Una grave carestia indusse Yeshùa a proclamarsi Re dei Giudei

 

Preambolo

Atti degli Apostoli:

“Un Profeta di nome Àgabo, alzatosi in piedi, annunziò, per impulso dello Spirito Santo, che sarebbe scoppiata una grave carestia su tutta la terra. Ciò che di fatto avvenne sotto limpero di Claudio" (At 11,28).

Sin dal IV secolo, epoca in cui vennero stilati gli "Atti degli Apostoli" nei rispettivi codici biblici (come il "Codex Sinaiticus" ed il "Codex Vaticanus"), gli storici dei Cristiani giunti al potere - grazie alla lettura dei rotoli del I secolo, conservati nella biblioteca imperiale con le opere dello storico Giuseppe Flavio - conoscevano il problema rappresentato da una funesta carestia che imperversò in Giudea dal 34 al 36 d.C. durante l'impero di Tiberio, non sotto Claudio.
La gravità di quella sventura portò gli Ebrei all'esasperazione al punto che, durante la "Festa delle Capanne" (fine estate inizi autunno) del 35 d.C., il popolo di Gerusalemme, guidato dagli Zeloti, si rivoltò al potere politico che governava la Giudea, allora rappresentato dal Prefetto romano "Ponzio Pilato" (in quel momento a Cesarea Marittima) e dal "Sinedrio" della città santa. Quest'ultimo era una istituzione religiosa, presieduta dal Sommo Sacerdote del Tempio, costituita da settantuno membri, la più autorevole per gli Ebrei nell'interpretare la Legge mosaica, in prevalenza costituita dalla facoltosa casta sacerdotale filoromana.

La ribellione avvenne in concomitanza della guerra dichiarata contro Roma, agli inizi del 35 d.C., dal supremo Re dei Parti, di sangue arsàcide, Artabano III*. La distruzione della guarnigione militare romana, a presidio di Gerusalemme, permise agli Zeloti di insediare nel trono che fu di Davide un discendente degli Asmonei, "Giovanni, figlio di Giuda il Galileo", entrambi nativi della città di Gàmala, roccaforte giudaica zelota inattaccabile militarmente.
In quella circostanza, Giovanni venne acclamato dalla folla come "Yeshùa" (Salvatore) e "Re dei Giudei".
Fu dunque attuato un cambio politico di potere (citato in un memoriale da Giuseppe Flavio nel libro VII cap. 8 della Guerra Giudaica), già concordato dall'asmoneo con il potente Re della Parthia, che comportava l'investitura di Giovanni, tramite l'ancestrale unzione ebraica, sia come Re che come "Sommo Sacerdote" del Tempio. Stesse modalità stabilite dal suo antenato asmoneo, Antigono II, figlio di Aristobulo, quando, nel 40 a.C., dopo essersi alleato con l'allora Re dei Parti, Barzafrane, potè anche lui divenire "Re dei Giudei" e Sommo Sacerdote del Tempio.
Fu così che, per la "Festa delle Capanne" del 35 d.C., in Gerusalemme salì sul trono, come monarca assoluto, un Dottore della Legge (Rabbino), il cui nome era "Giovanni".

* In epoca moderna gli storici hanno individuato il Re dei Parti in "Artabano II", tuttavia, dovendo confrontarci con studi preesistenti di altri autori, per convenzione continueremo a citarlo come "Artabano III".

Nell'XI secolo, gli amanuensi del "Codex Ambrosianus F 128", quando trascrissero il testo di "Antichità Giudaiche", alterarono le cronache del popolo israelita narrate nel III libro di quest'opera laddove lo storico ebreo, Giuseppe Flavio, mille anni prima, aveva riferito le vicende della sua epoca. Scopo degli scribi fu depistare la ricerca degli studiosi sulla precisa datazione della grave carestia che afflisse i Giudei, flagello che innescò la rivolta popolare con l'acclamazione di Giovanni "Re dei Giudei" e "Salvatore" (Yeshùa); fino a quando i Romani, dopo aver sconfitto Artabano III, crocifissero il sedicente monarca giudeo durante le festività della Pasqua del 36 d.C.
Una vicenda che, oltre un secolo dopo, fu idealizzata dalla setta ebraica degli Esseni tramite la creazione di un nuovo mito: il "Messia, Salvatore Universale e Figlio di Dio", col potere di far risorgere i morti donando loro la vita eterna.
Un Messia, "Figlio di Dio", che gli stessi Esseni, oltre un secolo prima, ne avevano profetato l'avvento come "Dominatore Universale" nei Rotoli del Mar Morto, "frammento 4Q 246":

"Egli sarà chiamato il Figlio di Dio: essi lo chiameranno il Figlio dell'Altissimo. Il Suo regno sarà un dominio eterno ... il popolo di Dio si leverà e fermerà tutti con la spada".
 
Un Messia le cui tracce permangono tutt'oggi nei vangeli. Così Luca:
 
"Egli sarà grande e sarà chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di suo padre Davide ... perciò quello che nascerà sarà chiamato santo Figlio di Dio" (Lc 1,32-35).

Così Matteo: "Non sono venuto a portare pace sulla terra, ma una spada" (Mt 10,34).

Ecco come operarono i falsari sul richiamo storico della carestia, ripreso da Giuseppe Flavio ad esempio di integro rispetto del digiuno, previsto dalla Legge mosaica, da parte dei sacerdoti ebrei anche in casi di estrema difficoltà.
 
"Antichità Giudaiche" Libro III 320: "Questa legislazione giunta da Dio, fece sì che questo eroe (Mosè) fosse elevato a un rango superiore alla sua natura; non solo, ma poco prima della nostra presente guerra, sotto l'imperatore dei Romani Claudio, e il nostro Sommo Sacerdote Ismaele,* quando la nostra regione era stretta dalla carestia al punto che un assaron valeva quattro dracme, e quando per la festa degli Azzimi si portarono non meno di settanta cori di farina, il corrispondente di trentun medimni Siciliani o quarantun Attici, nessuno dei sacerdoti osò mangiarne neppure una pagnotta, nonostante la grande carestia che devastava la terra, per timore della Legge e dell'Ira con la quale Dio insegue ognora i crimini, anche se nascosti. Non c'è dunque motivo di meravigliarsi per quanto è avvenuto allora, costatando che a tutt'oggi gli scritti lasciati da Mosè hanno così tanta autorità che persino i nostri nemici riconoscono che la nostra costituzione fu emanata da Dio per mezzo di lui e dei suoi meriti".

* Notiamo le sviste aggiunte, evidenziate in giallo, commesse dagli esegeti di Dio quando alterarono il brano appena letto:
1° - A questo "Ismaele" manca il patronimico "figlio di (bar) Fabi": una omissione che Giuseppe Flavio non ha mai fatto quando, in prima citazione, lo storico riferiva di ogni Sommo Sacerdote del Tempio. Verifichiamo adesso i richiami specifici riportati in "Antichità" (XX 179 e segg.), laddove si attesta l'investitura a Sommo Sacerdote del giovane "Ismaele figlio di Fabi" decisa da Re Agrippa II - sotto Nerone, non sotto Claudio - durata dal 56 al 61 d.C., data in cui fu sostituito dal Sommo Sacerdote "Giuseppe detto Kabi" figlio di Simone.
Nel corso dei cinque anni del sommo sacerdozio di Ismaele accertiamo nella cronaca diretta dello storico ebreo Giuseppe F., già membro del Sinedrio dal 56 d.C. in poi, che non avvenne alcuna carestia.
2° - Al contrario, durante la carestia richiamata in "Atti degli Apostoli" e avvenuta sotto Claudio il 47 d.C. (cfr. Tacito, Annales XI 4) nella lontana provincia di Giudea, il Sommo Sacerdote del Tempio non era "Ismaele", bensì "Giuseppe figlio di Camei", il quale fu nominato da "Erode fratello di Agrippa" al posto di "Simone detto Canthera, figlio di Boeto" (Ant. XX 16). L'anno successivo, sotto il neoeletto Procuratore "Ventidio Cumano" (in carica nel 48 d.C.), fu nominato un nuovo Sommo Sacerdote "Anania figlio di Nebedeo", il quale, nel 52 d.C., verrà arrestato dal Legato di Siria "Ummidio Durmio Quadrato" e non sarà più rieletto dai Romani.
Ricordiamo che gli scribi di Dio presero un'altra cantonata facendo bisticciare san Paolo con questo "Anania" nel 59 d.C. (vedi II studio) qualificandolo come impossibile "Capo del popolo ebraico" e "Sommo Sacerdote" del Tempio, quando il vero Sommo Sacerdote era Ismaele figlio di Fabi. 

La cronotassi dei Sommi Sacerdoti del Tempio è completa dei resoconti degli atti particolareggiati da loro svolti ed accuratamente descritti dallo storico ebreo Giuseppe, peraltro, lui stesso membro del Sinedrio dal 56 d.C. (vedi "Incipit" I studio), quindi testimone oculare e scriba del Sommo Sacerdote "Ismaele figlio di Fabi" in Gerusalemme.
Essendo impossibile che Giuseppe Flavio abbia rappresentato, in due eventi contrastanti, lo stesso Sommo Sacerdote "Ismaele", il quale, peraltro, reggeva il Sinedrio in cui operavano assieme, si dimostra perciò che la citazione evidenziata sopra in giallo è una interpolazione spuria, inserita, la prima volta, in "Antichità Giudaiche" dai redattori del "Codex Ambrosianus F 128", allo scopo di rendere opinabile la datazione della carestia. 
In detto brano, oltre a dichiarare "Ismaele" Sommo Sacerdote contemporaneo dell'imperatore Claudio, un fatto impossibile come si è visto, i calligrafi cristiani dell'undicesimo secolo hanno commesso la leggerezza (che ci ha fatto scoprire l'imbroglio) di trascrivere la stessa frase sopra citata di "Atti degli Apostoli": "la grave carestia che devastava la terra". Fra poco capiremo il perché quella funesta carestia fu costretta dai copisti ad espandersi sul mondo intero oltre la Giudea.    
A questo punto è sufficiente eliminare la estemporanea interpolazione evidenziata in giallo per verificare che l'astinenza dal cibo, prescritta dalla Legge mosaica, fu rispettata, come documentato dallo storico Giuseppe Flavio, da tutti i sacerdoti anche durante la letale carestia che, in quegli anni, afflisse il popolo giudaico, raggiungendo il suo acme nel 35 e 36 d.C., quindi durante il principato di Tiberio.

Tutto ciò premesso, entriamo ora nel merito della vera carestia, oggetto della nostra analisi, per dimostrare la causa che spinse gli storici cristiani, del IV e dell'XI secolo, a falsarne la datazione, prima in "Atti degli Apostoli", poi in "Antichità Giudaiche" e, inevitabilmente, nella "Historia Ecclesiastica" di Eusebio di Cesarea.


Parte prima: La carestia

Tramite la lettura di “Atti degli Apostoli” abbiamo provato l’inesistenza di san Paolo e degli altri protagonisti evangelici, tutti dotati di poteri soprannaturali trasmessi loro dallo "Spirito Santo", descritti in maniera talmente puerile e sciocca al punto che i dotti esegeti ecclesiastici, ad iniziare dal Pontefice, si vergognano di riferire questi particolari ai credenti per evitare di far cadere nel ridicolo i "santi attori" ... ed essi stessi. 
Purtuttavia, bisogna ammettere che sarebbe stato avvincente incontrare per strada uomini con una lunga barba, 
sguardo fisso al cielo, aspetto ieratico ed una "lingua di fuoco posata sulla testa": lo "Spirito Santo" (At 2,3/4) che li accompagnava nel loro incedere solenne ...  
Stiamo per scoprire un altro di questi personaggi straordinari inventati da Luca: il Profeta Àgabo. Costui, grazie al vaticinio rivelatogli dallo Spirito Santo, indurrà Saulo Paolo a recarsi in Giudea per soccorrere i "fratelli" affamati falla carestia.
Seguiamo dunque gli eventi storici concreti ed accertiamo le gesta del mai esistito "super apostolo dei Gentili".

In Atti (At 21,8/11), "a casa di Filippo, uno dei sette" tale Profeta predisse, "Questo dice lo Spirito Santo", a san Paolo la sua cattura da parte dei Pagani (i Procuratori Antonio Felice e Porcio Festo) ... ma, grazie allo studio su Paolo di Tarso, sappiamo che le vicende e i personaggi tutti, compreso Filippo, furono inventati da scribi falsari cristiani con lo pseudonimo "Luca".   
La  mistificazione che stiamo per accertare, come le precedenti, aveva un suo scopo ben definito e vitale per la nuova dottrina: nascondere, in questo caso, la data precisa e relativo contesto storico che indusse Gesù” e i suoi fratelli, capi del movimento di liberazione nazionale degli Zeloti, a prendere il potere a Gerusalemme, il 35 d.C.
Questo fu l'anno in cui Iohannes riuscì a farsi incoronare Re dei Giudei, per poi essere giustiziato dai Romani, appena fuori dalle mura della Città Santa, nel periodo della Pasqua ebraica dell’anno successivo, il 36 d.C.
 
Continuiamo, quindi, a comparare fra loro gli scritti neotestamentari e la storia. Dai "documenti sacri", anche se a prima vista potrebbe sembrare impossibile, siamo in grado di far emergere la Storia, quella vera, dimostrando che gli eventi reali, connessi a “Gesù Cristo”, riguardarono una semplice guerra, fra le molte sostenute dall’Impero Romano, resasi necessaria per mantenere sotto il dominio di Roma una terra i cui abitanti, gli Israeliti, consideravano “Santa” e inviolabile perchè assegnata loro da Dio, pertanto non potevano accettare fosse sottomessa ai Pagani.
    
Giuseppe Flavio, “Antichità Giudaiche” (Lib. XX 101):

“Fu sotto l’amministrazione di Tiberio Alessandro (dal 46 al 48 d.C.) che in Giudea avvenne una grave carestia, durante la quale la regina Elena comprò grano dall’Egitto con una grande quantità di denaro e lo distribuì ai bisognosi, come ho detto sopra”.

Un lettore, dèdito alla lettura progressiva del testo, giunto a questo punto, si rende conto di trovarsi di fronte ad una ripetizione, molto ridotta, di un grave evento riferito, dettagliatamente, poco prima dallo storico … e non può fare a meno di chiedersi il perché.
Ciò che colpisce è il risalto attribuito alla datazione, vero scopo dell’introduzione spuria di questo passo: sotto l’amministrazione del Procuratore Tiberio
Giulio Alessandro (46-48 d.C.), quindi sotto il Principato di Claudio.
In effetti cosa aveva “detto sopra” lo storico ebreo della regina Elena?

"La sua venuta fu di grande utilità per il popolo di Gerusalemme, perché in quel tempo la città era rattristata dalla carestia e molta gente moriva perché sprovvista del denaro per acquistare ciò di cui abbisognava. La regina Elena inviò i suoi attendenti, ad Alessandria, per acquistare ingenti quantità di grano, ed altri a Cipro per carichi di fichi secchi. Quando Izate, suo figlio, seppe della carestia, anch’egli mandò ai capi di Gerusalemme una grande somma di denaro. La distribuzione di queste somme ai bisognosi, liberò molti dai disagi della carestia. Lascio a un altro momento il racconto dei benefici compiuti da questa coppia reale per la nostra città" (Ant. XX 51/53).

Rileviamo subito un primo dettaglio che rende incompatibili le due notizie: quella appena letta, molto circostanziata,
parla di "capi di Gerusalemme" (il Sinedrio, ma non cita un Governatore romano, in quel momento assente come proveremo più avanti), mentre la precedente, laconica, ci informa che vi era un solo "capo", ovviamente romano: il Procuratore Tiberio Alessandro. Una notizia falsa come stiamo per accertare.
Consapevoli che dal 6 al 48 d.C. i Governatori della Giudea che si avvicendarono in quella Provincia erano singoli Legati imperiali romani, ad eccezione dell'interregno del Re ebreo Erode Agrippa I (dal 41 al 44 d.C.), proseguiamo nell'indagine per chiarire meglio. 

Elena e suo figlio Izate furono rispettivamente Regina e Re, ebrei, dell’Adiabene, una regione a sud dellArmenia, ad est dell’alto corso del fiume Eufrate (confine concordato fra l’Impero Romano e la Parthia) ed oltre il fiume Tigri. 
Subito prima di questo episodio leggiamo che, appena nominato Re:

“Quando Izate giunse ad Adiabene per prendersi il Regno e vide i suoi fratelli ... giudicando cosa empia ucciderli, tenendo presente gli affronti ricevuti, ne mandò alcuni a Roma da Claudio Cesare, con i loro figli come ostaggi; e con la stessa scusa altri (fratelli) li mandò da Artabano re dei Parti (Ant. XX 36-37).

L’accostamento cronologico dei due grandi Imperatori nella vicenda è un errore storico gravissimo che Giuseppe Flavio non ha potuto commettere: lui sapeva benissimo che Artabano sarebbe morto nel 38 d.C. perché lo riferisce più avanti (Ant. XX 69). Questa notizia (come ci è stata tramandata dagli amanuensi copisti del “Codex Ambrosianus F 128 dell’XI secolo) fu attribuita allo storico ebreo dopo aver descritto la carestia (citata sopra) e la guerra condotta dal Re parto contro Tiberio; infatti lo storico ebreo sapeva che Claudio fu proclamato Imperatore nel 41 d.C., e del quale ne riporta la cronaca.
Peraltro i manoscritti del cronista ebreo, nel I sec., furono sottoposti alla verifica degli storici romani prima di essere approvati e depositati negli Archivi Imperiali ... e questa è storia di Roma.
Ne consegue che, essendo Artabano vivo, lunico Imperatore avente causa con lui fu Tiberio e non altri.
Che si trattasse dell’imperatore Tiberio lo conferma inequivocabilmente ancora la storia, infatti in "Ant. XX 92" Giuseppe scrive: “Izate morì, avendo l’età di cinquantadue anni e ventiquattro di regno (divenne Re a 28 anni).
Sapendo da Tacito (Ann. XII 13-14) che nel 49 d.C. Izate era ancora vivo, ne ricaviamo che fu nominato Re prima del 30 d.C. ma, avendo letto che, appena insediato nel Regno, mandò i suoi fratelli come ostaggi all’Imperatore di Roma, questi non poteva essere che Tiberio.
Evidenziamo il fatto che Re Izate inviò i fratelli come "ostaggi" (una prassi adottata dai due Imperi, quello Romano e quello Partico, come dimostrazione di lealtà verso l'uno o l'altro Imperatore) ad entrambi i Grandi Reggenti, essendo l'Adiabene situata a sud dell'Armenia, una vasta regione contesa dai Romani e dai Parti, ma quasi sempre assoggettata al potere di Roma in virtù del fatto che le sue legioni riuscirono a sconfiggere tutti i tentativi, messi in atto dagli aggressivi nemici, pur di conquistarla.      

Procedendo nella lettura di "Antichità", dopo l'invio dei parenti di Izate come ostaggi, consapevoli di essere sotto Tiberio, osserviamo la presenza della Regina Elena a Gerusalemme ed il suo provvidenziale aiuto al popolo affamato, come appena riferito. Successivamente, sempre in Antichità XX, dal par. 54 al par. 68, Giuseppe Flavio descrive la crisi politica di Artabano III, supremo Re dei Parti, che, confermata dalla storia di Tacito, sappiamo avvenuta nella seconda metà del 35 e fu causata dal condottiero romano Lucio Vitellio (Ann. VI 31/38).

Da quanto sopra esposto risulta evidente, senza alcuna ombra di dubbio, che la carestia, descritta nei par. da 51 a 53 di "Antichità XX", afflisse la Giudea prima della crisi di Artabano avvenuta alla fine del 35 d.C.; crisi narrata nei par. da 54 a 68. Infatti, a questa carestia posero rimedio (con quali benefici certi è impossibile stabilirlo) innanzitutto la famiglia reale ebrea con aiuti diretti, poi il Legato imperiale Lucio Vitellio, con la detassazione dei prodotti alimentari, che ne abbassò i costi e la tensione sociale, comunicata durante la Pasqua del 36 d.C. (Ant. XVIII 90), a seguito delle vicende sopra descritte.

E’ importante sottolineare che la sequenza cronologica degli avvenimenti, così come la leggiamo in “Antichità Giudaiche”, è semplicemente assurda poiché prima viene citato l’imperatore Claudio (eletto nel 41), cui Izate invia i parenti come ostaggi, poi la carestia che, secondo gli "Atti" di Luca (stiamo per leggerli) e il par. 101 del Lib. XX in “Antichità” (sopra riportato), viene datata dopo il 46, ed infine (il contrasto nella sequenza) sappiamo della crisi del 35 d.C. di Artabano, antecedente la sua morte avvenuta il 38 d.C. Questa progressione insensata di date torna perfettamente a posto correggendo l’errore degli ostaggi inviati all’Imperatore Tiberio anziché Claudio.

