Una grave carestia indusse Yeshùa a proclamarsi Re dei Giudei
Preambolo
Atti degli Apostoli:
“Un Profeta di nome Àgabo, alzatosi in piedi, annunziò, per impulso dello Spirito Santo, che sarebbe scoppiata una grave carestia su tutta la terra. Ciò che di fatto avvenne sotto l’impero di Claudio" (At 11,28).
Sin dal IV secolo, epoca in cui vennero stilati gli "Atti degli Apostoli" nei rispettivi codici biblici (come il "Codex Sinaiticus" ed il "Codex Vaticanus"), gli storici dei Cristiani giunti al potere - grazie alla lettura dei rotoli del I secolo, conservati nella biblioteca imperiale con le opere dello storico Giuseppe Flavio - conoscevano il problema rappresentato da una funesta carestia che imperversò in Giudea dal 34 al 36 d.C. durante l'impero di Tiberio, non sotto Claudio.
La gravità di quella sventura portò gli Ebrei all'esasperazione al punto che, durante la "Festa delle Capanne" (fine estate inizi autunno) del 35 d.C., il popolo di Gerusalemme, guidato dagli Zeloti, si rivoltò al potere politico che governava la Giudea, allora rappresentato dal Prefetto romano "Ponzio Pilato" (in quel momento a Cesarea Marittima) e dal "Sinedrio" della città santa. Quest'ultimo era una istituzione religiosa, presieduta dal Sommo Sacerdote del Tempio, costituita da settantuno membri, la più autorevole per gli Ebrei nell'interpretare la Legge mosaica, in prevalenza costituita dalla facoltosa casta sacerdotale filoromana.
La ribellione avvenne in concomitanza della guerra dichiarata contro Roma, agli inizi del 35 d.C., dal supremo Re dei Parti, di sangue arsàcide, Artabano III*. La distruzione della guarnigione militare romana, a presidio di Gerusalemme, permise agli Zeloti di insediare nel trono che fu di Davide un discendente degli Asmonei, "Giovanni, figlio di Giuda il Galileo", entrambi nativi della città di Gàmala, roccaforte giudaica zelota inattaccabile militarmente.
In quella circostanza, Giovanni venne acclamato dalla folla come "Yeshùa" (Salvatore) e "Re dei Giudei".
Fu dunque attuato un cambio politico di potere (citato in un memoriale da Giuseppe Flavio nel libro VII cap. 8 della Guerra Giudaica), già concordato dall'asmoneo con il potente Re della Parthia, che comportava l'investitura di Giovanni, tramite l'ancestrale unzione ebraica, sia come Re che come "Sommo Sacerdote" del Tempio. Stesse modalità stabilite dal suo antenato asmoneo, Antigono II, figlio di Aristobulo, quando, nel 40 a.C., dopo essersi alleato con l'allora Re dei Parti, Barzafrane, potè anche lui divenire "Re dei Giudei" e Sommo Sacerdote del Tempio.
Fu così che, per la "Festa delle Capanne" del 35 d.C., in Gerusalemme salì sul trono, come monarca assoluto, un Dottore della Legge (Rabbino), il cui nome era "Giovanni".
* In epoca moderna gli storici hanno individuato il Re dei Parti in "Artabano II", tuttavia, dovendo confrontarci con studi preesistenti di altri autori, per convenzione continueremo a citarlo come "Artabano III".
Nell'XI secolo, gli amanuensi del "Codex Ambrosianus F 128", quando trascrissero il testo di "Antichità Giudaiche", alterarono le cronache del popolo israelita narrate nel III libro di quest'opera laddove lo storico ebreo, Giuseppe Flavio, mille anni prima, aveva riferito le vicende della sua epoca. Scopo degli scribi fu depistare la ricerca degli studiosi sulla precisa datazione della grave carestia che afflisse i Giudei, flagello che innescò la rivolta popolare con l'acclamazione di Giovanni "Re dei Giudei" e "Salvatore" (Yeshùa); fino a quando i Romani, dopo aver sconfitto Artabano III, crocifissero il sedicente monarca giudeo durante le festività della Pasqua del 36 d.C.
