nel Palazzo romano per quasi due anni (da fine 63 a metà 65) e l'Imperatore, dopo avere accertato la fondatezza delle tesi difensive dell'ebreo, ne accolse le suppliche e adulazioni liberando i sacerdoti giudei verso la metà del 65, ovviamente dopo l’incendio del 64: fatto questo che non sarebbe potuto avvenire una volta iniziata la guerra del 66 d.C.
Da tale data i Giudei, ormai in guerra contro l’Impero, erano visti come nemici; al contrario, prima dell’inizio della rivolta giudaica gli Ebrei non erano considerati ostili da Nerone, anche se spesso agitati.
Erano Giudei, irriconoscenti e tutti mentalmente tarati dall’ebraismo messianista, la “rovinosa superstizione che si era dilagata dalla Giudea, loro terra d’origine ... avendo odio contro il genere umano”… solo una cosa meritavano gli ingrati: il “ius gladii”. E così fu: il “Nero” strinse il pugno e, col braccio teso in avanti, puntò il pollice verso … correva l’anno 67 d.C.
Negli “Annales” di Tacito, a noi pervenuti, non risulta la descrizione della guerra fra i Romani e i Giudei, mentre, nelle sue “Historiae”, il racconto inizia … ma si interrompe al momento in cui Tito predispone le opere d’assedio a Gerusalemme.
Fra gli scrittori dell’epoca, Tacito risulta essere stato il più preciso nel riportare le vicende belliche e civili che coinvolsero l’Impero nel I secolo.
Quella vittoria e la conseguente celebrazione trionfale, cui molto probabilmente assistette di persona all'età di quindici anni, fu trasmessa ai posteri con l’erezione dell’Arco di Trionfo di Tito, esistente in Roma tutt’oggi, ove sono scolpiti nella pietra i simboli religiosi a testimonianza perenne della sottomissione dei Giudei che osarono ribellarsi all’Impero Romano a causa di “una rovinosa superstizione dilagante, non solo in Giudea, luogo d’origine del male, ma anche a Roma, avendo odio contro il genere umano”.
Sotto quell’arco lo storico romano transitò molte volte prima di morire … e scrisse, ne siamo certi, tutti i particolari di quel conflitto.
E' impossibile che Tacito non abbia descritto una guerra tanto sanguinosa, vinta da Roma e degna di essere celebrata con un trionfo. Come in tanti altri episodi, molto meno gravi, riferì che un popolo si ribellò ai Romani motivato dal suo credo integralista: una rivoluzione nazional religiosa che si propagò oltre i confini palestinesi e coinvolse la Siria, l’Egitto ed altre regioni limitrofe. Ma Roma, forte del diritto di potenza imperiale, represse tutti coloro che, in coerenza alla propria fede, non si sottomisero al suo dominio.
A conferma di quanto riportato da Giuseppe Flavio, anche Tacito espose tutto ciò nei suoi “Annales”:
"Spinti dall'odio e dal furore, i soldati romani si divertivano a crocifiggere i prigionieri in varie posizioni, e tale era il loro numero che mancava lo spazio per le croci e le croci per le vittime" (Bellum V 451).
Ma i copisti amanuensi, in futuro, distrussero i manoscritti originali del cronista imperiale perché tali documenti dimostravano che, nel I secolo, in realtà, furono suppliziati soltanto Giudei fanatici nazionalisti. Una storia che avrebbe palesato l’inesistenza dei cristiani gesuiti sconfessandone il martirio come il loro finto Messia "Gesù Cristo".
Un Messia, "Figlio di
Dio", che gli ebrei Esseni ne avevano profetato
l'avvento in qualità di "Dominatore Universale Eterno", come descritto nel "frammento 4Q 246", conservato nei Rotoli, nascosti presso il Mar Morto, per evitare che venissero distrutti dai legionari di Tito, figlio dell'Imperatore Vespasiano:
"Egli sarà chiamato il Figlio di Dio: essi lo chiameranno il Figlio dell'Altissimo. Il Suo regno sarà un dominio eterno ... il popolo di Dio si leverà e fermerà tutti con la spada".