Seguendo gli eventi storici apprendiamo che la sconfitta militare di Artabano, avvenuta a fine autunno del 35 d.C., fu causata dall'intervento in Armenia di orde barbariche transcaucasiche, stanziate all'estremo Oriente dell'Impero (pagate da Tiberio), in concomitanza all'invasione della Parthia, oltre Eufrate, eseguita dalle legioni di Lucio Vitellio. Questi, peraltro, riuscì a corrompere numerosi Satrapi, parenti e amici del vecchio Re, al punto di spodestarlo. Il Legato consolare operò grazie al mandato ed ai capitali di Tiberio, riuscendo a riprendere lArmenia, conquistata da Artabano l'anno prima, l'estate 34 d.C. 
Nonostante la grave difficoltà iniziale, Artabano riuscì a superare la crisi grazie allintervento di Re Izate, il quale, agli inizi del 36 d.C.,
convinse i Re Satrapi (Ant. XX 62/66) a riconoscerlo nuovamente come loro “Re dei Re”, consentendogli di riprendere il conflitto sino ad ottenere alcune vittorie. Successi parziali, ma insufficienti per vincere la guerra dato il grande schieramento di forze romane, ancora intatte, agli ordini di L. Vitellio, pronte ad invadere la Parthia una seconda volta mettendo a rischio l'integrità del territorio e la vita dello stesso Artabano.
Alla fine del 36 d.C., Tiberio, consapevole della sua forza, decise di chiudere le ostilità ordinando a Vitellio di incontrare Artabano per stabilire un trattato fra i due Imperi, ma vincolato a precise condizioni. Fu così che (come proveremo più avanti nella 3^ parte) Vitellio e Artabano, agli inizi del 37 si incontrarono sul fiume Eufrate, limes concordato fra i due Imperi, per siglare i patti che imponevano al Re dei Parti il riconoscimento dell'Armenia sotto dominio di Roma, l'obbligo di onorare con sacrifici le immagini di Augusto e Tiberio, infine la consegna del figlio "Dario" da inviare in ostaggio a Roma come garanzia degli impegni presi, quindi:

Giunti al termine degli accordi, il tetrarca Erode (Antipa) diede una festa sotto una tenda da lui innalzata in mezzo al ponte con grande spesa” (Ant. XVIII 101-102).

Tiberio fece appena in tempo a ricevere l'importante
notizia ed esultarne che, il 16 Marzo del 37 d.C. passò a miglior vita. Negli stessi giorni in cui Vitellio, per la seconda volta, si era recato a Gerusalemme, ospite del Tetrarca Antipa, tappa obbligata prima di adempiere all'ordine imperiale che gli imponeva di eliminare Areta IV, già fuggito a Petra nell'arabia Nabatea, colpevole di essersi impossessato di territori sotto Protettorato di Roma, assegnati al Tetrarca da Cesare Augusto. Ma il destino volle che, in quello scorcio di tempo, scoccasse l'ora anche per il Grande parto …

Poco tempo dopo Artabano morì e lasciò il regno a suo figlio Vardane” (Ant. XX 69). Correva l’anno 38 d.C.

Dopo le necessarie puntualizzazioni storiche, utili a scadenzare correttamente le passate vicende, ritorniamo alla carestia per approfondire il movente che impose agli amanuensi cristiani la sostituzione del nome dellimperatore, Tiberio con quello di Claudio, al fine subdolo di farci credere che la fatale penuria di cibo si verificò sotto quest'ultimo Cesare, esattamente come riportata in “Atti degli Apostoli” (11,28-29), laddove si arricchisce "l’eschetta storica" della carestia con l'abituale camuffamento della "Profezia" divina:

“Un Profeta di nome Àgabo, alzatosi in piedi, annunziò, per impulso dello Spirito Santo, che sarebbe scoppiata una grave carestia su tutta la terra. Ciò che di fatto avvenne sotto limpero di Claudio. Allora i discepoli si accordarono per mandare un soccorso ai fratelli abitanti in Giudea, indirizzandolo agli anziani per mezzo di Bàrnaba e Saulo (Paolo)”.
 
Da evidenziare che i redattori di “Atti degli Apostoli”, così come quelli delle "lettere di Paolo", erano al corrente della verità storica della carestia sin dal IV secolo d.C., purtuttavia, gli scribi cristiani, dopo averci passata questa informazione, si dimenticarono di riferire la conclusione della missione” di san Saulo Paolo nella Giudea, sebbene motivata da una causa specificata e importante per la gravità della sciagura, abbattutasi su quella regione, al punto di provocare numerose vittime fra la popolazione.
Ciò che importava agli amanuensi lucani era solo far risultare che avvenne sotto Claudio, pertanto … perché sprecare altro prezioso papiro e inchiostro? Senza contare il rischio di prendere qualche svista storica. 
Infatti il riferimento a Claudio non fu accidentale ma mirato. “Luca”, spulciando fra gli eventi accaduti alla ricerca di un alibi per sviare gli studiosi, dopo aver scartato una carestia avvenuta a Roma sotto Tiberio nel 32 d.C. (Tacito Ann. VI 13) poiché coincidente all’epoca del “Gesù” evangelico, trovò il pretesto in un’altra carestia che afflisse Roma durante il principato di Claudio, riportata da Svetonio e da Tacito:

“…l’addebito avanzato contro uno dei due fu d’aver visto, in sogno, Claudio cinto di una corona di spighe volte all’indietro, con conseguente predizione di una carestia (Ann. XI 4).

Questo “sogno profetico” servì a “Luca” per farsi “dettare da Dio” il vaticinio del Profeta Agabo e depistare, cronologicamente, la vera carestia, molto più grave, avvenuta in Giudea ove raggiunse l'acme negli anni 35 e 36 d.C.; ma, essendo i due territori troppo lontani fra loro, per contenerli entrambi fece dichiarare al Profeta che “una grave carestia sarebbe scoppiata su tutta la terra: un evento di così elevata drammaticità, tale da dover essere riferito da ogni scrittore dell’epoca. Fatto che non si è verificato, ovviamente, perché, quella di Roma, più che di una seria carestia si trattò di carenza di cibo, di breve durata, risolta senza che nessuno morisse di fame; diversamente da quanto avvenne in Giudea. Intanto abbiamo evidenziato il movente che, in osservanza dei su citati "Atti degli Apostoli", gli ingenui amanuensi del "Codex Ambrosianus F 128", nell'XI secolo commisero la leggerezza di "testimoniare" in un testo storico una assurdità evangelica.   

La eccezionale penuria di generi alimentari fu letale per molti Giudei e questo evento divenne una delle cause scatenanti che spinsero "Yeshùa" a prendere il potere in Gerusalemme facendosi proclamare Re dei Giudei.
A questo obiettivo concorsero i pellegrini dell'ecumene ebraica, soprattutto Galilei, Idumei e Giudei, oltre gli abitanti di Gerusalemme esasperati dagli stenti; tutti in rivolta contro il potere imperiale e l'aristocrazia religiosa filo romana.
Al fine di impedire che tale calamità, unitamente agli eventi bellici in corso fra il 34 ed il 36 d.C., richiamasse l'attenzione degli storici inducendoli a indagare e scoprire che il 36 fu la data della morte di "Gesù Cristo" e, peggio ancora, individuare che l'uomo veramente esistito non corrispondeva ideologicamente all'essere prodigioso, soprannaturale, creato sul suo mito molto tempo dopo gli avvenimenti reali, gli scribi cristiani lucani fecero slittare in avanti di oltre dieci anni la notizia riguardante la carestia: sotto Claudio anzichè sotto Tiberio.

L’Eminente Episcopo, Eusebio di Cesarea, grazie alla sua posizione di rilievo presso la corte del Pontefice Massimo, l’Imperatore Costantino, fu il primo cristiano che poté accedere agli Archivi di Stato e consultare i rotoli manoscritti integri di "Antichità" di Giuseppe Flavio. Preso visione degli eventi reali e delle gravi ricadute avverso la dottrina cristiana, quando inventò la “Historia Ecclesiastica” in essa riferì di tale carestia in modo particolareggiato e, per renderla più credibile, non poté fare a meno (e lo ringraziamo!) di citare la “testimonianza” di Giuseppe Flavio, ovviamente modificata, rapportandola sia a quella di "Atti degli Apostoli" con la profezia di Àgabo, sia all’intervento della regina Elena: il tutto avvenuto sotto Claudio (HEc. II 12,1/3). 
Con la sua “testimonianza”, il Vescovo gesuita intese “garantire” le menzogne di “san Luca” in “Atti” falsificando le notizie dello storico ebreo, nei punti sopra riferiti, allo scopo di nascondere l'identità dei veri protagonisti delle vicende e la loro datazione; ma Eusebio commise il grave errore di specificare che quella era la carestia della regina Elena, la stessa, lo abbiamo visto, che la storia dimostra essere avvenuta sotto Tiberio anziché sotto Claudio
Eusebio mistificò in Historia Ecclesiastica il contenuto dello stesso rotolo manoscritto che riportava la cronaca, in origine completa del vero nome con patronimico, riguardante il Profeta Theudas di nome Giuda, uno dei fratelli di “Gesù”; non solo, fu costretto ad eliminare anche la notizia, sopra annunciata dallo storico ebreo, riguardante ulteriori elargizioni a beneficio di Gerusalemme, che avremmo certamente letto in Antichità:
 
“Lascio a un altro momento il racconto dei benefici compiuti da questa coppia reale per la nostra città” (ibid).

San Paolo Saulo, “il Segretario di Stato” senza jet-executive, fu lui ad occuparsi della “colletta” per gli aiuti e possiamo star certi che i Giudei, finalmente, se pur oltre dieci anni dopo, si rimpinzarono a sazietà e gli storici contemplativi mistici, odierni, allibiti dalla suddetta profezia, inghiottono l’eschetta infilzata sull’amo del “Profeta”, quasi fosse un’ostia consacrata e, all’unanimità, si attivano subito per “interpolare” con note a pié di pagina, allusive alla carestia sotto Claudio e agli “Atti degli Apostoli”, i testi didattici e “Antichità Giudaiche”, allo scopo di indottrinare i giovani in ossequio alla veridicità storica di uno pseudonimo: "san Luca evangelista" … l’impostore.

Ma perché questa menzogna - riferita in "Atti" e ripresa in "Historia Ecclesiastica" - fu ritenuta talmente rilevante al punto di manomettere la fonte principale: gli scritti di Giuseppe Flavio?
Della funesta carestia lo storico ebreo già ne parla in “Antichità Giudaiche” all’inizio del XVIII Libro, par. 8, nel preambolo riferito agli Zeloti e così introduce:
 
“Per colpa loro ribollirono sedizioni e si sparse molto sangue civile, sia per i massacri che facevano i nazionalisti fanatici (gli Zeloti), sia per la strage che facevano dei loro avversari. Venne poi la carestia che li rese sfrenati in modo travolgente…”

Se gli “Atti degli Apostoli” ed Eusebio di Cesarea hanno sentito la necessità di mentire sulla datazione di questa calamità è evidente che era vitale per la dottrina cristiana e doveva essere depistata per impedire la ricostruzione delle vicende che coinvolsero i veri protagonisti col rischio che venissero identificati in “Gesù Cristo” e i suoi fratelli.

Dal 34 al 37 d.C. avvenne un conflitto fra Roma e il Regno dei Parti perché Artabano III, il loro Re dei Re, come riferito da Tacito (Ann. VI 31) Si impossessò dellArmenia minacciando di invadere le terre già possedute da Ciro e Alessandro, fra le quali era compresa la Palestina. Per impedirlo, nella primavera del 35, Tiberio inviò ad Antiochia il suo "Legatus Augusti pro Praetore" di rango consolare (34 d.C.), Lucio Vitellio, con pieni poteri su tutto lOriente, e questi, durante la crisi bellica che si protrarrà sino agli inizi del 37 d.C., trovò il tempo di recarsi a Gerusalemme, 600 km più a Sud, alla testa delle sue legioni, nel periodo della Pasqua ebraica del 36 d.C., per:

“Intanto Vitellio giunse in Giudea e salì a Gerusalemme dove i Giudei stavano celebrando la loro festa tradizionale chiamata Pasqua. Accolto con molti onori, rilasciò in perpetuo agli abitanti tutte le tasse sulla vendita dei prodotti agricoli e acconsentì che labito del Sommo Pontefice, e con esso i suoi arredi, fossero custoditi dai sacerdoti nel Tempio” (Ant. XVIII 90).

Questo evento ha un pròlogo: nel XV Libro di “Antichità Giudaiche” lo scrittore spiega che laSacra Veste”, appartenuta ai Re e ai Sommi Sacerdoti di sangue Asmoneo, fu tolta ai Giudei alla morte di Re Erode il Grande.
Da allora i Romani la custodivano nella fortezza Antonia e la concedevano ai Sommi Sacerdoti solo per le festività ebraiche (Ant. XV 403/409). E’ evidente l’alto valore simbolico, e di  potere, che tale paramento sacro rappresentava per il popolo giudeo … e i Romani ne erano consapevoli
Ciò si protrasse fino alla Pasqua del 36 d.C., appunto, quando Vitellio riconsegnò la sacra veste alle autorità religiose dopo aver nominato un nuovo Sommo Sacerdote filo romano. Lo storico conclude il pròlogo dicendo che: Questa digressione è stata occasionata dalla triste esperienza che si ebbe dopo(ibid). Ma quale “triste esperienza si ebbe dopo"? E perché la "digressione" provocò la deviazione o rottura della prassi descritta?
In “Antichità” non troviamo la spiegazione dell'importante preambolo - che avrebbe dovuto essere riferita nel XVIII libro, prima del brano citato riguardante il condono delle tasse ai Giudei - perché verrà censurata anch'essa dagli scribi di Dio.

Nel corso di una guerra contro l'Impero dei Parti (un immenso Stato orientale, da sempre rivale di Roma, governato da un “Re dei Re”) non è credibile che luomo più potente dellImpero Romano dopo Tiberio, in virtù del mandato ricevuto, si sia recato tanto a Sud, a Gerusalemme, solo per detassare i Giudei sui prodotti agricoli perché affamati dalla carestia.
Che bisogno c’era per Vitellio, Luogotenente di Tiberio, Comandante di tutte le forze romane dOriente, di recarsi in Giudea alla testa delle sue legioni durante un frangente bellico rischioso, sempre in atto, e lasciare Antiochia, sede del più importante presidio militare anti partico? Sarebbe bastato inviare corrieri al Prefetto Ponzio Pilato, suo subalterno, con l’ordine di alleggerire i tributi ai Giudei. Al contrario, per imporre le tasse sarebbe stato necessario limpiego della forza non per abolirle. Esattamente come fece lo stesso Vitellio agli inizi del 36 d.C. Così Tacito:

"Sotto il consolato di Quinto Plauzio e Sesto Papinio (36 d.C.) ... La tribù dei Cliti, soggetta ad Archelao di Cappadocia, vedendosi costretta, in conformità all'uso romano, a denunciare le proprietà e a pagare i tributi, si ritirò sulla catena del Tauro, dove, per la nativa conoscenza del posto, si sentivano protetti contro le imbelli truppe del Re, finché il Legato Marco Trebellio, là inviato dal governatore della Siria, Vitellio, con quattromila legionari e ausiliari scelti, circondò con opere di assedio i due colli (chiamati Cadra il più piccolo, Davara l'altro) su cui si erano insediati i barbari, costringendo con le armi alla resa quanti osarono attaccare, per sete gli altri." (Ann. VI 41).

Quando un Generale romano, Capo di Stato Maggiore, al comando di più legioni, si muoveva in un momento così difficile e pericoloso, voleva dire che era accaduto qualcosa di grave e, per l’Impero Romano, “grave” significava “guerra”.
Approfittando della situazione politica internazionale, nel 35 d.C., mentre Lucio Vitellio era alle prese con Artabano III, Re dei Parti, gli Zeloti giudei colsero il momento propizio del conflitto fra Roma e la Parthia per innescare la rivolta e liberare Gerusalemme, la Santa, dalla dominazione pagana...

"Venne poi la carestia che li rese sfrenati in modo travolgente"

Era in atto una grave carestia e il popolo affamato, per di più “vessato dai tributi dovuti a Cesare”, venne incitato dai profeti zeloti con veementi prediche per il ripristino della Legge di Yahwè. I Giudei si ribellarono alla guarnigione romana pagana che stanziava nella Città Santa, massacrandola "... e sfasciarono tutto ciò che restava degli ordinamenti civili" (Bellum VII cap. 8). Questo richiamo fatto dallo storico è inserito in un memoriale di famiglia al fine di denunciare le gesta eversive del Capo zelota Giovanni, citato espressamente da Giuseppe Flavio, tali da giungere a sopprimere gli "ordinamenti civili" costituiti dal governo romano e dai sacerdoti opportunisti del Sinedrio collusi con il potere imperiale.  
 
Un discendente di stirpe reale asmonea, l’influente Rabbino di Gàmala, Giovanni il Nazireo*, figlio primogenito del Dottore della Legge, Giuda il Galileo, definito dallo storico "di grande potere", alcuni giorni prima della Festa delle Capanne del 35 d.C. (inizio autunno) si mise a capo della rivolta riuscendo a farsi riconoscere
Re dei Giudei e insieme Sommo Sacerdote del Tempio. Una volta eliminato il contingente militare di Roma, Giovanni restaurò la prassi degli antenati monarchi Asmonei che rivestirono entrambi i sacri uffizi di Re e Sommo Sacerdote, quindi indossò la "Veste Sacra" e si cinse il capo con il diadema reale.

* Come attestato con maggiori particolari nello studio precedente, siamo in grado di identificarlo attraverso l'analisi di un lontano ricordo, riguardante i suoi parenti, riferito da Giuseppe F. alla fine della Guerra Giudaica, Libro VII cap. 8.

Per gli Ebrei, in quel momento, Giovanni fu il “Yeshùa” (Salvatore) della terra santa, quindi, dopo essersi fatto consacrare Messia (Cristo) tramite il rituale dell'unzione prescritto dalla ancestrale Legge, dette inizio ad un nuovo Regno, senza schiavi, in cui “solo Dio era Padrone, adempiendo i precetti della "Quarta filosofia, una novità sinora sconosciuta che concorda con tutte le opinioni dei Farisei eccetto nel fatto che costoro (gli Zeloti) hanno un ardentissimo amore per la libertà"(Ant. XVIII 23), filosofia le cui basi furono ideate da suo padre, Giuda di Gàmala, detto "il Galileo".

Ma non durerà a lungo. A fine autunno del 35 d.C., Vitellio riusci a mettere in crisi Artabano costringendolo alla fuga e, dopo aver assoggettato nuovamente l’Armenia al dominio di Roma, da oltre il fiume Eufrate, "ove si era spinto col nerbo delle legioni romane e gli alleati" invase il Regno dei Parti, poi, "ritenendo bastevole aver fatto mostra delle armi romane ai Grandi Dignitari parti, rientrò in Siria ad Antiochia con le sue legioni" (Tacito, Ann. VI 37).
Quando il condottiero romano raggiunse il Presidio in Siria, alla fine del 35, venne informato degli eventi accaduti in Giudea e, dopo aver fatto riposare l’esercito nei quartieri invernali, si rimise in marcia alla testa delle sue legioni per riconquistare Gerusalemme e giustiziare il monarca, che, illegittimamente, si era proclamato Re dei Giudei.
Nel frattempo aveva già inviato il Prefetto Marcello a Cesarea Marittima per rilevare Ponzio Pilato dal suo incarico e predisporre la logistica necessaria all'esercito romano, in attesa del suo arrivo. 
Il Legato imperiale considerò il Prefetto Ponzio Pilato responsabile della perdita di Gerusalemme non essendo riuscito a prevenire la sommossa. In occasione delle festività ebraiche, Pilato avrebbe dovuto rafforzare il contingente degli ausiliari romani stanziati nella Fortezza Antonia, anzi tempo, come previsto dalle precise consegne militari.

Un paio di giorni prima della Pasqua del 36 d.C., Lucio Vitellio, dopo aver cinto d’assedio ed inviato un ultimatum alla Città Santa, ormai impossibilitata a resistere senza scorte di viveri (gli aiuti di Elena non poterono durare a lungo e sfamare un popolo intero), ne otterrà la resa e la consegna del Re abusivo.
Fu il Sinedrio, convocato dallo stesso Giovanni in qualità di Sommo Sacerdote del Tempio, in un momento così drammatico, a decretare la fine del Re ed il suo breve regno. Così argomentò Caifa, agli anziani riuniti, l'intimazione di Vitellio della resa di Gerusalemme:

"Considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera" (Gv 11,50).

Questa testimonianza, sopravvissuta alle censure ecclesiastiche praticate al "vangelo di Giovanni", già da sola dimostra come il pericolo per l'intera nazione giudaica non poteva essere costituito dalle semplici forze ausiliarie reclutate da un Prefetto, individuato nei vangeli in Ponzio Pilato. Soltanto un Proconsole "Legatus Augusti pro Praetore" come Lucio Vitellio - capo dello Stato Maggiore romano di stanza ad Antiochia in Siria, inviato da Tiberio con pieni poteri su tutto il contingente militare dello scacchiere orientale - era in grado di distruggere una rivolta degli Ebrei coordinati in una "Santa Alleanza".