Una vicenda che, oltre un secolo dopo, fu idealizzata dalla setta ebraica degli Esseni tramite la creazione di un nuovo mito: il "Messia, Salvatore Universale e Figlio di Dio", col potere di far risorgere i morti donando loro la vita eterna.
Un Messia, "Figlio di Dio", che gli stessi Esseni, oltre un secolo prima, ne avevano profetato l'avvento come "Dominatore Universale" nei Rotoli del Mar Morto, "frammento 4Q 246":
"Egli sarà chiamato il Figlio di Dio: essi lo chiameranno il Figlio dell'Altissimo. Il Suo regno sarà un dominio eterno ... il popolo di Dio si leverà e fermerà tutti con la spada".
Un Messia le cui tracce permangono tutt'oggi nei vangeli. Così Luca:
"Egli sarà grande e sarà chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di suo padre Davide ... perciò quello che nascerà sarà chiamato santo Figlio di Dio" (Lc 1,32-35).
Così Matteo: "Non sono venuto a portare pace sulla terra, ma una spada" (Mt 10,34).
Ecco come operarono i falsari sul richiamo storico della carestia, ripreso da Giuseppe Flavio ad esempio di integro rispetto del digiuno, previsto dalla Legge mosaica, da parte dei sacerdoti ebrei anche in casi di estrema difficoltà.
"Antichità Giudaiche" Libro III 320: "Questa legislazione giunta da Dio, fece sì che questo eroe (Mosè) fosse elevato a un rango superiore alla sua natura; non solo, ma poco prima della nostra presente guerra, sotto l'imperatore dei Romani Claudio, e il nostro Sommo Sacerdote Ismaele,* quando la nostra regione era stretta dalla carestia al punto che un assaron valeva quattro dracme, e quando per la festa degli Azzimi si portarono non meno di settanta cori di farina, il corrispondente di trentun medimni Siciliani o quarantun Attici, nessuno dei sacerdoti osò mangiarne neppure una pagnotta, nonostante la grande carestia che devastava la terra, per timore della Legge e dell'Ira con la quale Dio insegue ognora i crimini, anche se nascosti. Non c'è dunque motivo di meravigliarsi per quanto è avvenuto allora, costatando che a tutt'oggi gli scritti lasciati da Mosè hanno così tanta autorità che persino i nostri nemici riconoscono che la nostra costituzione fu emanata da Dio per mezzo di lui e dei suoi meriti".
* Notiamo le sviste aggiunte, evidenziate in giallo, commesse dagli esegeti di Dio quando alterarono il brano appena letto:
1° - A questo "Ismaele" manca il patronimico "figlio di (bar) Fabi": una omissione che Giuseppe Flavio non ha mai fatto quando, in prima citazione, lo storico riferiva di ogni Sommo Sacerdote del Tempio. Verifichiamo adesso i richiami specifici riportati in "Antichità" (XX 179 e segg.), laddove si attesta l'investitura a Sommo Sacerdote del giovane "Ismaele figlio di Fabi" decisa da Re Agrippa II - sotto Nerone, non sotto Claudio - durata dal 56 al 61 d.C., data in cui fu sostituito dal Sommo Sacerdote "Giuseppe detto Kabi" figlio di Simone.
Nel corso dei cinque anni del sommo sacerdozio di Ismaele accertiamo nella cronaca diretta dello storico ebreo Giuseppe F., già membro del Sinedrio dal 56 d.C. in poi, che non avvenne alcuna carestia.
2° - Al contrario, durante la carestia richiamata in "Atti degli Apostoli" e avvenuta sotto Claudio il 47 d.C. (cfr. Tacito, Annales XI 4) nella lontana provincia di Giudea, il Sommo Sacerdote del Tempio non era "Ismaele", bensì "Giuseppe figlio di Camei", il quale fu nominato da "Erode fratello di Agrippa" al posto di "Simone detto Canthera, figlio di Boeto" (Ant. XX 16). L'anno successivo, sotto il neoeletto Procuratore "Ventidio Cumano" (in carica nel 48 d.C.), fu nominato un nuovo Sommo Sacerdote "Anania figlio di Nebedeo", il quale, nel 52 d.C., verrà arrestato dal Legato di Siria "Ummidio Durmio Quadrato" e non sarà più rieletto dai Romani.