Come abbiamo constatato, in quel periodo furono molti e importanti gli avvenimenti, documentati e connessi fra loro, alla base delle motivazioni storiche che inducono a concludere che Tacito, nei rotoli manoscritti originali, abbia riportato la persecuzione dei messianisti giudei ordinata da Nerone il 67 d.C.
Nel capitolo interpolato viene espresso un giudizio fortemente negativo contro i cristiani che ricalca l’offensivo disprezzo dello storico manifestato verso gli Ebrei e già riportato nel libro V delle “Historiae”.
Le frasi, dovutamente ingiuriose contro questi ultimi (fu sacerdote pagano di estrazione patrizia), rispecchiano fedelmente lo stile di Tacito e molto probabilmente sono le stesse; fatto che non rappresentò una difficoltà per i falsari di Montecassino, specialisti in grafia beneventana latina: al contrario, divennero una guida per formare il senso compiuto della narrazione rendendola “autenticamente” credibile.
Dopo di che al copista bastò “accostare” il brano alla fine della descrizione dei riti purificatori e dei banchetti di ringraziamento agli Dei subito dopo la ricostruzione di Roma “et voilà” : il gioco è fatto! … ma fatto male e fuori tempo.
Per rifinirlo bastò aggiungere il brano degli esecutori, che “appiccavano apertamente il fuoco gridando che questo era l’ordine ricevuto”, alla fine del 38° cap., per incolpare direttamente Nerone, di stile letterario decisamente neutro, ma in stridente contrasto con l’apertura dello stesso capitolo ove lo storico afferma che la causa del disastro fu … “non si sa se accidentale o per dolo del principe”.
Il breve accenno agli esecutori che appiccavano il fuoco è una interpolazione estemporanea dilettantesca. Non è possibile che lo storico patrizio si sia limitato a riferire un particolare simile senza obbligarsi a completarlo del commento necessario a spiegare la estrema gravità di tale operato, indicando, a chiare lettere, che l'unico a poter dare quell'ordine fu un Nerone impazzito.
Lo storico, pur denunciando nelle sue opere una certa decadenza, soprattutto politica, nonché il lassismo e la mancanza di disciplina nei costumi sociali dell’Urbe, ciò nonostante, mai usa un linguaggio così offensivo, come in questo caso, da sembrare un nemico di Roma.
Al contrario, il contenuto e lo scopo delle sue opere palesano la passione politica, morale e patriottica per le sorti di Roma, la sua potenza e la sua gloria.
Nerone, motivato dal pretesto del disastro di Roma, colse l’occasione per rastrellare enormi ricchezze personali; perseguitò i Senatori e in preda a megalomania si fece costruire una fastosa “casa dorata” impadronendosi di circa un terzo dell'intera superfice della città, finendo, in tal modo, con l’alienarsi anche il favore del popolo, sino a quel momento con lui. Ma gli costerà caro: una volta isolato politicamente non gli rimarrà che il suicidio.
"Morì nel trentaduesimo anno d'età e la pubblica esultanza fu così grande che i plebei corsero per tutta la città con i berretti di feltro sulla testa" (Svet. Nero 57).
Ecco perché le “dicerie” popolari che lo incolpano di aver provocato l’incendio, riferite dagli storici, sono autentiche: rispecchiano il pensiero della gente, in ogni tempo sino ad oggi, palesato nella convinzione di un tornaconto personale da parte di chi detiene il potere ed amministra i conti pubblici in conseguenza di catastrofi, guerre, alluvioni, terremoti e … incendi devastanti.
Conclusione
Lo studio riportato ha evidenziato numerose prove che dimostrano la falsificazione del manoscritto "Codex Laurentianus Mediceus 68 II", laddove un abile calligrafo, diretto da un potente e venerabile episcopo, ideò un evento facendolo sembrare una cronaca riferita dal principale storico della romanità: il più grande martirio di massa, mai avvenuto nella Roma imperiale, perpetrato da Nerone contro inesistenti cristiani ... gesuiti.
La conoscenza delle vicende reali, col tempo, lentamente ma inesorabolmente, si diffonderà nel mondo senza che le Chiese Cristiane, i "ministri di Dio" ed i loro accoliti esegeti possano impedirlo.
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