Per Giovanni, il "Salvatore" Re dei Giudei, non vi fu alcuna possibilità di scampo e accettò il suo destino: la crocifissione. Venne arrestato e portato nella Fortezza Antonia, incatenato e piantonato a vista. La Veste Sacra, ancor prima indossata da Caifa, fu depositata nel Tempio e assegnata in tutela al Sommo Sacerdote "Gionata", appena nominato da Vitellio e figlio del sadduceo conservatore Sommo Sacerdote Anano ("Anna" dei vangeli); mentre il Diadema (la Sacra Corona) ritornò sotto la custodia del Tribuno, Comandante della Guarnigione romana e rimarrà nella fortezza cinque anni sino a che, per volere di Claudio Cesare, potrà cingere il capo del futuro Re dei Giudei, Erode Agrippa il Grande.
Il giorno successivo, dopo un lungo, inutile interrogatorio, sotto tortura, per fargli confessare i nomi dei complici ed i particolari sulla organizzazione rivoluzionaria, Giovanni il Nazireo, figlio di (bar) Giuda, venne crocifisso pubblicamente, come monito rivolto agli Ebrei inteso a rimarcare la potenza dell'Impero Romano.

Giovanni era il capo dei Farisei Zeloti, la setta, fondata da suo padre il 6 d.C., era la più popolare fra i Giudei, soprattutto fra i giovani, per i principi filosofici e gli scopi prefissi. E gli Zeloti, come gli Esseni, erano votati al martirio pur di “salvare” la Terra Promessa da Dio al popolo d’Israele. In quanto Capi degli Zeloti, la esecuzione dei fratelli, figli di Giuda il Galileo, doveva essere pubblica: un esemplare mònito agli Ebrei. Nove anni dopo Giovanni, nel 45 d.C., toccherà a suo fratello, il Profeta Giuda, detto "Uriel", il mitologico angelo vendicatore (in greco "Theudas": Luce di Dio).
Anche se questi fu ucciso da Cuspio Fado, lontano da Gerusalemme, la sua testa fu portata nella Città santa e lì esposta: altro avvertimento significativo. Due anni dopo, nel 47 d.C., sarà la volta di Giacomo e Simone: anch'essi crocifissi pubblicamente dopo essere stati catturati e processati dal Procuratore Tiberio Giulio Alessandro.
Non sarà così per il quinto figlio di Giuda il Galileo, il più giovane. Nel 66 d.C., Giuseppe, detto Menahem*, capo degli Zeloti, dopo aver distrutto la guarnigione romana di Gerusalemme, anche lui, come Giovanni, si proclamerà Re dei Giudei ma verrà ucciso dalle Guardie del Tempio agli ordini della aristocrazia sacerdotale che aveva spodestato.
* Identificare Menahem con Giuseppe, il quarto fratello di Giovanni "Yeshùa", sarà semplice come l'uovo di Colombo.  

Zeloti, Esseni, Farisei, Sadducei e il popolo tutto, distanziati da un fitto cordone di sbarramento composto da miliziani romani, presenziarono in silenzio, impotenti, alla morte di Giovanni, sopraggiunta dopo una lunga agonia
"fra i più atroci tormenti d'ogni sorta fino all'ultimo istante di vita"
(Bellum VII cap. 8,272), consapevoli del suo significato, mentre fuori Gerusalemme erano accampate le legioni di Roma. In base alla legge romana, alla vittima predestinata veniva appeso al collo un cartello con il nome e la motivazione della pena capitale.


Parte seconda


I N R I : IOHANNES NAZIREVS REX IVDAEORVM
 
Per esigenze ideologiche, la futura iconografia cristiana ha rappresentato il supplizio del suo Dio affisso su una croce, stilizzata ma irreale per il complesso lavoro di falegnameria con tanto di "crux" a incastro e "predellino" poggia piedi; quest'ultimo dimostra che, ancora oggi, non si conosce il modo preciso con cui i Romani trafiggevano i piedi ... quando li trafiggevano. Un ritrovamento archeologico, risalente al I secolo, mostra la crocifissione di un ebreo con i chiodi infissi dentro i legamenti del collo dei piedi, entrambi posti ai lati del palo di sostegno della croce.
Viceversa, quella "sacra", descrive una tortura, ritualizzata con modalità irreali, che vede il condannato percorrere una immaginaria "via crucis", senza riscontro alcuno con la letteratura classica.
Lucio Anneo Seneca (3 a.C. - 65 d.C.), il famoso filosofo stoico coevo a "Gesù", in "De Consolatione Ad Marciam" (XX 3) afferma che le croci (o patiboli) venivano realizzate in molti modi per torturare i condannati. Oltre Seneca anche Marco Tullio Cicerone, Maccio Plauto e Plinio il Vecchio, pur riferendo sulle crocifissioni, nessuno di loro accenna alla "via crucis": una complicazione ridicola perché avrebbe obbligato il servizio d'ordine a muovere il cordone di miliziani intorno al condannato e seguirlo. La crocifissione di "Cristo" doveva ostentare un macabro spargimento di sangue, molto copioso per simboleggiare il sacrificio eucaristico universale, tuttavia la scritta "I N R I" non poteva nascondere il "Sacro Cuore di Gesù" pertanto la parte superiore della "crux" fu prolungata appositamente, a mò di "locandina", per ospitare il più famoso manifesto dell'umanità indottrinata.
     
Yahweh aveva abbandonato Giovanni al suo destino e per gli Ebrei questo voleva dire che non poteva essere il Messia prescelto da Lui. Secondo i Profeti ebrei, l'intervento di Yahweh avrebbe schierato le potenze celesti e la Sua Ira annientato la supremazia dei "Kittim" pagani invasori con una grande strage; consentendo al popolo eletto di costituire un "Regno che sarebbe durato in eterno" (Rotoli di Qumran: frammento 4Q 246).
Il vero "Messia" giudeo sarebbe stato un "Dominatore del Mondo" il cui avvento, dato per certo dai Profeti, spinse i Giudei alla guerra contro Roma, come spiegò Giuseppe Flavio in "La Guerra Giudaica" (VI 317).
Ma lo storico ebreo non poteva prevedere che, dopo la sua morte, sarebbe nata una nuova dottrina messianista, derivata dalla "quarta filosofia, una novità sinora sconosciuta", intesa a riformare il "Messia" giudaico ("Christos" in greco) da "Dominatore del Mondo" in "Salvatore del Mondo": Gesù (Yeshùa).

Nell'analisi precedente abbiamo dimostrato che "Giovanni" era sulla croce non sotto la croce, come riportato nel vangelo in cui risulta attorniato da tre "Marie", madri di figli con nomi giudaici corrispondenti ai fratelli di Cristo. "Marie", appositamente inventate per confondere e impedire ai credenti di capire il nesso, tra i figli dell'unica, vera, Maria, con i figli di Giuda il Galileo, tramite l'abbinamento degli appellativi che risultano identici. Ma, appunto per rendere opinabile la correlazione fra madri e figli con lo stesso nome dei fratelli di Cristo, gli scribi dei vangeli aggiusero sotto la croce anche una "Maria" senza figli: Maria di Magdala. Tuttavia, questo ingenuo artificio lo abbiamo smentito nell'VIII studio, in cui "Maria senza figli", stando ai vangeli, risulta abitare a Bethania; laddove l'evangelista prende una serie di abbagli, tali, da coinvolgere "Maria di Magdala" fino a renderla fiabesca come la risurrezione del fratello "Lazzaro".
In realtà, prima e durante la crocifissione, a nessuno era consentito avvicinarsi al condannato, tanto meno i parenti. 
Le esigenze escatologiche imposero agli amanuensi cristiani, di questa rappresentazione evangelica, ideare una scena incompatibile con la storia:

"Stavano presso la croce di Gesù sua madre (Maria) e la sorella di sua madre, Maria di Cleofa (sic! due sorelle con lo stesso nome) e Maria di Magdala. Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che Egli amava disse alla madre:"Donna, ecco tuo figlio!" (Gv 19,25-26).

Il non meglio specificato "discepolo che Gesù amava", che il vangelo identifica con "Giovanni figlio di Maria, madre di Cristo", sarebbe stato crocefisso anche lui se avesse osato avvicinarsi ad un condannato alla pena capitale pubblica e atrocemente torturato come esemplare mònito agli Ebrei per dissuaderli ad imitarne le imprese. L'unica possibilità permessa dalla Legge di Roma a Giovanni il Nazireo era quella di essere inchiodato sulla croce ... chiunque altro doveva mantenersi alla larga, tenuto a bada con le armi.

"Allora tutti i discepoli, abbandonandolo (Gesù), fuggirono" (Mt 26,56).

Nel vangelo secondo Matteo, almeno su questo aspetto, la legge di Roma viene ottemperata. I Suoi fratelli e gli Zeloti più in vista sapevano di poter essere identificati e denunciati da qualche delatore del partito conservatore, contrario a quei cambiamenti sociali che avevano cancellato i privilegi acquisiti prima del breve regno di "Yeshùa". Vantaggi sociali e ricchezze combattute dall'ideologia della "quarta filosofia, una novità sinora sconosciuta", ideata nel 6 d.C. da Giuda il Galileo, padre di Iohannes bar Yehudas.

Giovanni era il nome di uno dei figli di Maria, "madre di Gesù", elencato assieme agli altri suoi fratelli, come riferito in alcuni codici manoscritti del vangelo di Matteo che abbiamo elencato nel primo studio "Non sono esistiti gli Apostoli".
 
Non vi fu alcun processo per stabilire la colpevolezza o meno dell’imputato, non ve n’era bisogno: la flagranza di reato era manifesta. Giovanni, un suddito dell'Impero approfittò della guerra contro i Parti per insediarsi con la forza sul trono di un territorio di Tiberio: un ribelle senza cittadinanza romana divenne nemico di Roma e come tale fu eliminato. Ecco perché.

Limpossibile processo a Gesù

La regola del processo penale nelle Province imperiali della Roma antica dove, come nella Giudea, non esistevano Tribunali romani in loco, prevedeva che gli abitanti, accusati di reato e muniti del Diploma di Cittadinanza Romana, dovevano essere inviati a Roma. Come nel caso dei due processi, secondo i documenti neotestamentari della Chiesa, subiti dal "cittadino romano" san Paolo sotto Cesare Nerone. Processi mai avvenuti nella realtà (vedi studio su Paolo di Tarso).

In Giudea, giudice unico era il Governatore che, in quanto Magistrato romano, era munito di “imperium”, quindi il solo a detenere il “ius gladii” (diritto di uccidere), appositamente conferito dal Cesare in carica. I Magistrati imperiali di stanza in Giudea (Prefetti dal 6 al 40 d.C. e Procuratori dal 44 al 66 d.C.) detenevano il potere esecutivo e la forza militare per applicare
le sentenze da loro emesse.
Il reato più grave, commesso dal mitico “Gesù Cristo”, se fosse realmente avvenuto, sarebbe stato il “crimen perduellionis”, consistente nella sedizione contro le istituzioni dello Stato e considerato alto tradimento (basta consultare un vocabolario di latino).
Il procedimento penale era documentato negli appositi “Atti” da inviare all’Imperatore e, durante l’interrogatorio, il Magistrato chiedeva e registrava le generalità dell’imputato, ad iniziare dalla città di residenza e la Gens o la Tribù di appartenenza, dal patronimico ed i nomi degli eventuali parenti diretti i quali, senza una loro esplicita denuncia preventiva, erano ritenuti complici: un insieme di dati obbligatori che, assurdamente, non sono richiesti all’imputato dal Prefetto imperiale, Ponzio Pilato, durante il processo a Gesù. Fatto che, già a se stante, non lo rende credibile, dimostrato peraltro da ulteriori aspetti, particolarmente gravi, per le numerose testimonianze relative ai peggiori reati, commessi dall’imputato, contro il dominio romano.

Crimini imputati a Gesù

Un atto di accusa di interesse primario del diritto romano consisteva nel sovvertimento del potere prefettizio del Legato imperiale incaricato dal Cesare e conseguente Colpo di Stato, attuato da Gesù: un suddito dell’Impero, proclamato Re dei Giudei dagli abitanti di Gerusalemme in contrasto alle disposizioni dell'Imperatore.

“La gran folla che era venuta per la festa, udito che Gesù era a Gerusalemme prese dei rami di palme e andò verso di lui gridando: Osanna, benedetto colui che viene nel nome del Signore, il Re dIsraele (Gv 12,13).

Giuda il traditore si attiva per arrestare Gesù e, fatto impossibile nella gerarchia militare romana, scavalca l’autorità del Tribuno imperiale di Gerusalemme assumendo il comando di un distaccamento di soldati romani accasermati nella Fortezza Antonia:

“Giuda dunque, preso un distaccamento di soldati e delle guardie (del Tempio) fornite dai Sommi Sacerdoti e dai Farisei…” (Gv 18,3);
"Tutta l'assemblea si alzò, lo condussero (Gesù) da Pilato e lo accusarono: «Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo (Messia) Re» (Lc 23,1);
Pilato gli disse: «Dunque tu sei Re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici; io sono Re
» (Gv 18,37).

Qualsiasi Prefetto romano non sarebbe mai stato indifferente di fronte ad un sedicente “Re dei Giudei” acclamato dal popolo, un monarca che, in quanto tale, vietò il pagamento dei tributi all’Imperatore. Gesta che avrebbero comportato l’estromissione di Ponzio Pilato dalla carica di Governatore della Giudea (residente a Cesarea Marittima, allora capitale imperiale della Giudea) ed il conseguente sovvertimento dei poteri-doveri a lui delegati da Tiberio …
Al contrario, secondo quanto scritto dagli evangelisti:

“Pilato intanto uscì di nuovo e disse loro: «Ecco, io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo in lui nessuna colpa» (Gv 19,4).
A questo punto (altra assurdità) sono i Giudei a ricordare al Prefetto imperiale Pilato la Legge di Roma e quali sono i suoi doveri:
"Se liberi costui (Gesù) non sei amico di Cesare! Chiunque si fa Re si mette contro Cesare" (Gv 19,12).
"... allora Pilato disse ai Giudei: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge». Gli risposero i Giudei: «A noi non è consentito mettere a morte nessuno»" (Gv 18,28/31), ovviamente in ossequio al diritto imperiale romano.

Durante l’interrogatorio, un autentico Governatore di Roma, di fronte ad accuse così evidenti ed accertate non avrebbe mai chiesto all’imputato Sei tu il Re dei Giudei?; o peggio ancora, mentre “Gesù” era davanti a lui, avrebbe chiesto alla folla: Volete che vi rilasci il Re dei Giudei? (Mc 15,8-9).
Il paradosso di questa affermazione è confermato anche dal fatto che il primo teste consultato dal Prefetto, per le funzioni ufficiali svolte, inevitabilmente, avrebbe dovuto essere il Tribuno di Gerusalemme, alto funzionario imperiale, comandante del contingente militare romano accasermato nella Fortezza Antonia. Questi, come ufficiale responsabile dell’ordine pubblico della Città, da testimone oculare, inevitabilmente, sarebbe stato a conoscenza dell’acclamazione popolare a “Re dei Giudei” da parte degli stessi Gerosolimitani e, di conseguenza, il Tribuno avrebbe avvertito subito la massima autorità consolare della Provincia, il Legato imperiale di Siria, un condottiero prescelto dal Cesare, che sarebbe intervenuto alla testa delle sue legioni, appositamente dislocate in Antiochia. L'alto ufficiale romano presente a Gerusalemme era consapevole che l'acclamazione del popolo di un sedicente "Re dei Giudei" sarebbe stato di una gravità inaccettabile da parte di Roma, quindi considerato un colpo di stato contro il legittimo ordinamento Prefettizio, costituito nella Provincia dellImpero per decreto di Tiberio e in ottemperanza ai precetti di Cesare Augusto.
E' doveroso evidenziare che lo stesso vangelo di Giovanni, dalle citazioni appena lette, dimostra l'assenza del Tibuno di Gerusalemme accasermata nella Fortezza Antonia. Unica spiegazione plausibile dipende dal fatto che fu ucciso durante l'insurrezione degli Zeloti.
Tornando al testo evangelico, l'amanuense che lo ha stilato continua a rappresentare un comportamento inammissibile da parte di Ponzio Pilato, come di qualunque Governatore romano che avesse agito in tal modo:

"Pilato disse loro:
«Che farò dunque di Gesù chiamato il Cristo?». Tutti gli risposero: «Sia crocifisso!». Ed egli aggiunse: «Ma che male ha fatto?». Essi allora urlarono: «Sia crocifisso!». Pilato, presa dell’acqua si lavò le mani davanti alla folla: «Non sono responsabile di questo sangue, vedetevela voi». E tutto il popolo rispose: «Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli!». (Mt 27, 22/25).

Con questo brano demenziale della eterna auto dannazione giudaica lo scriba cristiano sottoscrive la falsità del “processo a Gesù”, ideato al solo fine escatologico della dottrina: sacrificio, sangue, morte e resurrezione per la salvezza dell’umanità.

“Essi insistevano a gran voce chiedendo che venisse crocifisso; e le loro grida crescevano. Pilato allora decise che la loro richiesta fosse eseguita” (Lc 23,25).

Da notare che Pilato, come Magistrato romano, aveva riconosciuto innocente l’imputato, ciononostante lo fa lacerare a sangue prima di crocifiggerlo fino a farlo morire dopo una straziante agonia, quando avrebbe potuto semplicemente decapitarlo, evitandogli la prolungata tortura dilaniante.
Per l’escatologia cristiana, il sangue versato dal Figlio “Salvatore”, voluto da Dio Padre come sacrificio per la salvezza dell’intera umanità, doveva essere copioso e versato lungo una irreale “via crucis” (mai attuata dai Romani i quali, come tutti i militari da sempre, usavano modi sbrigativi), esageratamente tormentosa, per l’odio dei miliziani romani e giudei, che lo seguivano come carnefici.

Una descrizione irrazionale ideata da psicopatici fanatici per cui risulta che il sangue versato da Cristo era sparso sull’intero suo corpo appena schiodato e deposto dalla croce da Giuseppe di Arimatea. Da questi fu subito avvolto in un candido lenzuolo e ne trasportò il cadavere dal Golgota fino al sepolcro di sua proprietà. Sangue che, inevitabilmente, avrebbe imbrattato la "Sacra Sindone" in modo del tutto irregolare al punto che sarebbe stato impossibile riconoscere la autentica forma naturale del defunto prima di morire. Una narrazione inventata, riferita da tre scribi nei vangeli sinottici, che si dimostra tale quando la confrontiamo con quella, del tutto diversa, rilasciata da Giovanni evangelista, il “discepolo prediletto”.
Questi, al contrario degli altri evangelisti, e fra essi unico testimone oculare diretto, descrive una sepoltura totalmente difforme che esclude la presenza della sindone all'interno del sepolcro.
Inizialmente il corpo del Cristo viene avvolto 
nella sindone intrisa di sangue da Giuseppe di Arimatea, quindi, aiutato da Nicodemo (altro sinedrista convertito), insieme trasportano il cadavere fino al sepolcro e, prima di entrare, eliminano il lenzuolo imbrattato (infatti nel sepolcro non risulta tale lenzuolo). Dopodiché, entrambi i sinedristi bendano accuratamente il corpo dopo averlo lavato, unto ed impregnato le bende con una mistura di circa trenta chili fra aloe e mirra, al fine di imbalsamarlo secondo un rito orientale, riservato ai Re ed ai Sommi Sacerdoti, in uso dalla antica Persia sino all’Egitto.
 
Conclusione: un processo inventato, quindi mai avvenuto ... come la "resurrezione". Infatti, un suddito dellImpero, una volta proclamatosi “Re dei Giudei”, in flagranza di reato, non necessitava di alcuna indagine per accertare il suo crimine. L’alto tradimento del suddito contro lo Stato imperiale, in quanto palese, avrebbe conseguito la crocifissione pubblica come monito verso chiunque non riconosceva il dominio di Roma.
Al collo del reo veniva appeso un cartello su cui era scritta la colpa e il tutto si concludeva prima del calar del sole (Bellum IV 317), quando, al fine di consentire la deposizione del crocifisso, un soldato si accertava della sua morte infiggendogli una lancia nel cuore. 
Invece, per Giovanni evangelista, “il Sacro Cuore” di Gesù non poteva essere trafitto, quindi lo scriba cristiano che si spacciò come il “discepolo prediletto” optò per il “fianco” (Gv 19,34).

Il primitivo processo contemplava due Gesù

Riguardo il “processo” a “Gesù” c’è un altro aspetto, oltre l’inattendibilità storica appena accertata, che evidenzia la manipolazione di questa vicenda: la teologia iniziale che configurava due Gesù Salvatori diversi. Verifichiamolo insieme.

Come risaputo da tutti, prima della crocifissione di Cristo, per volontà degli Ebrei, Ponzio Pilato fu costretto a liberare dal carcere il criminale sovversivo “Barabba” (colpevole di omicidio), al posto di Gesù; tuttavia, dalla lettura del  “Novum Testamentum Graece et Latine” (A. Merck  S. I. - Roma - Pontificio Istituto Biblico, 1933), che riproduciamo, risulta documentata una notizia del tutto diversa.