Ricordiamo che gli scribi di Dio presero un'altra cantonata facendo bisticciare san Paolo con questo "Anania" nel 59 d.C. (vedi II studio) qualificandolo come impossibile "Capo del popolo ebraico" e "Sommo Sacerdote" del Tempio, quando il vero Sommo Sacerdote era Ismaele figlio di Fabi.
La cronotassi dei Sommi Sacerdoti del Tempio è completa dei resoconti degli atti particolareggiati da loro svolti ed accuratamente descritti dallo storico ebreo Giuseppe, peraltro, lui stesso membro del Sinedrio dal 56 d.C. (vedi "Incipit" I studio), quindi testimone oculare e scriba del Sommo Sacerdote "Ismaele figlio di Fabi" in Gerusalemme.
Essendo impossibile che Giuseppe Flavio abbia rappresentato, in due eventi contrastanti, lo stesso Sommo Sacerdote "Ismaele", il quale, peraltro, reggeva il Sinedrio in cui operavano assieme, si dimostra perciò che la citazione evidenziata sopra in giallo è una interpolazione spuria, inserita, la prima volta, in "Antichità Giudaiche" dai redattori del "Codex Ambrosianus F 128", allo scopo di rendere opinabile la datazione della carestia.
In detto brano, oltre a dichiarare "Ismaele" Sommo Sacerdote contemporaneo dell'imperatore Claudio, un fatto impossibile come si è visto, i calligrafi cristiani dell'undicesimo secolo hanno commesso la leggerezza (che ci ha fatto scoprire l'imbroglio) di trascrivere la stessa frase sopra citata di "Atti degli Apostoli": "la grave carestia che devastava la terra". Fra poco capiremo il perché quella funesta carestia fu costretta dai copisti ad espandersi sul mondo intero oltre la Giudea.
A questo punto è sufficiente eliminare la estemporanea interpolazione evidenziata in giallo per verificare che l'astinenza dal cibo, prescritta dalla Legge mosaica, fu rispettata, come documentato dallo storico Giuseppe Flavio, da tutti i sacerdoti anche durante la letale carestia che, in quegli anni, afflisse il popolo giudaico, raggiungendo il suo acme nel 35 e 36 d.C., quindi durante il principato di Tiberio.
Tutto ciò premesso, entriamo ora nel merito della vera carestia, oggetto della nostra analisi, per dimostrare la causa che spinse gli storici cristiani, del IV e dell'XI secolo, a falsarne la datazione, prima in "Atti degli Apostoli", poi in "Antichità Giudaiche" e, inevitabilmente, nella "Historia Ecclesiastica" di Eusebio di Cesarea.
Parte prima: La carestia
Tramite la lettura di “Atti degli Apostoli” abbiamo provato l’inesistenza di san Paolo e degli altri protagonisti evangelici, tutti dotati di poteri soprannaturali trasmessi loro dallo "Spirito Santo", descritti in maniera talmente puerile e sciocca al punto che i dotti esegeti ecclesiastici, ad iniziare dal Pontefice, si vergognano di riferire questi particolari ai credenti per evitare di far cadere nel ridicolo i "santi attori" ... ed essi stessi.
Purtuttavia, bisogna ammettere che sarebbe stato avvincente incontrare per strada uomini con una lunga barba,
sguardo fisso al cielo, aspetto ieratico ed una "lingua di fuoco posata sulla testa": lo "Spirito Santo" (At 2,3/4) che li accompagnava nel loro incedere solenne ...
Stiamo per scoprire un altro di questi personaggi straordinari inventati da Luca: il Profeta Àgabo. Costui, grazie al vaticinio rivelatogli dallo Spirito Santo, indurrà Saulo Paolo a recarsi in Giudea per soccorrere i "fratelli" affamati falla carestia.
Seguiamo dunque gli eventi storici concreti ed accertiamo le gesta del mai esistito "super apostolo dei Gentili".