Riguardo il vangelo di Matteo, Cap. 27, osserviamo a fondo pagina il richiamo al versetto 16 (sottolineato in rosso), che riporta l’esistenza di due Gesù”: il primo, quello risaputo da tutti, ed un secondo: “Gesù Barabba”. Mentre per noi, comuni mortali, risulta una stranezza, al contrario, gli esegeti cristiani “addetti ai lavori” conoscono molto bene questa “curiosità” e addirittura l’esistenza del più antico frammento evangelico contenente la specifica “Gesù Barabba”. Il reperto è denominato “P. Oxy. L 3523” e stimato paleograficamente al II secolo; inoltre esistono svariati codici, che riferiscono tale citazione di Matteo (Mt 27,16), redatti diversi secoli dopo, ad iniziare dal “Codex (Q) Koridethianus” del IX secolo, cui seguirono altri manoscritti che, accorpati, sono tutti classificati genericamente con la sigla “F1”.

Molto tempo prima dei manoscritti citati, Orìgene, già nel III secolo, era consapevole di questa narrazione evangelica e, nel suo “Commentario a Matteo”, in due brani del testo (Libro XIV 19), pur criticando il fatto, riferisce dell’esistenza dei due Gesù: “Gesù Barabba” e “Gesù detto il Cristo”.
Notiamo che “Barabba” è riportato nei Vangeli attuali con l’iniziale maiuscola, in realtà si tratta di un vocabolo composto dal lemma originale aramaico “Abba”, che vuole dire “Padre”, con anteposto “Bar” che significa “Figlio di”. Infatti, nel Vangelo di Marco (14,36) leggiamo “« Abba, Padre, tutto è possibile a te »”, e in Luca (23,34) “« Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno »”.

Questo “Abba”, dal momento che i preti ce lo hanno spiegato sin da bambini, sappiamo perfettamente che significa “Dio”: un appellativo supremo che, per la Legge mosaica, gli Ebrei non potevano pronunciare. Quindi “Abba” (Padre), nei manoscritti originali, designava Dio”, pertanto, la frase riportata nei Vangeli “canonizzati”: “Pilato disse loro: « Volete che vi rilasci Barabba o Gesù detto il Cristo? »” (Mt. 27, 17), in quelli non “canonizzati” risultava: “« Volete che vi rilasci Gesù Barabba o Gesù detto il Cristo? »”… esattamente come riferito da Orìgene*. Di conseguenza, nei manoscritti primitivi dal contenuto teologico univoco e coerente, risultavano dueSalvatori” così attestati:
“« Volete che vi rilasci Gesù figlio di (bar) Abba (Dio Padre) o Gesù detto il Cristo (Messia)? »”.
Siamo  di fronte ad un vero "colpo di scena teologico".
* Il fatto che Orìgene, nel terzo secolo avanzato, sia stato il primo cristiano ad evidenziare questo evento dirompente con la dottrina, dimostra che la stima paleografica del frammento “P. Oxy. L 3523” è erroneamente predatata di un secolo.

A prescindere dalle datazioni dei testi, risulta che i numerosi codici successivi, contenenti la stessa informazione, evidenziano limportanza della notizia, nettamente in contrasto con la dottrina cristiana vigente dal IV secolo ad oggi.
Preoccupata delle sconvolgenti conseguenze teologiche, a questo “Gesù Barabba” - riferito nei vangeli primitivi antecedenti a quelli canonizzati - la Chiesa, alla fine del IV secolo, nel citato versetto evangelico ha eliminatoGesùlasciando il solo "Barabba", in modo da farlo risultare un appellativo comune.
Ma è doveroso approfondire questo particolare, tenuto opportunamente nascosto ai fedeli da quell’epoca in poi, al punto che Eusebio di Cesarea, nella sua “Historia Ecclesiastica”, scritta prima del Concilio di Nicea del 325 d.C. e destinata a certificare l'esistenza dei famosi cristiani (ad iniziare da tutti i protagonisti evangelici) non cita Barabba” fra i soggetti dei sacri testi, perché allo storico Vescovo non risultava questo personaggio. In ultima analisi, un insieme di circostanze che inducono a sopprimere il famoso "Barabba"
dalla tragica "iconografia divina" primitiva, la quale, diversamente dai vangeli canonici vigenti, prevedeva il "Figlio di Dio" graziato da Pilato, anziché essere inchiodato sulla croce. Patibolo sul quale, come diversamente risulta dal vangelo appena evidenziato, venne torturato "Gesù detto il Cristo" dal Prefetto romano. Ne consegue che, al posto del "Figlio di Dio" fu crocifisso il Re Messia; vale a dire un "Re Unto", secondo la antica pratica biblica dell'unzione con olio consacrato, riservata ai Re ed ai Sommi Sacerdoti.  

Biblisti e filologi “contemplativi” tentano di fare “miracoli” inventando “tesi” complicate oltre misura (col risultato di aggrovigliare il proprio cervello) per cercare di trovare una giustificazione a questo paradosso che rappresenta dueGesù” (Salvatori) diversi, soprattutto per la sconvolgente conclusione processuale che vede addirittura liberato il Figlio di Dio (Bar Abba) senza essere stato "sacrificato". Un'eresia talmente grave per la Fede cristiana, ufficializzata dal IV secolo in poi, fino al punto che gli esegeti spiritualisti odierni accusano di incapacità gli amanuensi redattori dei vangeli che la notificarono sui testi sacri. Gli ermeneuti chiesastici di tutte le sette cristiane sanno perfettamente che la loro dottrina crollerebbe: il Cristianesimo prevede crocifisso un soloGesù Salvatore, Figlio di Dio” ... pur se, sappiamo, è risultato dal sincretismo di molti “Cristi Salvatori” raffigurati diversamente, quindi considerati “eretici” (vedi i numerosi Concili del IV secolo contro i "Cristi eretici"), compresi i “Soteres”, Salvatori pagani, ad iniziare dal Dio Mitra.
Per la Storia, invece, questa “Fede” è già crollata … con o senza i due Gesù (Salvatori). Pertanto, la forzatura di vedere in “Abba” (c’è chi ci prova come il pretesco Gianluigi Bastia, autore del sito web "Cristianesimo Primitivo") un nome comune fra i Giudei del I secolo è smentita, sia dalla Storia di Giuseppe Flavio (lo storico ebreo riporta nelle sue corpose opere centinaia di nomi israeliti senza alcun “Abba”), sia dalla Archeologia dell’epoca. In effetti, la semplice logica insegna che nessun ebreo avrebbe mai potuto dire o annotare “figlio del padre” a se stante, perché, senza specificare il vero nome del genitore, la frase non avrebbe avuto alcun significato, essendo tutti figli di padri: da qui l’obbligo giudaico di indicare sempre il patronimico in prima citazione.

Comprendere come sia potuto succedere che scribi cristiani, nel corso dei secoli, siano giunti a testimoniare “Salvatori” diversi, nella sostanza e nella loro rappresentazione, trattandosi di escatologia pura, l’impresa diventa impossibile per qualsiasi storico analista; ben sapendo che la cosiddetta “tradizione cristianaè stata fatta apparire omogenea, sotto il profilo escatologico ed i rispettivi protagonisti deificati, alla fine del IV secolo (lo accertiamo nella terza parte del VI studio), previa la distruzione di tutti i vangeli incoerenti con la dottrina finale vincente, estinguendo, innanzitutto, la catechesi e la liturgia del "Salvatore" Dio Mitra, per non evidenziare le similitudini con la nascente Fede cristiana, come la Grotta (Mitreo) ed il pasto eucaristico teofagico. Fatta salva qualche rara eccezione furono pochi i vangeli primitivi scampati casualmente all'annientamento attuato dagli integralisti cattolici.
Quello che oggi sappiamo per certo è il punto di partenza, costituito dall’israelita “Dominatore del Mondo”, riferito da Giuseppe Flavio, individuato nelle Sacre Scritture ed atteso dalla grande massa degli Ebrei per sconfiggere gli invasori pagani e liberare la Terra Promessa dalla egemonia romana. In particolare gli Esseni, che si definivano "figli della luce", profetarono l’avvento di un “Figlio di Dio dominatore del Mondo” (lo documentiamo meglio fra poco) in grado di sconfiggere gli oppressori “Kittim, figli delle tenebre”.
Purtroppo per gli Ebrei - in conseguenza dei massacri etnici subiti per colpa dei Romani nelle guerre del 70-73 e del 132-135 d.C. - in un periodo successivo a questi olocausti, gli Esseni si costrinsero a “correggere” il loro vaticinio iniziale facendo apparire che, oltre un secolo prima, era già venuto un Messia, Figlio di DioSalvatore del Mondo” (non più "Dominatore del Mondo"), capace di risorgere dopo morto, con la promessa di garantire la vita eterna a chi avesse creduto in Lui.
In realtà, ciò che è precluso sapere ad ogni storico riguarda l’evoluzione della dottrina iniziale poiché, ribadiamo, tutti i vangeli precursori, contrastanti con la catechesi finale, furono volutamente distrutti per non far risultare che erano frutto della fantasia umana, anziché dettati da una rivelazione divina. 

In ultima analisi, il goffo tentativo degli storici spiritualisti, inteso a spiegare razionalmente le contraddittorie testimonianze evangeliche, deriva dalla debolezza o l’incapacità di riconoscere la propria ingenuità nel “credere” ad una favola miracolosa con la illusoria prospettiva di conseguire la vita eterna … ma, soprattutto, con il preciso scopo di indottrinare il prossimo per esclusivo tornaconto.
Quel che più importa, da quanto appena esposto, resta solo una conclusione certa: il fantasioso ladrone "Barabbanon è mai esistito
(lo abbiamo appena dimostrato) come non è mai avvenuto alcunprocesso a Gesù”.

E’ ormai definitivamente provato che la “biografia di Gesù” è solo un canovaccio mistico letterario, basato su una sceneggiatura posticcia, creata maldestramente, per cui: “Natività”, “Miracoli”, “Processo”, “Sacrificio”, “Risurrezione” e “Ascensione” del “Salvatore Universale”, si dimostrano ingenue narrazioni frutto di irrazionale pensiero umano, non di quello divino.

Terminato questo ultimo "excursus teologico", estremamente imbarazzante per gli esegeti animisti (ma molto divertente per noi atei ), consapevoli che esistono vangeli in cui si narra che il "Figlio di Dio" non fu crocifisso, riprendiamo il filo "canonico" dell'argomento in questione.

Dunque, confermiamo, il “Processo” è stata un’invenzione finalizzata a far ricadere sui Giudei la colpa dell’uccisione del “Salvatore”. Infatti, Gesù Cristo “Nostro Signore”, per la nuova dottrina, non doveva risultare giustiziato da un alto plenipotenziario imperiale di Roma perché ciò avrebbe dimostrato che fu un Re ebreo zelota e guerriero ... ma questo sarebbe stato in contrasto con la nuova, docile, figura dell’ “Agnus Dei”, vittima sacrificale divina per il bene dell’umanità.
Pur trattandosi di un "Agnello di Dio" con intenti bellicosi, stando alle Sue parole: 

"Non sono venuto a portare pace sulla terra, ma una spada" (Mt 10,34);
"E quei nemici che non volevano diventassi loro Re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me" (Lc 19,27);
"Chi non ha spada venda il mantello e ne compri una...gli apostoli dissero: «Signore, ecco due spade»" (Lc 22,36/38).

I Vangeli, lo sappiamo tutti, narrano che, costretto dai Giudei, fu Ponzio Pilato ad uccidere “Gesù” e non Lucio Vitellio. Anche due scritti extracristiani di Giuseppe Flavio (Testimonium Flavianum) e di Cornelio Tacito (Annales XV cap. 44), giunti sino a noi per mano degli amanuensi cristiani, riportano che l’uccisore di Gesù fu Ponzio Pilato. Così come lo riporta il “Credo” che, quale simbolo apostolico di fede, masse di praticanti recitano ad alta voce in una cantilena puerile, reiterata all’infinito, durante la liturgia della Messa domenicale: patì sotto Ponzio Pilato.... Un vero e proprio lavaggio del cervello perpetrato allo scopo di impedire la conoscenza della verità storica, alterata spostando la datazione dell'esecuzione di "Gesù" avvenuta poco dopo la destituzione di Pilato.

Nella analisi comparata delle cronache di Giuseppe Flavio e Cornelio Tacito, riportate nel VI e nel XII studio sui màrtiri di Nerone, dimostriamo che i passaggi dei due grandi storici del I secolo sono interpolazioni spurie. Furono introdotte da falsari amanuensi i quali, dopo aver copiato e censurato i manoscritti originali dei due scrittori, con le modifiche aggiunte, anziché conservarli li distrussero per eliminare le prove delle loro manomissioni.
Tuttavia Ponzio Pilato - il Magistrato romano che, secondo i vangeli, non intendeva giustiziare “Gesù” ma si sottomise alla decisione del Sinedrio e del popolo giudaico che lo voleva crocifisso - la storia lo fa scomparire anche dal…“Credo”.
Il nome di quel Prefetto fu introdotto nel “Credo” del Concilio di Costantinopoli, convocato dai Cristiani Cattolici nel 381 d.C., che declamava:

“…incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, si sacrificò e fu sepolto, il terzo giorno è resuscitato…”.

Mentre, il “Credo” originale, formulato a Nicea nel 325 d.C., recitava così:

“…si è incarnato, e si è fatto uomo, si sacrificò, e il terzo giorno è resuscitato…” .

Oltre Pilato, (altro particolare di importanza vitale per la nuova dottrina) manca la “Vergine Maria Madre di Dio” la cui "Immacolata Concezione" non era ancora stata ripresa dai culti pagani, fatto sancito nel Concilio di Efeso del 431 sotto l'Imperatore Teodosio II.
In relazione al Prefetto imperiale di Tiberio, è doveroso riportare una dichiarazione, molto importante, fatta nel IV secolo dal Vescovo cristiano Eusebio
di Cesarea:

“E’ dunque dimostrata la falsità degli Atti contro il nostro Salvatore, pubblicati recentemente, essi, infatti, pongono sotto il quarto consolato di Tiberio, che coincide col suo settimo anno di regno, le sofferenze che gli Ebrei osarono infliggere al nostro Salvatore: ma in quel tempo Pilato non governava ancora la Giudea
(HEc. I 9,3/4).

Da quanto appena letto, Eusebio ci informa della pubblicazione, a lui contemporanea, di una versione di “Atti di Gesù” (un vangelo fatto poi sparire, ovviamente), diversa da quella giunta sino a noi, nella quale si fa cadere il supplizio di “Cristo” il 21 d.C. (quarto consolato di Tiberio), cioè sotto Valerio Grato, predecessore di Pilato, a dimostrazione dei rimaneggiamenti fatti dai redattori evangelici per depistare la ricerca su chi crocifisse veramente “il Salvatore”... e la datazione dell'evento immaginario. Secondo quegli Atti di Gesùfu il Prefetto Valerio Grato a sacrificareCristo.

Stando a quanto scritto dai calligrafi cristiani di Eusebio quando interpolarono il brano spurio del "Testimonium Flavianum" in "Historia Ecclesiastica" (I 11,7/8) - nel quale viene riferita la "testimonianza" dello storico Giuseppe concernente la condanna di Gesù alla croce da parte di Pilato - tutt'oggi leggiamo che gli ingenui amanuensi collocarono (incollarono) l'evento nel 18 d.C., sotto Valerio Grato.   
Come abbiamo provato nell'apposito VI studio, da una semplice analisi del "Testimonium Flavianum" - ripreso dai copisti che, nell'XI secolo, redassero "Antichità Giudaiche" di Giuseppe Flavio nel "Codex Ambrosianus Gr F 128" (cfr XVIII 63-64) - chiunque capisce che è un falso perché "Gesù" risulta crocefisso l'anno prima (18 d.C.) in cui lo storico ebreo registra la cacciata da Roma di tutti i Giudei da parte di Tiberio nel 19 d.C., confermata da Tacito (Annales 2,85) e Svetonio (Tiberius 36).
Peraltro, gli amanuensi di Eusebio (vedi dettagli al VI studio Parte II) presero una seconda "dolorosa cantonata mistica" sino al punto di smentire gli stessi vangeli: la crocifissione di "Gesù" risulta eseguita molti anni prima dell'uccisione di Giovanni Battista, mentre gli evangelisti attestano che muore prima di Cristo. Diversamente dai vangeli, per la Storia, la morte del Battista fu ordinata da Erode Antipa 17 anni dopo la "resurrezione di Gesù" così come riferita nel falso "Testimonium Flavianum" di "Antichità Giudaiche" (Ant. XVIII 63-64); vale a dire che Giovanni Battista venne ucciso a fine 35, inizi del 36 d.C. Per l'appunto, nell'estate del 36 Erode Antipa fu sconfitto nella guerra, a lui dichiarata dall'ex suocero, Re Areta IV (Ant. XVIII 116/119).
Un ulteriore riscontro alla datazione che dimostra l'esecuzione di Giovanni Battista avvenuta a fine 35, inizio 36 d.C., lo ritroviamo nella "Historia Ecclesiastica" di Eusebio di Cesarea: 

"Erode Tetrarca sposò Erodiade, la moglie di suo fratello, dopo aver ripudiato la prima moglie che aveva sposato secondo le leggi (era la figlia di Areta, re della Petrea) dopo aver separato Erodiade dal marito, che era ancora vivente. E per causa di questa donna fece uccidere Giovanni e mosse guerra ad Areta, di cui aveva disonorato la figlia" (op. cit. I 11,1).

Constatiamo che causa ed effetto della guerra sono immediati, e dalla storia abbiamo la conferma che Areta IV aprì il conflitto contro Erode Antipa l'estate del 36 d.C.; pertanto, sapendo che il Battista era già morto a fine 35, inizio del 36, ne consegue che la crocifissione del "Salvatore" avvenne per la Pasqua del 36 d.C.
Al contrario della realtà, le vicende narrate nei vangeli evidenziano contraddizioni cronologiche insanabili con la storiografia, ma basta spostare al 36 d.C. la morte di "Gesù" che le scadenze dei fatti diventano coerenti fra loro, sia per la storia
che per i vangeli, ottenendo una sequenza incontrovertibile di date: morte di Giovanni Battista, fine 35, inizi 36 d.C.; destituzione di Ponzio Pilato da Governatore della Giudea all'inizio del 36 d.C.; intervento di Lucio Vitellio per la Pasqua del 36 d.C.
Infatti, in base alla antica documentazione cristiana, anche la Chiesa sa che "Gesù Cristo" venne  crocifisso il 36 d.C., ma si guarda bene dal rivelarlo perché è consapevole che, proprio per la Pasqua ebraica del 36 d.C., come storicamente accertato sopra, a Gerusalemme risulta presente il Legato di Siria Lucio Vitellio anziché Ponzio Pilato, ormai già prosciolto dal suo mandato per ordine del Legato Imperiale.
La testimonianza ecclesiastica che fa risalire la morte di Cristo al 36 d.C. ci è pervenuta grazie allo storico cristiano, san Girolamo Sofronio, il quale, in "De viris illustribus", al cap. IX, concernente la biografia dell'apostolo Giovanni, così attesta:

"Giovanni ... sotto il principato di Nerva
(dal 96 al 98) tornò ad Efeso e, restandovi sino al principato di Traiano (dal 98 al 117), fondò e diresse le varie Chiese della Provincia d'Asia. Stremato dalla vecchiaia, morì a sessantotto anni di distanza dalla morte del Signore"
.

Dal momento che l'ultracentenario evangelista Giovanni morì il 104 d.C., basta sottrarre 68 anni a questa data che risulta il 36 d.C. l'anno in cui fu ucciso "Gesù". Data l'importanza della notizia storica, precisa e inconfutabile, le sottili menti vaticane si sono costrette ad aggiungere un "circa" alla data di morte dell'apostolo ( Efeso 104 ca.) nella biografia dell'evangelista Giovanni (vedi Cathopedia, di cui abbiamo fatto lo stamp) ... pur di "esorcizzare" la contemporaneità "Lucio Vitellio-Gesù Cristo" in contrasto all'assenza di Pilato
Ricordiamo ai lettori che i più antichi codici, testimoni del "De viris illustribus" di Girolamo (IX secolo), sono antecedenti di oltre un secolo a quelli afferenti la "Historia Ecclesiastica" di Eusebio di Cesarea (X-XI secolo). Per le datazioni di tutti i manoscritti di Eusebio vedi III studio, mentre per quelli di Girolamo vedi V studio al cap. "le sviste degli scribi tertullianei". Ne consegue che, essendo Eusebio la fonte storica di Girolamo, siamo certi che la stessa informazione fu riferita prima dallo storico Vescovo nel III libro cap. 31 del suddetto trattato, ma, dal X secolo in poi, l'alto clero censurò questo particolare nell'opera di Eusebio per i motivi appena esplicitati.
   
Nonostante le continue rielaborazioni e rimaneggiamenti dei documenti neotestamentari e quelli patristici, riguardo Ponzio Pilato permane la certezza che gli scribi cristiani non hanno mai incolpato il Prefetto romano per l'uccisione di "Gesù", bensì il Sinedrio e tutto il popolo ebraico, come chiaramente attestato da Eusebio nella sua famosa "Historia Ecclesiastica":

"furono gli Ebrei che osarono infliggere le sofferenze al nostro Salvatore"...

Esiste un'altra importante testimonianza sul Governatore della Giudea Pilato che, inevitabilmente, si riflette anche su Yeshùa, il "Salvatore" ebreo dell'umanità: quella del grande studioso e filosofo giudeo Filone Alessandrino (20 a.C - 45 d.C.), contemporaneo del Messia Gesù e di Ponzio Pilato.
Dopo aver riferito nel suo trattato "De Providentia" (II 107) che si recava frequentemente in pellegrinaggio al Tempio di Gerusalemme per offrire sacrifici a Dio (senza accennare all'esistenza di Gesù Cristo e suoi Apostoli, tanto meno loro "miracoli"), nella sua opera "De Legatione ad Caium" (paragrafi 299-303), Filone rilasciò un giudizio negativo su Ponzio Pilato:

"Un tiranno corrotto, avido e insensibile alle ragioni della giustizia ... Orgoglio, prepotenza e insolenza erano la sua regola. Il paese sotto di lui fu lasciato al saccheggio e la gente veniva uccisa senza il rispetto di alcuna legge". (Guide to the Bible: An Introduction to the Study of Holy Scripture, Published Under the Direction of A. Robert and A. Tricot, Volume 2 – Paris 1955).

Questa è la descrizione del vero Pilato storico (conforme a quella di Giuseppe Flavio), ma con indole totalmente diversa da quella connotata dagli evangelisti, a loro volta obbligati a far risultare un "Cristo" condannato dal Sinedrio anziché dalla legge di Roma, allo scopo di non far apparire "Gesù" militante zelota anti romano. Inoltre, risulta evidente il richiamo agli Zeloti rivoluzionari e l'impossibilità del Prefetto, al comando di una forza militare ridotta, a prevenire e contrastare le numerose scorrerie eversive che avvenivano ovunque in una Palestina dove il partito dei "fanatici nazionalisti" era maggioritario.
Filone era un ricco ebreo privilegiato e riportò questa informazione sul suo recente passato dopo la sfortunata Legazione al cospetto di Gaio Caligola (op. cit. XXX 203) avvenuta nel 40 d.C.
Ma il filosofo Filone Alessandrino
, profondo sapiente dell'Antico Testamento e vissuto nell'epoca di Cristo, in nessuna delle sue opere riferisce l'Avvento di un "Messia" divino giudaico (Cristòs) di nome "Gesù" che, secondo i vangeli, visse nella stessa terra, stesso periodo, autore di prodigi straordinari, osannato dagli abitanti di Gerusalemme come "Re dei Giudei" e da loro chiamato "figlio di Davide" ... né sa della sua crocifissione avvenuta per volere del Sinedrio ed attuata dal Prefetto romano, Ponzio Pilato.

Come possiamo constatare, nel IV secolo la “costruzione storica” della nuova fede era ancora in evoluzione e tendeva ad allontanarsi dalle religioni pagane precedenti, soprattutto da quella dell’ultimo “Salvatoresacrificato: il Dio Mitra.
Oltre ad aver inventato la nuova “Madre di Dio”, che prima non esisteva, per farla adorare ai “gentili” dolciotti, i “Venerabilissimi Santi Episcopi” inventarono anche il “sacrificatore” di “Gesù” ripescando il funzionario romano Pilato, (senza incolparlo del delitto) precedente a Lucio Vitellio, per depistare
la ricerca storica sull’intera vicenda.

Il colpo di stato, vero e proprio atto di guerra contro il dominio di Roma, imponeva a Vitellio, ancora in conflitto con i Parti, di sottoporre direttamente a supplizio il capo responsabile e ucciderlo. Plenipotenziario e rappresentante imperiale su tutto l’Oriente, “Egemone” unico della Provincia di Siria cui erano annesse Giudea, Idumea e Samaria, Vitellio, Luogotenete di Tiberio, sapeva che quella ribellione mirava ad esautorarlo dei suoi poteri-doveri, il primo dei quali consisteva nel garantire il primato di Roma sui territori ad essa sottomessi.
Giovanni il Nazireo aveva osato nominarsi "Re dei Giudei", monarca di un territorio di proprietà dell’Impero, macchiandosi del crimine più grave imputabile ad un suddito del Cesare. Un attentato contro la sovranità di Roma e gli ordinamenti imperiali intesi a salvaguardare lo Stato e, conseguentemente, la sicurezza di tutti.
Era Tiberio, l’Imperatore, che decideva chi, quando e dove, nell’ambito dei possedimenti sotto la sua giurisdizione, potesse fare il Re, purché sempre fedele “cliente”.
Da quando Pompeo Magno, nel 63 a.C., conquistò la Palestina, tutti i Re e Tetrarchi, che si susseguirono nel governo di quelle regioni, venivano nominati da Roma; e vi rimanevano finché l’Imperatore voleva … e l’Imperatore acconsentiva fintanto, a suo inappellabile giudizio, riteneva che essi operassero nell’interesse dell’Impero … un semplice dubbio e venivano subito destituiti o esiliati; come successe il 6 d.C. ad Erode Archelao e come avverrà nel 39 ad Erode Antipa.

Durante l’interrogatorio, Vitellio (lo stesso sarebbe valso anche per Pilato), non fu neanche sfiorato dall’idea di chiedere a Giovanni il Nazireo: Sei tu il Re dei Giudei?; o peggio ancora, mentre “Gesù” era davanti a lui, avrebbe chiesto alla folla: Volete che vi rilasci il Re dei Giudei? (Mc 15,8-9); oppure, rimanendo su Pilato, in violazione alle prescrizioni militari, imposte gerarchicamente ad un Prefetto imperiale di Roma e da lui disattese, sentite cosa ci vuol far credere san Luca, nel suo Vangelo, per scagionarlo:

“Essi insistevano a gran voce chiedendo che venisse crocifisso; e le loro grida crescevano. Pilato allora decise che la loro richiesta fosse eseguita. Rilasciò colui (l'inesistente "Barabba") che era stato messo in carcere per sommossa ed omicidio…” (Lc 23,25).

Non tanto per l’uccisione di un giudeo, che ad un romano non sarebbe importato più di tanto, ma un Prefetto di Tiberio, che governava un territorio di Roma su suo mandato, non avrebbe mai rilasciato il responsabile di una sommossa già arrestato da lui … soltanto un esercito avrebbe potuto farlo desistere … ma l’esercito era ai suoi ordini e le legioni agli ordini del suo diretto superiore: Vitellio.
Solo menti in piena estasi mistica, visionari senza la minima conoscenza della realtà storica di tutti i tempi e di tutti gli Imperi, antecedenti e successivi a quello romano, hanno potuto concepire idiozie simili e, pur avendo compreso il motivo per cui l’abbiano fatto, lo sproposito rimane ugualmente … anche per chi, ingenuamente e docilmente, vi crede. L'amanuense "Luca" evangelista e tutti quelli che, come lui, lo hanno imitato, non volevano far risultare che un potente funzionario romano aveva sottoposto a supplizio “Gesù” il “Salvatore”, per aver messo in atto una sanguinosa sovversione politica contro il potere di Roma.

Nei Vangeli è stato introdotto un falso processo per far ricadere la decisione della condanna di Gesù sui Giudei e sul Sinedrio con motivazioni esclusivamente religiose, non patriottiche rivoluzionarie che provocarono spargimento di sangue: l’ “Agnus Dei” non poteva aver organizzato e commesso
un’azione militare così violenta e palesemente antiromana.
Tutti i sudditi dell’Impero erano testimoni che Roma non aveva mai perseguitato gli adepti di alcuna religione, tranne per casi limite e ben motivati. Al suo interno esisteva un crogiolo di dottrine che vivevano a contatto con altri credi senza problemi; sarebbero stati guai per i Romani se le avessero
perseguitate: l’Impero sarebbe caduto.
Le autorità si preoccupavano quando una religione diventava la base ideologica per sobillare il popolo e sovvertire le istituzioni, allora, in quel caso, scattava la repressione, violenta, come contro quella ebraica nazionalista.

Gli scribi cristiani "lucani" erano ben consapevoli di ciò e provvidero a nascondere il “Salvatore”, e gli altri protagonisti ebrei che lo attorniavano, dietro un’aureola di “santità” innocua e rassicurante, fino al punto di far apparire un “Gesù” che predicava, impunemente, ai Giudei di "dare a Cesare il tributo" … mentre, nella realtà, per una provocazione simile, i Giudei avrebbero lapidato il “Cristo” ancor prima che finisse la “paraboletta”.
La nuova dottrina cristiano gesuita, evolutasi dalla riforma del Messia da parte degli ebrei Esseni, dopo le guerre del 66/70 e del 132/135 d.C. e i conseguenti olocausti dei Giudei in molte città orientali dell’Impero, grazie agli insegnamenti epistolari di un mai esistito "Paolo di Tarso", era diventata, opportunamente … filo romana.

Giunti a questo punto dello studio abbiamo individuato con precisione quattro figli di Giuda il Galileo: Giovanni, Giacomo, Simone e Giuda, i cui nomi erano uguali a quelli dei fratelli di “Gesù”. Abbiamo anche accennato, in parte, alle gesta di un quinto figlio, il più giovane, Giuseppe, anch'egli fratello di Cristo, che lo storico ebreo chiama "Menahem figlio di Giuda il Galileo", il quale riuscì a divenire Re dei Giudei nel 66 d.C. Ricordiamo che l'identificazione di "Menahem" con "Giuseppe" è riferita nel XV studio.
Giovanni fu il promogenito di Giuda il Galileo, di stirpe asmonea, dunque con diritto di investitura a Re dei Giudei, e per questo, alcune generazioni dopo l'avvenimento storico, il personaggio verrà mitizzato dai monaci ebrei Esseni come "Messia" col titolo aramaico deificato di "Yeshùa", che significa "Salvatore".
Durante la dominazione romana, gli ebrei Esseni, anch'essi nazionalisti come gli Zeloti, usavano le loro "profezie" allo stesso modo degli "Oracoli di Yahweh" per incitare il popolo a ribellarsi. Ne conseguì lo sterminio etnico perpetrato dai Romani, ad iniziare dalle persecuzioni ordinate da Vespasiano contro i Giudei, familiari compresi, che non lo riconoscevano come "Signore" o "Padrone", fino all'olocausto finale ordinato dall'Imperatore Adriano.

Fu allora che gli Esseni, preso atto della enorme disparità di forze, rividero la rappresentazione del "Messia condottiero", atteso dal popolo come il mitico Davide, e, in coerenza con la loro profezia scritta nel frammento del rotolo "4Q246" di Qumran, lo deificarono come il "Figlio di Dio". Ma non più, un "Dominatore del Mondo", bensì un sofferente "Salvatore del Mondo", docile come un "Agnus Dei": un "Messia, Figlio di Dio, Salvatore del Mondo", capace di far risorgere i morti, "il cui regno sarà un dominio eterno". Nella seconda metà del II secolo d.C., gli Esseni alessandrini scrissero i vangeli primitivi, senza preoccuparsi della "consustanzialità" del Figlio con il Padre, intenzionati semplicemente ad illudere la popolazione nella risurrezione dopo la morte.
Nel IV secolo, il Vescovo Eusebio di Cesarea, consapevole dell'epoca reale in cui furo scritti i primi documenti neotestamentari, anticipò la datazione di oltre un secolo e, adattandola, scrisse: "Narrano che Marco, inviato in Egitto, fu il primo a predicarvi il Vangelo che mise poi anche per iscritto, e fondò le Chiese proprio ad Alessandria".
Lo stesso Eusebio stabilì quali fossero i vangeli canonici, ma, dopo la sua morte (340 d.C), durante il IV secolo, si tennero numerosi Concilii intesi a ridefinire la dottrina cristiana. Oltre alla consustanzialità del Padre con il Figlio, decretata nel Concilio di Nicea del 325 d.C., successivamente, in esecuzione dell'Editto di Tessalonica del 380 d.C., venne decretata anche la nascita verginale di Maria, Madre di Gesù Cristo.
Fu così che, come risultato dei Concilii cristiani convocati nel IV secolo, prevalse il Cattolicesimo, legittimato con l'Editto di Tessalonica del 380 d.C., come religione unica del neonato Impero Cattolico Romano; di conseguenza, nel 381 si tenne il Concilio di Costantinipoli in base al quale furono modificati i vangeli precedenti, già approvati da Eusebio prima del Concilio di Nicea del 325.
La dimostrazione dell'ultima modifica dei vangeli con i relativi dettagli si può leggere nella 3^ parte del VI studio dedicato al "Testimonium Flavianum".   

In realtà, in contrasto alla dottrina pacifista ideata alla fine del II secolo dagli Esseni, questi, seppur mitizzandole, presero spunto dalle vicende zelote sopra descritte. Eventi che riguardavano la lotta, condotta nel primo secolo da cinque fratelli appartenenti alla dinastia ebraica, definita più volte da Giuseppe Flavio "di grande potere".
Una stirpe di sangue reale che, rivendicando il diritto a insediarsi sul trono dei Giudei appartenente agli Asmonei, si impegnò, fino al martirio, in una guerra contro il dominio di Roma attraverso un contesto storico pericoloso ed estremamente difficile per gli Israeliti.
Il casato asmoneo si estinguerà definitivamente nel 73 d.C. per mano dei Romani con la caduta di Masada, ultima roccaforte degli Zeloti, condotti dal nipote di Giuda il Galileo: Eleazar bar Jair (Lazzaro figlio di Giairo).
Una triste epopea perfettamente compatibile con le vicende reali di quegli anni, riferite, oltre che da Filone Alessandrino, soprattutto, come stiamo per relazionare, da Giuseppe Flavio e Cornelio Tacito, ma confermate, pur con descrizioni ridotte, anche da Svetonio e Cassio Dione.



Parte terza


Come abbiamo appena letto, lo studio sopra pubblicato è servito a scoprire la vicenda che originò il mito di “Gesù Cristo”, Figlio di Dio, ideato dagli Esseni dopo l’ultimo olocausto giudaico perpetrato da Adriano nel 135 d.C. per punire l’ultima grande rivolta degli Ebrei. Tuttavia, scorrendo gli eventi trattati, i lettori accorti avranno sicuramente rimarcato l’importanza, sotto il profilo storico, determinata dal fatto che, mentre era in corso una guerra fra Roma ed il Regno dei Parti, Lucio Vitellio, l’uomo più potente dell’Impero Romano dopo Tiberio, si sia recato due volte a Gerusalemme: nel periodo della Pasqua ebraica del 36, come in quella del 37 d.C. Gli stessi anni in cui, nella Città Santa, secondo i documenti neotestamentari, appena dopo la risurrezione del “Salvatore”, gli Apostoli da Lui scelti iniziarono a compiere “Atti miracolosi”, tali da stupire i Gerosolimitani e tutti gli abitanti delle città vicine, guarendo da qualsiasi male ogni infermo, fino al punto di far risorgere i morti (At 5,12; 9,34; 9,40).
La concomitanza fra gli “Atti degli Apostoli” e gli “Atti di Lucio Vitellio”, da circa un secolo ha iniziato a preoccupare gli storici genuflessi della Roma antica, i quali “istintivamente” percepivano che qualcosa sfuggiva alla “tradizione cristiana”, una sensazione che, in mancanza di spiegazioni plausibili, rischiava di trasformarsi in angoscia.

Oltre mezzo secolo fa, uno di tali studiosi, Albino Garzetti, ha rotto gli indugi conducendo una apposita “analisifinalizzata a sminuire le imprese del grande condottiero romano, finendo col negargli uno dei due viaggi a Gerusalemme (per ridurre l’attenzione dei ricercatori curiosi) e, soprattutto, intesa a modificare la datazione delle gesta di Vitellio, con il malcelato intento di allontanarle dallepoca di Gesù e dei Suoi successori.
Effettivamente, Albino Garzetti, con le sue “applicazioni” su Lucio Vitellio, riuscì a placare l’ansia repressa dei suoi epigoni, e da loro, in segno di riconoscenza per tali studi, è stato citato nei libri di storia … al punto che è riuscito ad “entrare nella storia”. 
Ma verifichiamo, adesso, in quale "storia” …

Contro Albino Garzetti e la sua analisi su Lucio Vitellio       

Albino Garzetti (n.1914 † 1998), laureato in lettere e docente di Liceo, dopo essersi conquistato il diritto alle stigmate spirituali grazie a precedenti lavori fra cui “I valori morali nella vita pubblica degli antichi” in Saggi di umanismo cristiano (Pavia 1952), nel 1956 pubblicò la sua ennesima opera paradisiaca dal titolo “Studi in onore di A. Calderini e R. Paribeni”, in cui, al Vol. I, nelle pp. da 211 a 229, riferì una sua personale analisi riguardante

La data dell'incontro all'Eufrate di Artabano III e L. Vitellio legato di Siria
 
poiché, come si evince dal titolo, la cronologia dell’importante avvenimento, secondo lui, era tutta da scoprire: una realtà che, al contrario, non fu mai messa in dubbio dalle fonti storiche dirette bene informate.
Il professor Garzetti redasse questo “capolavoro contemplativo” - già predestinato ad “entrare nella storia” - in segno di ringraziamento per la sua futura carriera: un atto dovuto all’Alto Clero dopo l’assegnazione, nel 1955, della cattedra di Storia Romana all’Università Cattolica del Sacro Cuore (di Gesù) a Milano.
Entriamo ora nel merito di tale ingannevole lavoro il cui unico fine è quello di modellare, come un malleabile pongo, precisi eventi che accertano la datazione dellincontro in discussione avvenuto sotto lImperatore Tiberio.
Di tutt’altro avviso, il professor Albino Garzetti, a pag. 228, così conclude:

“… non rimane quindi, per collocare lincontro allEufrate di Artabano e Vitellio, che la tarda primavera o l’estate del 37, cioè esso fu sotto Gaio.

Il dotto credente più oltre non poteva spingersi perché Artabano morì meno di un anno dopo. Infatti, per tentare di provare che l’appuntamento dei due grandi statisti sull’Eufrate si era svolto durante il regno dell’Imperatore Gaio Caligola, Garzetti si è obbligato ad acciabattare ipotesi su ipotesi pur di negare le vicende documentate nei testi, al punto di invalidarne la semplice logica, e finendo, inesorabilmente, per scontrarsi con il raziocinio storico pur di giustificare le “sciocchezze evangeliche”.

Il primo errore commesso da Albino G. lo riscontriamo quando, a pag. 211, (prima pagina dello “studio” in argomento) leggiamo che lincarico - conferito da Tiberio al “Legatus Augusti pro Praetore”, Lucio Vitellio, al fine di degradarlo - sia da intendersi comeordinario, fatto che, tramite una corretta lettura degli “Annales”, viene smentito categoricamente da Cornelio Tacito:

“Nell'anno del consolato di Gaio Sestio e Marco Servilio (35 d.C.), giunsero a Roma alcuni nobili Parti, all'insaputa del re Artabano. Costui, fedele ai Romani e misurato con i sudditi per paura di Germanico*, assunse, in seguito, atteggiamenti superbi verso di noi e dispotici verso la sua gente, perché imbaldanzito dalle guerre condotte con successo contro popoli adiacenti e perché spregiava il vecchio Tiberio come imbelle. Aveva inoltre mire sull'Armenia, a capo della quale, alla morte del Re Artassia, aveva imposto il maggiore dei suoi figli, Arsace; inoltre, ci aveva fatto l'affronto di inviare suoi emissari a richiedere il tesoro lasciato da Vonone in Siria e in Cilicia e a rivendicare, nel contempo, i vecchi confini dei Persiani e dei Macedoni, agitando folli minacce di invadere le terre già possedute da Ciro e poi da Alessandro (Ann. VI 31).

* Nel 18 d.C. Tiberio conferì al figlio adottivo, Germanico Giulio Cesare, l'imperium proconsulare maius su tutte le Province Orientali:
Vennero affidate a Germanico le Province d'oltremare e gli fu conferito un potere, valido ovunque si fosse recato, superiore a quello dei Governatori (Tacito Ann. II 43).
Dunque, un incarico di rango superiore rispetto ai semplici Governatori proconsolari, peraltro, non limitato ad una sola Provincia e a tempo indeterminato.
Purtroppo, nel caso di Germanico Inviato a mettere ordine gli affari in Oriente, e ordinato che ebbe ogni cosa, fu ucciso col veleno per opera di Pisone(Ant. XVIII 54; cfr. Tacito, Ann. II 55/70) … il tempo fu “determinato” dalla sua morte avvenuta nel 19 d.C., con il forte sospetto che il mandante dell’omicidio sia stato Tiberio.
Abbiamo appena visto che l’evento del 35 d.C. (richiamato da Tacito), sotto il profilo militare si presentava analogo a quello affrontato, 17 anni prima, dall’Imperatore Tiberio a causa dello stesso Artabano protagonista; ma, in questo caso, il rischio per lImpero era maggiore in quanto aggravato dalla dichiarazione di guerra che ilRe dei Re” (un parto discendente dalla dinastia degli Arsacidi) aveva formalizzato tramite i suoi ambasciatori, i quali, oltre allArmenia già occupata, minacciarono linvasione di tutte le Province orientali, dalla Siria fino allEgitto:

“Nell’anno del consolato di Gaio Sestio e Marco Servilio (35 d.C.) Artabano ci aveva fatto l'affronto di inviare suoi emissari a richiedere il tesoro lasciato da Vonone in Siria e in Cilicia e a rivendicare, nel contempo, i vecchi confini dei Persiani e dei Macedoni, agitando folli minacce di invadere le terre già possedute da Ciro e poi da Alessandro (Ann. VI 31).