In Atti (At 21,8/11), "a casa di Filippo, uno dei sette" tale Profeta predisse, "Questo dice lo Spirito Santo", a san Paolo la sua cattura da parte dei Pagani (i Procuratori Antonio Felice e Porcio Festo) ... ma, grazie allo studio su Paolo di Tarso, sappiamo che le vicende e i personaggi tutti, compreso Filippo, furono inventati da scribi falsari cristiani con lo pseudonimo "Luca".
La mistificazione che stiamo per accertare, come le precedenti, aveva un suo scopo ben definito e vitale per la nuova dottrina: nascondere, in questo caso, la data precisa e relativo contesto storico che indusse “Gesù” e i suoi fratelli, capi del movimento di liberazione nazionale degli Zeloti, a prendere il potere a Gerusalemme, il 35 d.C.
Questo fu l'anno in cui Iohannes riuscì a farsi incoronare Re dei Giudei, per poi essere giustiziato dai Romani, appena fuori dalle mura della Città Santa, nel periodo della Pasqua ebraica dell’anno successivo, il 36 d.C.
Continuiamo, quindi, a comparare fra loro gli scritti neotestamentari e la storia. Dai "documenti sacri", anche se a prima vista potrebbe sembrare impossibile, siamo in grado di far emergere la Storia, quella vera, dimostrando che gli eventi reali, connessi a “Gesù Cristo”, riguardarono una semplice guerra, fra le molte sostenute dall’Impero Romano, resasi necessaria per mantenere sotto il dominio di Roma una terra i cui abitanti, gli Israeliti, consideravano “Santa” e inviolabile perchè assegnata loro da Dio, pertanto non potevano accettare fosse sottomessa ai Pagani.
Giuseppe Flavio, “Antichità Giudaiche” (Lib. XX 101):
“Fu sotto l’amministrazione di Tiberio Alessandro (dal 46 al 48 d.C.) che in Giudea avvenne una grave carestia, durante la quale la regina Elena comprò grano dall’Egitto con una grande quantità di denaro e lo distribuì ai bisognosi, come ho detto sopra”.
Un lettore, dèdito alla lettura progressiva del testo, giunto a questo punto, si rende conto di trovarsi di fronte ad una ripetizione, molto ridotta, di un grave evento riferito, dettagliatamente, poco prima dallo storico … e non può fare a meno di chiedersi il perché.
Ciò che colpisce è il risalto attribuito alla datazione, vero scopo dell’introduzione spuria di questo passo: sotto l’amministrazione del Procuratore Tiberio Giulio Alessandro (46-48 d.C.), quindi sotto il Principato di Claudio.
In effetti cosa aveva “detto sopra” lo storico ebreo della regina Elena?
"La sua venuta fu di grande utilità per il popolo di Gerusalemme, perché in quel tempo la città era rattristata dalla carestia e molta gente moriva perché sprovvista del denaro per acquistare ciò di cui abbisognava. La regina Elena inviò i suoi attendenti, ad Alessandria, per acquistare ingenti quantità di grano, ed altri a Cipro per carichi di fichi secchi. Quando Izate, suo figlio, seppe della carestia, anch’egli mandò ai capi di Gerusalemme una grande somma di denaro. La distribuzione di queste somme ai bisognosi, liberò molti dai disagi della carestia. Lascio a un altro momento il racconto dei benefici compiuti da questa coppia reale per la nostra città" (Ant. XX 51/53).
Rileviamo subito un primo dettaglio che rende incompatibili le due notizie: quella appena letta, molto circostanziata,
parla di "capi di Gerusalemme" (il Sinedrio, ma non cita un Governatore romano, in quel momento assente come proveremo più avanti), mentre la precedente, laconica, ci informa che vi era un solo "capo", ovviamente romano: il Procuratore Tiberio Alessandro. Una notizia falsa come stiamo per accertare.
Consapevoli che dal 6 al 48 d.C. i Governatori della Giudea che si avvicendarono in quella Provincia erano singoli Legati imperiali romani, ad eccezione dell'interregno del Re ebreo Erode Agrippa I (dal 41 al 44 d.C.), proseguiamo nell'indagine per chiarire meglio.
Elena e suo figlio Izate furono rispettivamente Regina e Re, ebrei, dell’Adiabene, una regione a sud dell’Armenia, ad est dell’alto corso del fiume Eufrate (confine concordato fra l’Impero Romano e la Parthia) ed oltre il fiume Tigri.
Subito prima di questo episodio leggiamo che, appena nominato Re:
“Quando Izate giunse ad Adiabene per prendersi il Regno e vide i suoi fratelli ... giudicando cosa empia ucciderli, tenendo presente gli affronti ricevuti, ne mandò alcuni a Roma da Claudio Cesare, con i loro figli come ostaggi; e con la stessa scusa altri (fratelli) li mandò da Artabano re dei Parti” (Ant. XX 36-37).
L’accostamento cronologico dei due grandi Imperatori nella vicenda è un errore storico gravissimo che Giuseppe Flavio non ha potuto commettere: lui sapeva benissimo che Artabano sarebbe morto nel 38 d.C. perché lo riferisce più avanti (Ant. XX 69). Questa notizia (come ci è stata tramandata dagli amanuensi copisti del “Codex Ambrosianus F 128 dell’XI secolo) fu attribuita allo storico ebreo dopo aver descritto la carestia (citata sopra) e la guerra condotta dal Re parto contro Tiberio; infatti lo storico ebreo sapeva che Claudio fu proclamato Imperatore nel 41 d.C., e del quale ne riporta la cronaca.
Peraltro i manoscritti del cronista ebreo, nel I sec., furono sottoposti alla verifica degli storici romani prima di essere approvati e depositati negli Archivi Imperiali ... e questa è storia di Roma.
Ne consegue che, essendo Artabano vivo, l’unico Imperatore avente causa con lui fu Tiberio e non altri.
Che si trattasse dell’imperatore Tiberio lo conferma inequivocabilmente ancora la storia, infatti in "Ant. XX 92" Giuseppe scrive: “Izate morì, avendo l’età di cinquantadue anni e ventiquattro di regno” (divenne Re a 28 anni).
Sapendo da Tacito (Ann. XII 13-14) che nel 49 d.C. Izate era ancora vivo, ne ricaviamo che fu nominato Re prima del 30 d.C. ma, avendo letto che, appena insediato nel Regno, mandò i suoi fratelli come ostaggi all’Imperatore di Roma, questi non poteva essere che Tiberio.
Evidenziamo il fatto che Re Izate inviò i fratelli come "ostaggi" (una prassi adottata dai due Imperi, quello Romano e quello Partico, come dimostrazione di lealtà verso l'uno o l'altro Imperatore) ad entrambi i Grandi Reggenti, essendo l'Adiabene situata a sud dell'Armenia, una vasta regione contesa dai Romani e dai Parti, ma quasi sempre assoggettata al potere di Roma in virtù del fatto che le sue legioni riuscirono a sconfiggere tutti i tentativi, messi in atto dagli aggressivi nemici, pur di conquistarla.
Da quanto sopra esposto risulta evidente, senza alcuna ombra di dubbio, che la carestia, descritta nei par. da 51 a 53 di "Antichità XX", afflisse la Giudea prima della crisi di Artabano avvenuta alla fine del 35 d.C.; crisi narrata nei par. da 54 a 68. Infatti, a questa carestia posero rimedio (con quali benefici certi è impossibile stabilirlo) innanzitutto la famiglia reale ebrea con aiuti diretti, poi il Legato imperiale Lucio Vitellio, con la detassazione dei prodotti alimentari, che ne abbassò i costi e la tensione sociale, comunicata durante la Pasqua del 36 d.C. (Ant. XVIII 90), a seguito delle vicende sopra descritte.
E’ importante sottolineare che la sequenza cronologica degli avvenimenti, così come la leggiamo in “Antichità Giudaiche”, è semplicemente assurda poiché prima viene citato l’imperatore Claudio (eletto nel 41), cui Izate invia i parenti come ostaggi, poi la carestia che, secondo gli "Atti" di Luca (stiamo per leggerli) e il par. 101 del Lib. XX in “Antichità” (sopra riportato), viene datata dopo il 46, ed infine (il contrasto nella sequenza) sappiamo della crisi del 35 d.C. di Artabano, antecedente la sua morte avvenuta il 38 d.C. Questa progressione insensata di date torna perfettamente a posto correggendo l’errore degli ostaggi inviati all’Imperatore Tiberio anziché Claudio.