Se ciò si fosse avverato, l’Impero Romano avrebbe perso i più importanti territori orientali, Egitto compreso, mentre Artabano, grazie agli scali marittimi già realizzati dai Romani nel “Mare nostrum”, avrebbe potuto costruire una flotta navale in grado di contrastare il dominio di Roma su ogni rotta mediterranea.         
Per scongiurare tale eventualità …
 
Tiberio sceglie Tiridate, anch'egli di sangue arsacide, come rivale di Artabano e destina l'ibero Mitridate alla riconquista dell'Armenia, riconciliandolo con il fratello Farasmane, che deteneva il potere nel suo paese; a Lucio Vitellio affida la responsabilità di tutte le operazioni in Oriente (Ann. VI 32,3).
 
Lucio Vitellio, padre del futuro Imperatore “Aulo Vitellio”, fu nominato Console nel 34 d.C. e Tacito così lo giudica:

“Quest'uomo (Vitellio) - ne sono assolutamente consapevole - ha lasciato una fama sinistra a Roma e il ricordo di innumerevoli turpitudini, ma nel governo delle Province dimostrò la capacità degli uomini del passato (ibid.).

Tacito, giustamente, parla di “Province” al plurale, dal momento che Lucio Vitellio, investito di ampi poteri su tutto lOriente, si recò due volte a Gerusalemme, nella Provincia di Giudea, laddove, come abbiamo già accertato sopra, il condottiero risottomise laCittà Santa”, poiché, a causa della carestia, si era ribellata al dominio di Roma. Ergo … “dimostrò la capacità degli uomini del passato”: un giudizio storico positivo che, ovviamente, non poteva riferirsi ad una semplice detassazione dei prodotti agricoli in favore dei Giudei.

Per effetto dei poteri conferitigli da Tiberio su tutti i territori orientali, oltre le quattro legioni di stanza ad Antiochia in Siria (di cui una già dislocata da Cesare Augusto nel distretto di Zeugma, sull’Eufrate), il Legatus Augusti pro Praetore, L. Vitellio, aveva la facoltà di mobilitare tutti i Legati delle legioni imperiali d’oriente, i Procuratori, i Prefetti, Tetrarchi, Etnarchi e Re vassalli con i rispettivi eserciti.
Si trattava di una forza di pronto intervento, già dislocata in tempo di pace, per un totale di ben oltre quarantamila uomini, posizionati sullo scacchiere orientale dell’Impero Romano, in difesa di un limes che si dipartiva dal Mar Nero, Bitinia, Ponto, Armenia, alto corso del fiume Eufrate, Palestina, sino all’Egitto compreso; per cui … “In luoghi strategici delle Province stavano poi triremi alleate, reparti di cavalleria e coorti ausiliarie, per un complesso di forze non molto inferiori alle legioni” (cfr Tacito Ann. V). Ancora, in caso di necessità, come avvenuto molte volte, la potenza militare romana veniva aumentata con ulteriori forze ausiliarie e col trasferimento di legioni dislocate in altri territori.
Segnatamente, all’epoca, in Palestina erano presenti gli eserciti del Prefetto Ponzio Pilato e del Tetrarca Erode Antipa.    

Il secondo grave errore commesso dallo storico spiritualista Garzetti (dopo aver degradato Vitellio), concerne la sua “bufala evangelica” quando, in prima pagina dello studio, premette:

“E se dobbiamo giudicare dal fatto che qualche anno dopo troviamo Damasco in mano ai Nabatei, e che può darsi che la città fosse un grazioso dono di Gaio (Caligola) al loro re Areta.
 
Meditando fra un grano e l’altro del rosario, Albino G., dall’alto della sua cattedra di Storia Romana, appena ottenuta all’Università Cattolica del “Sacro Cuore di Gesù”, adotta come “celestiale fonte storica” la “Letteradi san Paolo (Corinzi II: 11,32) e “Atti degli Apostoli” (IX 23/25) di san Luca, quando il super Apostolo “testimonia” la grande baggianata:
 
A Damasco il Governatore del Re Areta montava la guardia per catturarmi” (Cor. II 11,32).

Scorrendo gli “Atti degli Apostoli”, l’evento accadde
prima del 40 d.C. (anno della morte di Areta) pertanto questo monarca poteva essere solo il nabateo Re Areta IV di Petra, la cui figlia principessa sposò Erode Antipa il Tetrarca, ma da lui declassata di fatto dopo aver sposato anche Erodiade, un’altra principessa di sangue erodiano, la quale ambiva insediarsi come Regina al fianco di un Antipa interessato a divenire “Re dei Giudei”.
Ma il suocero di Erode Antipa, Areta IV, non regnò mai su Damasco perché la città apparteneva alla Provincia romana di Siria: se ciò fosse avvenuto, data l'importanza della notizia, tutti gli storici imperiali lo avrebbero riferito. Fatto che non risulta da alcuna fonte.
Al contrario, un antenato di questi, Re Areta III, regnò su Damasco oltre un secolo prima che Cristo camminasse sulle acque del lago di Tiberiade.
Nell’ 85 a.C., Areta III, Re degli arabi Nabatei, conquistò Damasco e vi regnò sino a che, nell’83 a.C., Tigrane II d’Armenia, detto il Grande, conquistò la Siria e Areta III fu costretto ad abbandonare Damasco rifugiandosi a Petra.
L'Imperio di Tigrane II non durò a lungo. L'avanzata inarrestabile della potenza di Roma, impersonata da Pompeo Magno e le sue legioni, causò il declino dei Regni orientali del Mediterraneo e Areta III approfittò di quei conflitti per estendere nuovamente i confini dell'Arabia Nabatea sino a Damasco, ma, nel 64 a.C., il Proconsole Emilio Scauro (Bellum I 159; citato anche nei rotoli di Qumran), Legato di Pompeo, lo costrinse a ritirarsi da Damasco per retrocedere a Filadelfia ed ancora più a sud, sino a Petra, capitale dell’Arabia Nabatea, interponendo l'arido deserto fra lui e le legioni romane, al punto che il condottiero romano fu costretto a desistere dal concludere l’impresa per le avversità di un territorio, accessibile solo ad esperti cammellieri che conoscevano i pozzi d’acqua, quindi impraticabile per le armate romane.
Dopo Areta III, regnò sui Nabatei Obodas II, cui subentrò Malichus I, al quale succedette Obodas III, suo figlio, e padre, a sua volta, di Areta IV. Quest’ultimo regnò dal 4 a.C. sino al 40 d.C., ma mai su Damasco: non esiste fonte storica, archeologica o numismatica che lo attesti. Chi afferma il contrario lo dimostri con le citazioni d’obbligo. Dovere evaso da Albino Garzetti, il quale, convinto che il mondo sia pieno di sprovveduti, nasconde intenzionalmente levidenza che san Luca attaccò la sua "eschetta storicaad un amo genealogico col numero sbagliato, scambiando Areta IVcon Areta III”. Il disprezzo di Garzetti delle cognizioni altrui non può che indignare gli storici seri.
 
Il terzo errore (ancora più grave sotto il profilo militare), commesso da un docente universitario di Storia Romana antica come Garzetti, è stato quello di affermare che la città siriana di Damasco sia stata oggetto di un grazioso dono di Gaio ad Areta, Re dei Nabatei.
Fatto assurdo perché, nel corso della guerra fra Roma e lImpero dei Parti, dopo una crisi iniziale provocata dall’intervento di Lucio Vitellio, avvenuto a fine autunno del 35, Artabano, alcuni mesi dopo, riprese il controllo della situazione partendo al contrattacco. Fu solo nell’estate del 36 d.C. che Areta IV, cogliendo l’occasione bellica favorevole ai Parti, poté saldare i conti in sospeso con il giudeo Erode Antipa e vendicare l’affronto da lui subito per aver sposato Erodiade due anni prima (34 d.C. cfr. Ant. XVIII 149), a scapito di sua figlia, e al contempo riprendersi il distretto di Gabala*, di cui rivendicava il possesso sin dal lontano passato (Ant. XVIII 110/113).
Unica possibilità di Areta, per impadronirsi di un territorio assoggettato al dominio romano (da Pompeo Magno nel 63 a.C.), fu quando risultò vincente Artabano, nel 36 d.C., sotto il consolato di Quinto Plauzio e Sesto Papinio (Tacito Ann. VI 44):
 
“Tiridate era smarrito di fronte al pericolo. Ma la partenza assomigliava a una fuga e, a cominciare dagli Arabi, gli altri tornarono nelle proprie terre o alla volta del campo di Artabano, finché Tiridate ripiegò in Siria con pochi uomini”.

* Alcuni Codici riportano "Gàmala", ma si tratta di un errore da addebitarsi ai copisti amanuensi perché il distretto di Gàmala non è mai stato assegnato ad Erode Antipa da alcun Imperatore romano.

Infatti, nell’estate del 36 d.C.:

“C’era anche una lite (con l’arabo Areta IV), a proposito del distretto di Gabala, e da una parte e dall’altra vi era stata la rassegna dei soldati, ed ora erano in guerraNella battaglia che ne seguì lesercito di Erode (Antipa) era distrutto. Erode inviò un resoconto di questi eventi a Tiberio, il quale, sdegnato dallarroganza di Areta, ingiunse a Vitellio di marciare contro di lui, inviarglielo in catene, qualora lo catturasse vivo, e, se morto, mandargli la testa. Queste furono le istruzioni che Tiberio inviò al Governatore della Siria” (Ant. XVIII 114).

Dopo tale “curriculum vitae” di Areta IV contro i domini di Roma, Albino Garzetti, assoggettando la Storia al proprio Credo, dichiara, con ipocrita sicumera, che Gaio Caligola, dopo la morte di Tiberio, “premiò” il monarca nabateo offrendogli Damasco di Siria come grazioso dono … pur di giustificare la cantonata presa dagli scribi cristiani a nome di un “san Paolo” mai esistito (vedi II studio).
E, al colmo dell’assurdità, tale fandonia viene tutt’oggi propinata agli studenti universitari grazie al silenzio omertoso dei docenti di Storia nei rispettivi Atenei.
Ma Albino G., pur di raggiungere lo scopo prefisso - inteso a modificare la datazione dell’incontro sull’Eufrate - si vede costretto a reinterpretare le vicende scritte, indirizzando lo studio con una deriva prefissata per giungere alla conclusione voluta, nella presunzione che nessuno riesca a capire, mentre lui, unico, è il depositario della verità, quindi si permette di sparare fesserie sempre più grosse.
 
E lo fa commettendo il quarto errore oltremodo grave: non si rende conto che la citazione di Tacito richiamata sopra (Annales VI 44) è lultima relativa alla guerra fra lImpero Romano e lImpero dei Parti. Una svista che porterà Garzetti a fuorviare il giudizio conclusivo perché, dall’inizio sino alla fine della sua lunga analisi, con fare saccente, richiamerà continuamente la “testimonianza” del cronista imperiale, senza capire che la cronaca tacitiana, riguardante la guerra fra Roma e la Parthia, si era fermata al 36 d.C. 
Come i lettori possono verificare, l’importante evento bellico, ricordato da Tacito, lascia interdetto lo studioso che segue con interesse le sue notizie perché, giunti al punto finale della narrazione relativa alla guerra fra i due Imperi, risulta vincitore Artabano, non Lucio Vitellio.
Ne consegue che uno storico, appassionato delle gloriose gesta della Roma antica, avverte un senso di “vuoto” o “mancanza” per il contrasto con la premessa di Tacito che elogia Lucio Vitellio: nel governo delle Province dimostrò la capacità degli uomini del passato.
 
In effetti, siamo di fronte ad un “vuoto nella Storia”, ben sapendo che tutti i fatti di interesse pubblico venivano registrati dai cronisti dell’epoca, così come i memoriali scritti dai diretti interessati, trattandosi di atti istituzionali dovuti per relazionare le autorità in conseguenza dell’incarico ricevuto, come sicuramente fece Lucio Vitellio.
Atti di Vitellio” che il potente Legato inviò a Tiberio ed al Senato, organo che archiviò la documentazione negli “Atti del Senato” ove furono conservati i documenti particolareggiati, poi consultati da Tacito per scrivere negli Annales le vicende del I secolo. Ma, come abbiamo appena visto, le gesta di Vitellio si interrompono … o meglio, furono censurate dagli amanuensi cristiani come avvenuto per la carestia descritta sopra, con le finalità, già riscontrate, causate dall’intervento armato del condottiero romano in Gerusalemme per domare la ribellione di un popolo affamato.
Grazie agli “Atti di Lucio Vitellio”, oltre alle vicende da lui relazionate integralmente e a noi trasmesse tramite la lettura degli Annales di Tacito, nel VI libro originale erano contenuti i seguenti resoconti attualmente mancanti:
- la destituzione di Ponzio Pilato come Prefetto di Giudea, sostituito dal nuovo Prefetto Marcello, amico del Governatore di Siria; 
- Il primo intervento di Vitellio, disceso a Gerusalemme con le sue legioni il 36 d.C. e la sua iniziativa, contrastante la prassi imposta da Roma, di detassare i Giudei ribellatisi in conseguenza della carestia (Cfr Annales VI 41; in cui risulta che, nello stesso anno, il Legato Marco Trebellio, su ordine
di Vitellio, costrinse con la forza altri popoli a pagare i tributi);
- la crocifissione del Capo degli Zeloti, alleato di Artabano, proclamato “Re dei Giudei” dai Gerosolimitani;
- l’
imposizione ad Artabano di giungere a negoziati, secondo le direttive di Tiberio. In caso contrario le legioni di Roma, schierate sul confine, erano pronte ad invadere la Parthia, con un attacco strategico già eseguito da Vitellio lautunno del 35 (questo primo evento è documentato da Tacito). Infatti, allora, dopo aver superato l’Eufrate ed invaso il Regno dei Parti con le sue legioni, a Vitellio bastò “aver fatto mostra delle armi romane” (Ann. VI 37);
- la successiva strategia del condottiero, per costringere Artabano a negoziare, consistente in una manovra “a tenaglia” resa possibile dall’intervento, dei Barbari transcaucasici, Iberi, Albani, Alani e Sarmati, in transito per leporte del Caspio”, pronti a colpire dallestremo Oriente il Regno partico indebolito dalle divisioni interne dei Satrapi, mentre da Occidente, lesercito romano era già schierato e predisposto a sconfinare nuovamente nella Parthia;
- la relazione dellavvenuto incontro sul fiume Eufrate, confine fra i due Imperi, con il consenso di Artabano al trattato che gli imponeva di rinunciare ad ogni pretesa di dominio sullArmenia, l’obbligo del Grande Re di onorare le insegne di Tiberio e la garanzia finale consistente nella consegna, in ostaggio all’Imperatore, del proprio figlio Dario;
- la liberazione dei territori conquistati da Areta IV, e l’avvio della missione, destinata ad eliminare il Re nabateo, poi interrotta da Vitellio perché, durante la spedizione, per la seconda volta fece sosta in Gerusalemme, laddove gli fu recapitata la notizia della morte di Tiberio.

Una prolungata censura del VI libro degli Annales che, ovviamente, non si limitò all’operato di L. Vitellio, ma proseguì anche dopo, durante il regno di Gaio Caligola con un movente fondamentale, dipendente dalla assenza di cristiani in tale epoca, in contrasto ad una falsa presenza di fedeli in Cristo che sarà inventata secoli dopo. L’inesistenza di cristiani, nel 40 d.C., durante il principato di Gaio, un Imperatore convinto di essere Dio, si riscontra nellautenticoTestimonium Flavianum”, atto vergato di suo pugno da Giuseppe Flavio:

“Poiché mentre tutti i popoli, sudditi dell’Impero Romano, avevano dedicato altari e Templi a Gaio, e gli avevano dato, sotto ogni aspetto, la stessa attenzione che avevano verso gli Dei, solo il popolo giudaico disdegnava di onorarlo con statue e di giurare in suo nome” (cfr Ant. XVIII 258).
 
Specificando “tutti i popoli adoravano Gaio”, in contrapposizione a “solo il popolo giudaico si rifiutava di farlo”, è evidente che allo storico ebreo non risultava alcuna presenza di cristiani, i quali, stando alla artefatta “tradizione cristiana”, anch’essi, come gli ebrei, erano contrari a divinizzare chiunque tranne Cristo.
Quando scrisse l’intera sua opera, Giuseppe F. non poteva sapere che scribi fraudolenti, tre secoli dopo la sua morte, per ordine del Vescovo Eusebio di Cesarea, interpolarono in “Historia Ecclesiastica" (HEc. I 11,7/8) un falso “Testimonium Flavianum”, in cui si fa dichiarare a Giuseppe Flavio l’Avvento di un Messia (Cristo) ebreo di nome “Gesù”, adorato come il vero ed unico Dio “… e fino ad oggi non è venuta meno la tribù di coloro che da Lui sono detti Cristiani”. La frase affibbiata a Giuseppe “fino ad oggi” è volutamente, ed ipocritamente, intesa come il “presente” dello storico ebreo, da lui documentato sino a tutto il I secolo.
La dimostrazione della falsificazione del “Testimonium Flavianum” si trova nel VI studio.
 
La “cristianità primitiva” del I secolo fu fatta apparire, da scrittori apologisti del IV secolo, come se fosse diffusa nellImpero già sotto Tiberio (addirittura prima di Gaio), e attestata da Eusebio, il quale, da impostore incallito, chiamò questo Imperatore a testimoniare su Gesù Cristo, assieme a Tertulliano (cfr HEc. II 2).
Un cristianesimo diffuso, propagandato sin dall’inizio addirittura sui vangeli, documenti anch’essi, come dimostrato nel VI e VIII studio, risalenti al IV secolo:

"Gesù andava attorno per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e predicando la buona novella del regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità del popolo. La sua fama si sparse per tutta la Siria e così condussero a lui tutti i malati, tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici; ed egli li guariva. E grandi folle lo seguirono dalla Galilea, dalla Decapoli, da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano" (Mt 4,23).

Un cristianesimo dilagante in Siria, ma sconosciuto da Lucio Vitellio, che governò quella Provincia dal 35 al 39, e presente due volte in Gerusalemme sempre durante la Pasqua ebraica (da qui l’incubo degli storici sgrana rosari), oltre che in assoluto contrasto per la forma mentis di Gaio. Costui, un Imperatore impazzito convinto di essere Dio, pretendeva la adorazione di tutti i popoli al punto di scatenare una guerra contro i Giudei se non lo avessero riconosciuto come tale (per fortuna degli Ebrei, Caligola fu eliminato appena in tempo) … Figuriamoci quale massacro di cristiani gesuiti avrebbe compiuto Gaio se questi fossero esistiti veramente.
Fu dunque la assenza di cristiani martirizzati dall’Imperatore che obbligò la censura della biografia di Gaio Caligola da parte degli amanuensi che trascrissero gli Annales di Cornelio Tacito, nellXI secolo, mille anni dopo la morte del cronista imperiale.

Epurazione della Storia praticata dai medesimi scribi di Dio quando, nel “Codex Laurentianus Mediceus 68 II”, tagliarono la cronaca tacitiana degli Annales due anni dopo l’incendio del 64: dal 66 d.C. in poi. Anni seguenti che videro la guerra dei Giudei contro i Romani, conclusasi con il trionfo di Tito, sotto l’Arco del quale, conservato sino ad oggi, il più grande storico di Roma passò molte volte. Un insieme di informazioni eliminate in quanto compromettenti la falsa testimonianza, accreditata a Tacito, del massacro di inesistenti seguaci di Cristo, un movimento religioso chiamato “Cristianesimo”, mai citato prima dallo storico, se non per l’improvvisa vampatadi una ingente moltitudine di màrtiri cristiani crocifissi da Nerone come torce ardentifatto non registrato da Giuseppe Flavio, pur essendo questi presente nel Palazzo imperiale, ospite di Poppea (moglie di Nerone) dalla fine del 63 sino a metà 65 d.C. Un testimone, come Giuseppe, padrone della lingua greca, in grado di capire perfettamente che “Cristianesimo”, (“Christianismus” in latino, “Χριστιανισμός” in greco) per lui che parlava in aramaico il significato era “Messianismo” (italianizzato); figuriamoci quale deposizione avrebbe rilasciato Giuseppe della spettacolare strage di seguaci del Messia divino ebreo che lui stesso attendeva.    
Sulle prove del falso martirio dei cristiani sotto Nerone vedi il XII studio.