Seguendo gli eventi storici apprendiamo che la sconfitta militare di Artabano, avvenuta a fine autunno del 35 d.C., fu causata dall'intervento in Armenia di orde barbariche transcaucasiche, stanziate all'estremo Oriente dell'Impero (pagate da Tiberio), in concomitanza all'invasione della Parthia, oltre Eufrate, eseguita dalle legioni di Lucio Vitellio. Questi, peraltro, riuscì a corrompere numerosi Satrapi, parenti e amici del vecchio Re, al punto di spodestarlo. Il Legato consolare operò grazie al mandato ed ai capitali di Tiberio, riuscendo a riprendere l’Armenia, conquistata da Artabano l'anno prima, l'estate 34 d.C.
Nonostante la grave difficoltà iniziale, Artabano riuscì a superare la crisi grazie all’intervento di Re Izate, il quale, agli inizi del 36 d.C., convinse i Re Satrapi (Ant. XX 62/66) a riconoscerlo nuovamente come loro “Re dei Re”, consentendogli di riprendere il conflitto sino ad ottenere alcune vittorie. Successi parziali, ma insufficienti per vincere la guerra dato il grande schieramento di forze romane, ancora intatte, agli ordini di L. Vitellio, pronte ad invadere la Parthia una seconda volta mettendo a rischio l'integrità del territorio e la vita dello stesso Artabano.
Alla fine del 36 d.C., Tiberio, consapevole della sua forza, decise di chiudere le ostilità ordinando a Vitellio di incontrare Artabano per stabilire un trattato fra i due Imperi, ma vincolato a precise condizioni. Fu così che (come proveremo più avanti nella 3^ parte) Vitellio e Artabano, agli inizi del 37 si incontrarono sul fiume Eufrate, limes concordato fra i due Imperi, per siglare i patti che imponevano al Re dei Parti il riconoscimento dell'Armenia sotto dominio di Roma, l'obbligo di onorare con sacrifici le immagini di Augusto e Tiberio, infine la consegna del figlio "Dario" da inviare in ostaggio a Roma come garanzia degli impegni presi, quindi:
Dopo le necessarie puntualizzazioni storiche, utili a scadenzare correttamente le passate vicende, ritorniamo alla carestia per approfondire il movente che impose agli amanuensi cristiani la sostituzione del nome dell’imperatore, Tiberio con quello di Claudio, al fine subdolo di farci credere che la fatale penuria di cibo si verificò sotto quest'ultimo Cesare, esattamente come riportata in “Atti degli Apostoli” (11,28-29), laddove si arricchisce "l’eschetta storica" della carestia con l'abituale camuffamento della "Profezia" divina:
“Un Profeta di nome Àgabo, alzatosi in piedi, annunziò, per impulso dello Spirito Santo, che sarebbe scoppiata una grave carestia su tutta la terra. Ciò che di fatto avvenne sotto l’impero di Claudio. Allora i discepoli si accordarono per mandare un soccorso ai fratelli abitanti in Giudea, indirizzandolo agli anziani per mezzo di Bàrnaba e Saulo (Paolo)”.
Da evidenziare che i redattori di “Atti degli Apostoli”, così come quelli delle "lettere di Paolo", erano al corrente della verità storica della carestia sin dal IV secolo d.C., purtuttavia, gli scribi cristiani, dopo averci passata questa informazione, si dimenticarono di riferire la conclusione della “missione” di san Saulo Paolo nella Giudea, sebbene motivata da una causa specificata e importante per la gravità della sciagura, abbattutasi su quella regione, al punto di provocare numerose vittime fra la popolazione.
Ciò che importava agli amanuensi lucani era solo far risultare che avvenne sotto Claudio, pertanto … perché sprecare altro prezioso papiro e inchiostro? Senza contare il rischio di prendere qualche svista storica.