Il “vuoto nella storia”, è confermato, seppur indirettamente, da san Girolamo Sofronio (storico cristiano a cavallo del IV-V secolo), in una delle sue opere, "Commentarium in Zachariam" (3,14), giunta sino a noi con questa testimonianza: "Cornelio Tacito stilò trenta rotoli manoscritti sulla vita dei Cesari, dalla morte di Augusto alla morte di Domiziano". Puntualizziamo che Girolamo, ed Eusebio prima di lui, entrambi non sanno del martirio neroniano di cristiani, pur avendo letto i rotoli originali di Tacito.
In merito alle testimonianze “tagliate” dagli amanuensi nelle opere dei cronisti del passato, gli storici spiritualisti affermano che “purtroppo andarono perdute” o “mancano alcuni frammenti”; “perdite” e “mancanze” fatte passare come una casualità: impossibile! La prova della quale consiste nel fine mirato degli scribi di Dio. Fatto che abbiamo ripetutamente dimostrato con ricerche specifiche grazie alla lettura dei Codici, trascritti nei secoli, contenenti varianti e contraddizioni sulle vite dei mitologici “santi cristiani martirizzati”, riguardo i quali, gli amanuensi hanno preso abbagli storici gravissimi quando incolparono i loro “martirizzatori” nelle persone di famosi Governatori delle Province romane, gli stessi che, dalle epigrafi e dalla storiografia confermata dalla archeologia, risultavano impegnati in tutt’altri compiti negli anni indicati dai martirologi della cosiddetta “tradizione cristiana”.

Tornando al “vuoto nella Storia”, una volta constatato il misfatto, per poter proseguire le analisi delle vicende reali è doveroso seguire unaltra fonte, molto bene informata, poiché la guerra, intrapresa da Artabano contro Roma, coinvolse la Giudea, con gli esiti sopra riferiti.
In "Contro Apione", (Libro I par. dal 28 al 46), Giuseppe Flavio evidenzia la cura costante da parte dei Sacerdoti e Sommi Sacerdoti del Tempio nel redigere:

"Annali degni di fede per trasmettere il ricordo degli eventi pubblici di cui le mie "Antichità" ne sono un estratto fedele ... e fino ai nostri giorni questo costume è stato osservato".

Giuseppe Flavio morì nel 105 d.C., ma il Sinedrio fu vietato da Vespasiano alla fine della guerra giudaica conclusa con il trionfo del Generale Tito, figlio di Vespasiano e futuro Imperatore; mentre i Dottori della legge (Rabbini) e gli Scribi continuarono ad esercitare liberamente la loro professione di fede nelle Sinagoghe, mai vietate dall'Impero Romano ... ma proibite dal futuro Impero Cattolico Romano, iniziato con l'Editto di Tessalonica del 380 d.C.
Va segnalato il fatto che, nel 70 d.C., prima che il Generale Tito autorizzasse il saccheggio di Gerusalemme da parte dell’esercito, il condottiero romano concesse allo storico ebreo di prelevare i documenti conservati negli archivi pubblicie ilibri sacri (cfr. Bios par. 1,6 e 418).
In “Autobiografia”, par. 418, Giuseppe fu invitato da Tito a prendere ciò che voleva prima della distruzione finale, l’ebreo si rifiutò, ma “… non essendovi nulla da conservare che potesse dar conforto alle mie sventure, chiesi ed ottenni, per graziosa concessione di Tito, dei libri sacri …”.
Nessun valore materiale, per quanto prezioso, poteva compensarlo della perdita della sua "Città Santa", abbellita con il Tempio più maestoso del mondo. In quei momenti tragici, mentre la morte stava ancora mietendo le ultime vittime, l’unica cosa che poteva interessare a Giuseppe, non fu la ricchezza, che per lui non era mai stata un problema, bensì … il ricordo.

Giuseppe, sacerdote ebreo - discendente dalla più elevata aristocrazia sacerdotale di Gerusalemme, che da generazioni presenziava nella Grande Assemblea Giudaica - sapeva dove erano custoditi i manoscritti degli Atti del Sinedrio: verbali dell’Assise, gli ultimi dei quali aveva contribuito a stilare direttamente come Scriba di tale organo, ad iniziare dal 56 d.C., sotto il Sommo Sacerdote “Ismaele figlio di Fabi”.
Erano documenti “sacri” e, in quel tragico momento, rappresentavano il valore più prezioso cui potesse aspirare: la memoria. Il percorso storico del popolo d’Israele doveva essere salvato grazie agli Atti del Sinedrio: quella fu la fonte da cui lo storico attinse la conoscenza delle vicende giudaiche trascorse. In quei manoscritti, verbali di sedute che si accumulavano anno dopo anno, lui stesso ha potuto leggervi i particolari storici registrati, riguardanti la sua terra, i personaggi famosi relazionati alla sua gente, i Giudei, i loro nemici e … le guerre.
Fu allora che Giuseppe prelevò tutti i rotoli manoscritti giacenti nel Sinedrio: sapeva che gli sarebbero stati indispensabili per documentare la sua intera opera scritta in aramaico ed in greco. Un impegno che iniziò subito dopo la distruzione di Gerusalemme e del Tempio, per protrarsi fino a quasi tutto il principato di Domiziano. Chiunque abbia letto le "Antichità Giudaiche" - dopo aver preso visione delle numerose e particolareggiate vicende, con relativi protagonisti comprovati da numismatica ed archeologia, il tutto riferito dettagliatamente dallo storico ebreo a partire dal III secolo a.C. sin quasi alla fine del I d.C. - si rende conto di attingere notizie da una fonte di un livello paragonabile agli "Atti del Senato" di Roma: gli "Atti del Sinedrio" di Gerusalemme.
  
Fatta la necessaria premessa riguardante gli “Atti del Sinedrio”, grazie a questi documenti - utilizzati come "fonte sacra" da Giuseppe Flavio (le sue "Antichità" iniziano dall'Antico Testamento per confluire nella storia vera il III secolo a.C.), dunque indispensabili ai fini della corretta conoscenza storica - abbiamo la possibilità di ricostruire con precisione la cronologia delle vicende accadute nel corso della guerra fra lImpero Romano e lImpero Partico, intrapresa dal più potente e determinato nemico di Roma, Artabano III, convinto di emulare le gesta di Ciro il Grande e Dario I, fondatori dell’Impero Archemenide dell’antica Persia, il più grande e splendido della storia fino allora conosciuta.
E' grazie agli annali trascritti dagli scribi giudaici negli “Atti del Sinedrio” di Gerusalemme, che ora abbiamo la possibilità di riempire ilvuoto nella Storia”, completando la conoscenza delle vicende passate e la loro esatta successione.   
      
L’atto di forza iniziale, con occupazione dell’Armenia decisa da Artabano, avvenne nell’estate del 34 d.C., subito dopo la morte naturale del Governatore di Siria, L. Pomponio Flacco. Agli inizi del 35, appena ricevuto la dichiarazione di guerra dagli ambasciatori di Artabano, Tiberio conferì l’incarico a Vitellio che, data l’emergenza bellica, partì subito, con diverse navi della flotta imperiale, alla volta del Quartiere Generale di Antiochia, accompagnato dai Legati di legione, Generali di provate capacità, scelti da lui.
Entro un mese al massimo, alcuni Legati di Vitellio, tramite le navi della flotta pontica, si recarono nei territori dellIberia Caucasica per stabilire gli accordi strategici con i regnanti alleati ed i Barbari loro confinanti. 
L’intervento militare di quei popoli, stanziati all’estremo oriente dell’Impero, avvenne in coincidenza alla invasione del Regno dei Parti eseguita dalle legioni romane condotte da Lucio Vitellio. L’azione combinata delle forze in campo, a fine autunno del 35 determinò la riconquista dellArmenia da parte di Roma e la conseguente sconfitta di Artabano.
Questo primo successo, che comportò lo sconfinamento in Parthia delle armate romane, fu specificato così da Tacito “Vitellio, ritenendo bastevole aver fatto mostra delle armi romane … rientra con le sue legioni in Siria” (Cfr. Ann. VI 37) … nei quartieri invernali di Antiochia, a fine autunno del 35 d.C.
Notiamo che, se ai Dignitari Parti bastò la semplice “mostra delle armi romane” per abbandonare Artabano al suo destino, ciò avvalora limponenza dello schieramento militare romano pronto ad entrare in azione se i Parti non avessero riconosciuto Tiridate (voluto da Tiberio) come loro "Re dei Re".

Appena giunto ad Antiochia con il suo esercito, Vitellio trovò una delegazione di Samaritani che lamentavano al suo Tribunale una strage, da loro subita per colpa del Prefetto di Giudea, Ponzio Pilato. Inoltre, evento di estrema gravità, lo aspettavano i corrieri, partiti da Cesarea Marittima ed inviati dallo stesso Governatore, che gli consegnarono il plico con la notizia che Gerusalemme era caduta in mano agli Zeloti a fine estate del 35, di conseguenza il popolo aveva acclamato un proprioRe dei Giudei”.
Informato della rivolta giudaica a fine 35,
come prima disposizione, Vitellio nominò un nuovo Prefetto, Marcello, suo amico di rango equestre, e lo inviò a Cesarea Marittima, latore dell'ordine di destituzione di Ponzio Pilato dal suo incarico e lintimazione di presentarsi a Tiberio per rendere conto della perdita di Gerusalemme: ingiunzione che Pilato si guardò bene dall’eseguire, al contrario, decise che era più "igienico" … sparire per sempre dalla circolazione.
In esecuzione delle direttive di Vitellio, il Prefetto Marcello si recò via mare a Cesarea Marittima con diverse navi della flotta imperiale, cariche, tra l'altro, delle attrezzature logistiche indispensabili per installare le opere d'assedio da dislocare intorno alla città di Gerusalemme. 

Nel merito della “fonte” è doveroso premettere che le cronache di Tacito, sino al punto in cui vennerotagliate”, si sono dimostrate le più precise riguardo gli eventi descritti, evidentemente prelevate dagli “Atti del Senato” in cui erano depositate le relazioni di Lucio Vitellio.
Ma è altrettanto vero che, per i dettagli narrati, nessuno storico imperiale, sia Svetonio che Cassio Dione, come pure lo stesso Tacito, è stato in grado di documentare minuziosamente le premesse e i retroscena determinanti, direttamente connessi allincontro sullEufrate, per il semplice fatto che lo stesso L. Vitellio non poteva esserne a conoscenza.
Fra i tanti particolari manca, soprattutto, la spiegazione di come fu possibile ad Artabano risorgere comeRe dei Re”, dopo essere stato, inizialmente, abbandonato al suo destino dai “Grandi Satrapi” dell’Impero Partico. Linformazione, precisa e puntuale, proviene dagliAtti del Sinedrio”, fonte di Giuseppe Flavio, da cui risulta che promotore della riabilitazione di Artabano fu il Re satrapo, Izate di Adiabene: un protagonista da noi già citato sopra, il quale, superfluo a dirsi, era un parto convertito all’ebraismo.
Fu dunque il movente religioso che indusse Re Izate ad ospitare un Artabano perdente, sino ad attivarsi per convincere gli altri Satrapi a riconoscere nuovamente e sostenere il Grande Re per battere la grandezza di Roma (Ant. XX 54 e segg.). Abbracciata la fede ebraica, Izate favorì Artabano perché, nel caso di una sua vittoria, questi avrebbe liberato dal dominio romano la “terra promessa” da Yahweh al “popolo eletto”: una speranza che risulterà frustrata dalla strategia adottata da Tiberio ed eseguita alla perfezione da Lucio Vitellio.

Riguardo l’intervento di Izate, dobbiamo rilevare l’errato richiamo di Tacito (in assenza della corretta fonte appena citata) quando, dopo l’iniziale sconfitta del Grande Re parto, causata dalla perdita dell’Armenia, negli Annales (VI 36) leggiamo: “Artabano s’affrettò a fuggire fino alle remote frontiere della Scizia”. Potrebbe anche essere stata una semplice “battuta” ironica dello storico, entusiasta della vittoria, perché la Scizia era costituita da un vasto territorio ubicato molto a Nord del Ponto Eusino (attuale Mar Nero), quando, nello stesso tempo (inizi 36 d.C.), Artabano, come risulta dalla narrazione di Giuseppe Flavio, si rifugiò presso Re Izate, ad Arbela, capitale dell'Adiabene, a Sud dellArmenia già riconquistata integralmente da Roma a fine autunno del 35. Possiamo immaginare la reazione del Capo di Stato Maggiore, L. Vitellio, nel caso fosse stato informato dell’esatto rifugio del debellato (in quel momento) Re: avrebbe eliminato subito un Artabano in fuga e crocifisso Izate ... facendo eclissare nella "curvatura spazio tempo” un impossibile futuro “incontro sull’Eufrate” …

Torniamo ora al reale incontro sull’Eufrate tra Vitellio e Artabano. Grazie agli annali tramandati dagli “Atti del Sinedrio”, lo storico Giuseppe F. nelle sue “Antichità” riferisce che Erode Antipa fu un testimone oculare diretto dellevento, essendo questi più che interessato a riprendersi i territori perduti dopo la sconfitta subita da Areta, ma solo L. Vitellio aveva la forza per riconquistare il distretto di Gabala, fortezza del Macheronte compresa, e punire il Re nabateo: un compito che, secondo gli ordini di Tiberio, il condottiero romano avrebbe dovuto eseguire solo a guerra conclusa contro i Parti, con una pace sottoscritta ad un preciso trattato.
Il Tetrarca Antipa, in quanto ebreo presente agli accordi, oltre che Tiberio, sentì il dovere di relazionare il Sinedrio di Gerusalemme affinché gli scribi giudei potessero registrare l’evento nei loro annali.
Va precisato, inoltre, che Erode Antipa non aveva alcuna autorità, né influenza, per la stesura degli accordi fra due Imperi, quindi la sua presenza non trova giustificazione alcuna se non quella di “incalzare” Vitellio per affrettarlo a punire Areta costringendolo a rilasciare i territori occupati, già assegnati da Cesare Augusto al Tetrarca, figlio di Erode il Grande. In compenso, per dare un minimo di giustificazione alla sua insignificante presenza, Erode Antipa si addossò l’onere di far costruire, a sue spese, una sfarzosa tenda ed offrire un regale banchetto ai due Grandi ed alle rispettive scorte militari per festeggiare l’evento (Ant. XVIII 101/103).
 
Abbiamo fin qui elencato una serie di vicende e relative considerazioni basate su precisi dati di fatto, che Albino Garzetti, sebbene interessato ad entrare nella “Grande Storia”, non è stato capace di esaminare. Dall’alto della sua cattedra, escludendo intenzionalmente la vera documentazione probante, il professore, deciso a reinterpretare le passate vicende a suggello del “primato dei vangeli sulla Storia”, ha stabilito la datazione dell’incontro fra Artabano e Vitellio sotto Gaio Caligola nell’estate del 37 d.C.
Al contrario, le fonti storiche bene informate relazionano particolari molto precisi relativi ad imprese, autori, località e date; pertanto, allo scopo di fissare con precisione la vera data del famoso incontro dei Grandi sull’Eufrate, grazie a tali fonti, non ci resta che seguire i movimenti del protagonista principale degli eventi bellici in argomento: Lucio Vitellio e le sue legioni.

Sappiamo che Vitellio, Governatore della Provincia di Siria, era stanziato nel Quartiere Generale anti partico con sede in Antiochia, e da qui si diresse all’Eufrate nel punto preciso da lui scelto e condiviso dal Re parto, laddove si rese necessario costruire un ponte. Ovviamente la struttura fu messa in opera dai genieri romani, i migliori del mondo nel realizzare ponti su barche, fissate nei fiumi con una tecnica sperimentata da Giulio Cesare. Annotiamo inoltre che tale installazione non poteva essere il ponte di Zeugma, già esistente, peraltro questa città era capoluogo di un distretto compreso “entro il” limes romano, non “su il”.
 
Soprattutto, il luogo stabilito da Vitellio doveva essere il più minaccioso agli occhi di Artabano (per indurlo ad accettare le condizioni di pace imposte da Tiberio), al punto di comandare alle legioni romane di invadere un grande e fertile territorio “quella vasta area che, delimitata dal corso dei due celeberrimi fiumi, il Tigri e l'Eufrate, prese il nome di Mesopotamia(Ann. VI 37).
Basta rileggere la cronaca introduttiva di Tacito (Ann. VI 36 e 37) in cui è descritta la tattica implacabile di Lucio Vitellio contro Artabano, studiata dal condottiero a fine autunno del 35 d.C.:

Vitellio, concentrate le legioni e sparsa la voce che intendeva invadere la Mesopotamia … A questo punto, l'aver abbandonato l'Armenia segnò il destino di Artabano, perché Vitellio sobillava i Parti ad abbandonare un re crudele in pace e deleterio per i rovesci sul campo … conduce il nerbo delle sue legioni e degli alleati fino alla sponda dellEufrate costruì un ponte di barche e l'esercito venne fatto passare.

Quando Vitellio, in vista dell'imminente incontro sullEufrate, da Antiochia si obbligò a percorrere molte miglia alla testa delle sue legioni non poteva prevedere se le condizioni imposte al Re parto sarebbero state da lui accettate, quindi si mise in marcia con una notevole forza, equiparata a quella della precedente offensiva, dirigendosi nella stessa località già conosciuta e costruì un altro ponte di barche, analogo al primo, nel punto esatto da cui la eventuale seconda invasione (sappiamo che Vitellio non bluffava ed era pronto ad impegnare l’esercito pur di vincere) avrebbe mirato direttamente alla Mesopotamia, lo stesso preciso punto da cui, a fine autunno del 35 d.C., dopo la prima invasione del Legato imperiale oltre Eufrate, il parto Tiridate, scelto da Tiberio, proseguì sino a Ctesifonte, capitale del Regno dei Parti, in Mesopotamia, per esservi incoronato come "Re dei Re". (cfr. Ann. VI 42).
La posizione strategica, che mirava al cuore dell’Impero Partico, era segnata dall’unico punto in cui lEufrate incrociava il confine della Siria con il Regno dei Parti, dunque fu in quella località che Vitellio costrinse Artabano a venire a patti: circa trecento chilometri ad Est di Antiochia, a Sud dell’Osrhoene e della futura civitas romana “Circesium”, in direzione della capitale partica Ctesifonte e della Mesopotamia.
Non fu un caso se Antiochia venne scelta come Quartiere Generale delle legioni romane, pronte ad intervenire contro le mire espansionistiche dei Parti, peraltro, in prossimità della città, costruita sulle rive di un fiume prossimo alla sua foce nel mare, esisteva uno scalo marittimo utile ai fini logistici dell’esercito.
Gli storici della Roma imperiale sanno che, durante l'epoca del Principato, ogni qualvolta i Parti tentavano di conquistare l’Armenia il contrattacco dei Generali romani “puniva” i Re dei Parti mettendo in fuga i loro eserciti fino in Mesopotamia.

Fatta la premessa necessaria a definire il contesto bellico che si concluderà con i successivi accordi sottoscritti da Vitellio e Artabano sull’Eufrate, nel frattempo la fonte di Giuseppe F. ci informa che, nell’estate del 36, Areta IV sconfisse lesercito di Erode Antipa. Una guerra vinta da Areta, e resa possibile dalla momentanea riscossa di Artabano già citata sopra e avvenuta appunto nello stesso anno (Ann. VI 44), di conseguenza:

Erode inviò un resoconto di questi eventi a Tiberio, il quale, sdegnato dallarroganza di Areta, ingiunse a Vitellio di marciare contro di lui, inviarglielo in catene, qualora lo catturasse vivo, e, se morto, mandargli la testa. Queste furono le istruzioni che Tiberio inviò al Governatore della Siria” (Ant. XVIII 115).

Intanto Vitellio, che era da poco ritornato con le sue legioni dalla prima missione, finalizzata a risottomettere una Gerusalemme insorta contro lImpero (oltre seicento km a Sud di Antiochia), decise di far riposare le truppe nei quartieri invernali. Solo agli inizi di Febbraio del 37 d.C., si mise nuovamente in marcia per circa trecento km necessari a raggiungere il punto da lui già conosciuto nell’autunno del 35. La stessa località, laddove, entro la fine di Febbraio del 37 d.C., ebbe luogo sullEufrate la stipula del trattato di pace fra Vitellio, Luogotenente di Tiberio, con Artabano III.
Come atto preliminare, il cerimoniale vede il Grande Re parto - al cospetto del suo esercito e delle legioni schierate da Vitellio - costretto ad onorare Tiberio e le insegne romane. Terminata la rassegna delle forze e i dovuti ossequi al valore degli sconfitti, i due Grandi e le rispettive scorte entrano nella tenda allestita sul ponte, quindi Artabano sigla il protocollo di stato con il sigillo imperiale impegnandosi a rinunciare a qualsiasi pretesa sull’Armenia, infine, a garanzia degli impegni assunti, consegna suo figlio Dario da inviare come ostaggio a Tiberio

Ma Erode (Antipa), desiderando essere il primo a comunicare allImperatore Tiberio la notizia che gli ostaggi erano stati ricevuti, scrisse una relazione precisa e completa, quindi spedì corrieri con lettere che lo informassero esattamente, e al Governatore (Lucio Vitellio) non lasciò nulla di nuovo da comunicare all’Imperatore. Sicché, quando poi gli giunse il dispaccio di Vitellio, lImperatore (Tiberio) lo informò che conosceva già i fatti avendone avuto notizia da Erode. Vitellio ne restò furioso e accolse l’offesa come più grande di quanto fosse in realtà; ma trattenne il suo sdegno fin a tanto che non se ne fosse vendicato. E ciò avvenne allorché Gaio (Caligola) fu Imperatore dei Romani.” (Ant. XVIII 104-105).

La fretta di Erode Antipa, che anticipò Vitellio nell’informare Tiberio degli accordi accettati da Artabano, purtroppo per lui, costerà molto cara al Tetrarca, come anticipato da Giuseppe: "l'esilio perpetuo a Lione, città della Gallia" (Ant. XVIII 252). Da registrare, peraltro, che il comunicato dell’avvenuto concordato fra Roma e la Parthia, ed il conseguente ordine di Tiberio a Vitellio di uccidere Areta, fu notificato dalla stessa fonte giudaica (la maggioranza degli Ebrei era stata favorevole al successo di Artabano, ormai rivelatosi fallito) anche al Re nabateo. Questi capì che, dopo la sottomissione di Artabano, per lui, lunica salvezza consisteva nella fuga a Petra, previo abbandono dei territori sottratti ad Antipa (sotto Protettorato romano). Fu l’ultima possibilità rimasta ad Areta IV per scongiurare la pena di morte che pendeva sulla sua testa (vedi sopra Ant. XVIII 114). 

Stabilita la pace fra i due Imperi a fine febbraio del 37, Vitellio trattiene due legioni e rimanda ad Antiochia il grosso dellesercito agli ordini dei suoi Legati Generali, con la responsabilità di custodire Dario, il figlio di Artabano, e l’ordine di spedirlo a Roma con una trireme per consegnarlo a Tiberio.
Di seguito - in esecuzione alle direttive dell’Imperatore, volte a uccidere Areta IV per la sua appropriazione del distretto di Gabala e la fortezza del Macheronte - Vitellio, accompagnato da Erode Antipa, alla testa delle due legioni si dirige verso Damasco, da lì procede a Tolemaide, poi segue il litorale fino alla Galilea, da dove entra nella Grande Pianura alla volta di Gerusalemme, laddove, anche in questa circostanza e per la seconda volta,
si stava festeggiando la Pasqua del 37 d.C. ... senza che nessuno lo invitasse ad ammirare i miracoli che gli Apostoli, secondo i loro "Atti" (5,12/16), compivano sotto un inesistente "Portico di Salomone". Nella Città Santa Vitellio sosta alcuni giorni ospite di Antipa:

"Vitellio con Erode Tetrarca salì a Gerusalemme a offrire sacrifici a Dio durante la festa tradizionale che i Giudei stavano celebrando. Al suo arrivo, fu salutato con speciale calore dalla moltitudine giudaica. Restò qui tre giorni ... nel quarto gli fu recapitata la lettera che gli annunziava la morte di Tiberio, ed egli (Vitellio) condusse il popolo
a giurare obbedienza a Gaio  (Ant. XVIII 124).

La stessa prassi che il Legato imperiale sarà obbligato ad eseguire anche con Artabano, poiché Vitellio aveva sottoscritto il trattato di pace in nome di Tiberio; di conseguenza il condottiero romano, una volta rientrato nel Quartiere Generale, imporrà al Re dei Parti di recarsi ad Antiochia per rendere onore a Gaio e alle insegne imperiali, e riconfermare, al contempo, la validità degli accordi presi anche nei confronti del nuovo Principe.
Intanto a Gerusalemme, durante le festività della Pasqua*, informato della morte di Tiberio, Vitellio, non essendo più vincolato agli ordini dell’Imperatore defunto, ma sapendo delle gravi difficoltà incontrate dal condottiero suo predecessore, Emilio Scauro, evitò alle sue legioni di inoltrarsi nell’arido deserto fino a Petra.

* Notiamo che la morte di Tiberio avvenne il 16 marzo del 37 d.C. Considerato che la lettera con il comunicato ufficiale della sua dipartita fu spedita via mare, da Roma a Cesarea Marittima, per essere poi recapitata da corrieri a cavallo fino a Gerusalemme e, valutati circa sette giorni necessari alla consegna, possiamo affermare che la festività pasquale ricadde dopo il 20 marzo del 37. Quindi, dall’incontro sull’Eufrate, per recarsi fino a Gerusalemme, Vitellio impiegò circa quaranta giorni; mentre l'anno precedente il suo viaggio necessitò di circa cinquanta giorni.
Infatti, il condottiero romano - recatosi a Gerusalemme per risottomettere la città insorta contro il dominio di Roma - all'inizio di Febbraio del 36, alla testa delle sue legioni, da Antiochia si diresse a Tolemaide proseguendo fino a Cesarea Marittima, dove fu relazionato dal Prefetto Marcello sulla situazione della Città Santa stretta nella morsa della carestia. 
Il Prefetto consegnò a Vitellio i carri pronti con le attrezzature necessarie a realizzare le opere d'assedio, poi il condottiero avanzò fino a Gerusalemme in occasione della Pasqua del 36. Dopo averla cinta d'assedio impose le sue condizioni che ottennero la resa immediata della città, ormai stremata dalla carestia e impossibilitata a resistere. Quindi, come primo atto, Vitellio crocifisse il sedicente "Re dei Giudei", poi affrancò i Gerosolimitani dal pagamento dei tributi sui prodotti agricoli e portò il popolo a giurare fedeltà a Tiberio. 

Data l'importanza storica, evidenziamo anche il fatto che L. Vitellio - durante il suo primo viaggio a Gerusalemme, avvenuto nel 36 d.C. anch'esso in concomitanza della Pasqua - non fu accompagnato, né ospitato da Erode Antipa. La spiegazione è dovuta al fatto che il Tetrarca non poteva essere presente nella Città Santa perché sarebbe stato giustiziato dagli Zeloti a causa della ribellione giudaica avvenuta a fine estate - inizio autunno (Festa delle Capanne) del 35 d.C. Di conseguenza, la rivolta del popolo di Gerusalemme, affamato dalla carestia, rischiava di coinvolgere anche i Galilei, connotati da Giuseppe Flavio come fra i più "fanatici nazionalisti", pertanto Erode Antipa, Tetrarca della Galilea, fu costretto dal contingente periodo bellico a rimanere a Tiberiade e impiegare il suo esercito per impedire che una incombente ribellione dilagasse al suo territorio. Questo fu il movente che, alla fine del 35 inizi 36 d.C., indusse Antipa ad eliminare Giovanni Battista, il più fervente oratore della Galilea:

"... Quando altri si affollavano intorno a lui (Giovanni Battista) perché i suoi sermoni eran giunti al più alto grado, Erode (Antipa) si allarmò. Una eloquenza, che sugli uomini aveva effetti così grandi, poteva portare a qualsiasi forma di sedizione ... Erode perciò decise che sarebbe stato molto meglio colpire in anticipo e liberarsi di lui prima che la sua attività portasse a una sollevazione. A motivo dei sospetti di Erode (Giovanni Battista) fu portato al Macheronte e quivi fu messo a morte. Ma il verdetto dei Giudei fu che la rovina dell'esercito di Erode fu una vendetta di Giovanni (Battista), nel senso che Dio giudicò bene infliggere tale rovescio a Erode" (Ant. XVIII 118).

La "rovina dell'esercito di Erode Antipa" fu causata dalla disfatta subita da parte dell'ex suocero, Areta IV, in una battaglia che, come abbiamo visto poco sopra (Tacito: Annales VI 44), si svolse nell'estate del 36 d.C., quando gli Arabi passarono alla volta di Artabano.
  
Ora torniamo al 37 d.C.

Una volta terminata vittoriosamente la sua missione contro i Parti, Vitellio mantenne il suo incarico ed i relativi poteri di Capo di Stato Maggiore,
insediato nel Quartier Generale di Antichia fino al 39 d.C., o meglio … fino a quando Gaio Caligola rimase sano di mente.
 
Dopo aver attinto le informazioni storiche dalle fonti dirette, tramandate dagli stessi protagonisti e dai testimoni presenti alle vicende narrate, a questo punto abbiamo risolto l’indagine riguardante la guerra intrapresa da Artabano III contro Roma, conclusasi con la sconfitta dell’Impero Partico grazie al condottiero romano Lucio Vitellio, quando il potente Legato imperiale giunse ad obbligare il "Re dei Re" a sottoscrivere sull'Eufrate, a fine febbraio del 37 d.C., una pace vantaggiosa per l'Impero Romano.
Ciò definito, la smentita dello studio di Albino Garzetti ci obbliga a dimostrare anche gli altri errori da lui commessi...

Il giudizio positivo sull’operato di L. Vitellio è confermato
in “Storia Romana da Cassio Dione, storico che, a sua volta, non può conoscere vicende ignote allo stesso Legato imperiale e, di conseguenza, agliAtti del Senato”. Tantomeno, il famoso cronista del III secolo, ha compiuto una ineludibile ricerca dei resoconti di Giuseppe Flavio, prova ne è il fatto che, alla stregua degli altri storici imperiali, neanche Cassio Dione conosce Re Izate, fautore della rinascita di Artabano, né gli risulta il “vuoto nella storia”, non potendo sapere le cronistorie scritte negli annali degli “Atti del Sinedrio” di Gerusalemme:

Lucio Vitellio era rinomato per il suo governatorato in Siria, durante il quale, tra l’altro, aveva riportato dei brillanti successi, ed aveva intimorito Artabano, il quale stava organizzando uninvasione della Siria… aveva raggiunto Artabano quando questi si trovava nei pressi dellEufrate, e dopo averlo indotto a trattare lo aveva obbligato a sacrificare le immagini di Augusto e di Gaio, imponendogli un accordo vantaggioso per i Romani e prendendo inoltre i suoi figli come ostaggi” (Op. cit. LIX 27,2/3).

Il brano di Cassio Dione, è invocato da Albino Garzetti come “testimone” d’eccellenza dell’incontro sull’Eufrate avvenuto sotto Gaio Cesare. Secondo la cronologia di “Storia Romana”, questo evento sarebbe stato riferito nel 40 d.C., tuttavia viene smentito dalle fonti dirette,
più dettagliate e antecedenti questa data, quelle derivate dalla fonte giudaica, che invitiamo a rileggere poco sopra in “Ant. XVIII 104-105”.
Come possiamo constatare, chiunque capisce che Tiberio - essendo stato informato con lettere (sia da Erode Antipa che da Lucio Vitellio) dellavvenuto trattato già stipulato dal suo Legato con Artabano - appena ricevuto le missive, l’Imperatore rispose personalmente, sia ad Antipa che a Vitellio, con altre lettere il cui contenuto, come abbiamo sopra letto, viene riferito da Giuseppe Flavio, grazie alla fonteAntipa Sinedrio”.
Una documentazione inconfutabile a dimostrazione che Tiberio era vivo ancora dopo levento sullEufrate, concordato dai Grandi.
Pertanto, dal momento che Tiberio morì il 16 marzo del 37 d.C., ciò dimostra che lincontro sullEufrate tra Vitellio ed Artabano avvenne prima di quella data, entro fine febbraio del 37 d.C., come abbiamo già provato avanti: una realtà fuori discussione, compresa da tutti … tranne dagli storici in piena crisi mistica, come Albino Garzetti e i suoi degni “surrogati”.
 
Ancora. Le premesse del persistente potere di Vitellio le riferisce Cassio Dione, ma apprestiamoci a capire bene come le documenta:

“Questo Vitellio, dunque, venne fatto prendere da Gaio per essere mandato a morte … Gaio, infatti, detestava chi si dimostrava superiore ed era sospettoso dei successi di Vitellio perché pensava che avrebbero minacciato la sua posizione. Tuttavia costui (Vitellio) si salvò fingendo, agli occhi di Gaio, di appartenere ad un rango inferiore; si gettò ai piedi dell’Imperatore piangendo calde lacrime e al tempo stesso lo adorò come un Dio. Così riuscì a propiziarsi Gaio c
he non solo lo salvò, ma venne annoverato tra gli amici più intimi dellImperatore. E una volta, quando Gaio disse che stava avendo una conversazione con la Luna e domandò a Vitellio se vedesse la Dea a convegno con lui, egli, fissando lo sguardo a terra, tremando in preda allo sgomento, sussurrando rispose: «Solo a voi Dei, Signore, è lecito guardarvi reciprocamente (Storia Romana LIX 27, 4/6).
 
L’ultima frase potrebbe oggi sembrare una facezia divertente, ma gli storici sanno bene che Gaio, dopo i primi due anni regnati saggiamente (il 37 ed il 38 d.C.), sembra per i postumi di una malattia, il suo comportamento fu poi contrassegnato da gravi squilibri mentali al punto di essere qualificato dai cronisti dell’epoca come un “pazzo sanguinario”.  Ma ritorniamo al brano appena letto.
Dalla testimonianza sospettoso dei successi di Vitellio risulta evidente che Gaio non ebbe alcuna funzione nellimpresa vittoriosa condotta da Vitellio contro Artabano, diversamente da Tiberio il quale ebbe un ruolo diretto grazie alle sue direttive che confermarono l’Imperatore uno stratega sempre all’altezza, e lucido come quando era giovane. Infatti, Tiberio non avrebbe mai potuto essere sospettoso dei successi di Vitellio per il semplice fatto che le vittorie conseguite sul campo furono rese possibili dai suoi ordini diretti (come dai capitali versati), anche se ormai un vecchio Imperatore.

Una serie di errori - commessi da Albino Garzetti, intenzionato a modificare la autentica data dell’incontro sull’Eufrate intercorso fra Artabano e Vitellio - conseguenti allaselezione delle fonti”: un metodo errato, inteso a scartare aprioristicamente quelle notizie contrastanti la sua finalità presupposta.
Come nel caso delle citazioni prelevate da Svetonio
:

“Così Artabano, che proclamava sempre il suo odio e il suo disprezzo per Tiberio, sollecitò spontaneamente l'amicizia di Caligola, ebbe un colloquio con i luogotenenti consolari e, attraversato l'Eufrate, rese omaggio alle insegne romane e ai ritratti dei Cesari.” (Cal. 14,3).

Abbiamo già dimostrato sopra che la fonte di Giuseppe Flavio era costituita dagli “Atti del Sinedrio”, perfettamente a conoscenza dellevento, dei suoi retroscena e delle sue finalità: una fonte sconosciuta a tutti gli storici della Roma imperiale. Infatti, la notizia appena letta, limitandosi a riferire un generico colloquio con i luogotenenti consolari avvenuto durante il principato di Gaio, non dice nulla di concreto. Molto più avanti, riguardo la biografia dell’Imperatore Aulo Vitellio, figlio di Lucio Vitellio, Svetonio riferisce:

Lucio, divenuto governatore della Siria, al termine del suo consolato, con estrema abilità, convinse Artabano, Re dei Parti, non solo a venire a colloquio con lui, ma anche a rendere omaggio alle insegne delle legioni.” (Vitell. 2,4).
 
La fine del consolato di Vitellio avvenne nel 39 d.C., quindi sotto Gaio, ma, come sappiamo bene, tutte le notizie dei cronisti romani sono mancanti della fonte diretta. In queste due citazioni, Svetonio non riferisce della guerra avvenuta fra Roma e la Parthia. Un conflitto preceduto da una dichiarazione di guerra che minacciava lintero Oriente dellImpero ed era già iniziata con la conquista dell’Armenia: da qui si evidenzia la carenza di fonti da parte di Svetonio.
Questa grave omissione non è evidenziata da Albino Garzetti, “specializzato” a leggere la storia attraverso la lente deformante della sua catechesi. Al punto che, a pag. 228 (17^ del suo studio), Albino G. si spinge ad affermare:

“Osservando infine che nello spettacoloso trionfo di Baiae, celebrato nel 39, Gaio si fece accompagnare nel corteo dal giovane Dario, figlio di Artabano, inviato come ostaggio dopo l’episodio dell’Eufrate, ponendolo certo nell’evidenza che si è rispecchiata nella tradizione come testimonianza di una gloria sua e non del predecessore.
 
E' importante ricordare che il “Trionfo” veniva decretato dal Senato e celebrato a Roma, laddove agli eserciti romani - vittoriosi con superiorità, coraggio e bravura eccezionali, durante lo scontro sanguinoso col nemico - era concesso sfilare dai Fori imperiali al Campidoglio. Trionfo che non spettava a Lucio Vitellio, poiché, come abbiamo visto, gli fu sufficiente invadere il Regno dei Parti e schierare le legioni romane, per indurre i Satrapi a rinunciare al conflitto, ed abbandonare Artabano al suo destino; mentre la guerra, e gli inevitabili scontri sanguinosi per la riconquista dell’Armenia, fu praticata dai popoli orientali, alleati di Roma, non dalle forze imperiali romane.
Stabilito ciò, la nota di Garzetti appena letta, conclamata come una ulteriore "prova lampante", si richiama a Svetonio circa la vita di Gaio Caligola: un brano scoperto dallo storico, che, da ricercatore in piena crisi contemplativa, non ha capito, sino a coprirsi di ridicolo, nel considerare la località diBaiae” (attuale Baia, vicino a Napoli) degna sede deltrionfodi un Gaio impazzito ... ad un punto tale che Svetonio, nella sua descrizione di Caligola, così precisa "Fino qui abbiamo parlato del Pricipe, ora non ci resta che parlare del mostro"
In “Caligola 19”, siamo nel 39 d.C. con Gaio irrimediabilmente fuori di testa per una malattia degenerativa, in merito alla fissazione dell’Imperatore nel voler apparire un grande condottiero, Svetonio "dipinge" Caligola così (il brano è lungo ma vale la pena di leggerlo):

Gaio escogitò anche un genere di spettacolo assolutamente nuovo e senza precedenti. Fece costruire tra Baia e la diga di Pozzuoli, che separava uno spazio di circa tremila e seicento passi, un ponte formato da navi da carico, riunite da tutte le parti e collocate all'ancora su due file; poi le si ricoprì di terra dando a tutto l'insieme l'aspetto della via Appia. Per due giorni di seguito non la smise di andare e venire su questo ponte: il primo giorno si fece vedere su un cavallo riccamente bardato, con una corona di quercia, una cetra, una spada e una veste broccata d'oro, il giorno dopo, vestito come un cocchiere di quadriga, guidava un carro tirato da due cavalli celebri, che erano preceduti dal giovane Dario, uno degli ostaggi dei Parti, e seguiti da una schiera di pretoriani e di veicoli con a bordo un gruppo di amici. So che Gaio aveva ideato un ponte di tal genere secondo alcuni per rivaleggiare con Serse che, non senza stupore, ne gettò uno sull'Ellesponto, anche se più modesto, e secondo altri, per spaventare, con la risonanza di qualche opera gigantesca, Germani e Bretoni che lo minacciavano di guerra. Ma durante la mia infanzia, ho sentito raccontare da mio nonno che, secondo le confidenze di persone addentro ai segreti del suo cuore, la ragione di questa impresa si trova nella dichiarazione dell'astrologo Trasilo a Tiberio, il quale si tormentava a proposito del suo successore e si orientava verso il proprio nipote: «Gaio ha tante possibilità di diventare Imperatore quante ne ha di attraversare a cavallo il golfo di Baia»”
(Svet. Cal. 19).

Fra i moventi del ridicolo "trionfo" dello squilibrato Gaio, ci fu anche la testimonianza del nonno di Svetonio, da cui risulta che Caligola intendeva smentire la battuta di Tiberio, in auge quando il vecchio Imperatore doveva scegliere il suo successore … ma Garzetti si è autoconvinto che questa narrazione eratestimonianza di una gloria sua (di Gaio) e non del predecessore (Tiberio)”.

I dati riportati in questa ricerca, analizzati con il semplice razionalismo storico, da soli bastano a chiudere definitivamente la questione della datazione dell’incontro sull’Eufrate fra Lucio Vitellio ed Artabano.
Informazioni dettagliate, riprese dalle fonti dirette, nessuna esclusa, delle quali le più importanti derivano:
- dai resoconti di Lucio Vitellio, inviati al Senato e là archiviati negli "Atti del Senato", consultati e adottati come fonte da Cornelio Tacito, ma censurati e interpolati in modo mirato dagli amanuensi che trascrissero i Codici dei suoi Annali nell’XI secolo, il cui titolo originale era "Ab excessu Divi Augusti";
- dagli Annali trascritti negli “Atti del Sinedrio” di Gerusalemme, pervenuti tramite le "Antichità Giudaiche" di Giuseppe Flavio, anch'esse censurate e interpolate funzionalmente dagli scribi di Dio che le trascrissero nel "Codex Ambrosianus F 128" dell'XI secolo.

Una lunga analisi che invalida la risoluzione escogitata dal professore Albino Garzetti, totalmente errata, essendo finalizzata a salvaguardare la attendibilità del credo cristiano; conclusione ormai in coma irreversibile, nonostante i suoi epigoni "cattedratici successori" persistano a tenerla in vita grazie ad un "accanimento terapeutico" supportato dai mass media chiesastici impegnati ad occultarne il definitivo e penitenziale "De profundis" ... già salmodiato dalla Storia.   
 

Emilio Salsi

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