Infatti il riferimento a Claudio non fu accidentale ma mirato. “Luca”, spulciando fra gli eventi accaduti alla ricerca di un alibi per sviare gli studiosi, dopo aver scartato una carestia avvenuta a Roma sotto Tiberio nel 32 d.C. (Tacito Ann. VI 13) poiché coincidente all’epoca del “Gesù” evangelico, trovò il pretesto in un’altra carestia che afflisse Roma durante il principato di Claudio, riportata da Svetonio e da Tacito:
“…l’addebito avanzato contro uno dei due fu d’aver visto, in sogno, Claudio cinto di una corona di spighe volte all’indietro, con conseguente predizione di una carestia” (Ann. XI 4).
Questo “sogno profetico” servì a “Luca” per farsi “dettare da Dio” il vaticinio del Profeta Agabo e depistare, cronologicamente, la vera carestia, molto più grave, avvenuta in Giudea ove raggiunse l'acme negli anni 35 e 36 d.C.; ma, essendo i due territori troppo lontani fra loro, per contenerli entrambi fece dichiarare al Profeta che “una grave carestia sarebbe scoppiata su tutta la terra”: un evento di così elevata drammaticità, tale da dover essere riferito da ogni scrittore dell’epoca. Fatto che non si è verificato, ovviamente, perché, quella di Roma, più che di una seria carestia si trattò di carenza di cibo, di breve durata, risolta senza che nessuno morisse di fame; diversamente da quanto avvenne in Giudea. Intanto abbiamo evidenziato il movente che, in osservanza dei su citati "Atti degli Apostoli", gli ingenui amanuensi del "Codex Ambrosianus F 128", nell'XI secolo commisero la leggerezza di "testimoniare" in un testo storico una assurdità evangelica.
La eccezionale penuria di generi alimentari fu letale per molti Giudei e questo evento divenne una delle cause scatenanti che spinsero "Yeshùa" a prendere il potere in Gerusalemme facendosi proclamare Re dei Giudei.
A questo obiettivo concorsero i pellegrini dell'ecumene ebraica, soprattutto Galilei, Idumei e Giudei, oltre gli abitanti di Gerusalemme esasperati dagli stenti; tutti in rivolta contro il potere imperiale e l'aristocrazia religiosa filo romana.
Al fine di impedire che tale calamità, unitamente agli eventi bellici in corso fra il 34 ed il 36 d.C., richiamasse l'attenzione degli storici inducendoli a indagare e scoprire che il 36 fu la data della morte di "Gesù Cristo" e, peggio ancora, individuare che l'uomo veramente esistito non corrispondeva ideologicamente all'essere prodigioso, soprannaturale, creato sul suo mito molto tempo dopo gli avvenimenti reali, gli scribi cristiani lucani fecero slittare in avanti di oltre dieci anni la notizia riguardante la carestia: sotto Claudio anzichè sotto Tiberio.
L’Eminente Episcopo, Eusebio di Cesarea, grazie alla sua posizione di rilievo presso la corte del Pontefice Massimo, l’Imperatore Costantino, fu il primo cristiano che poté accedere agli Archivi di Stato e consultare i rotoli manoscritti integri di "Antichità" di Giuseppe Flavio. Preso visione degli eventi reali e delle gravi ricadute avverso la dottrina cristiana, quando inventò la “Historia Ecclesiastica” in essa riferì di tale carestia in modo particolareggiato e, per renderla più credibile, non poté fare a meno (e lo ringraziamo!) di citare la “testimonianza” di Giuseppe Flavio, ovviamente modificata, rapportandola sia a quella di "Atti degli Apostoli" con la profezia di Àgabo, sia all’intervento della regina Elena: il tutto avvenuto sotto Claudio (HEc. II 12,1/3).
Con la sua “testimonianza”, il Vescovo gesuita intese “garantire” le menzogne di “san Luca” in “Atti” falsificando le notizie dello storico ebreo, nei punti sopra riferiti, allo scopo di nascondere l'identità dei veri protagonisti delle vicende e la loro datazione; ma Eusebio commise il grave errore di specificare che quella era “la carestia della regina Elena”, la stessa, lo abbiamo visto, che la storia dimostra essere avvenuta sotto Tiberio anziché sotto Claudio.
Eusebio mistificò in Historia Ecclesiastica il contenuto dello stesso rotolo manoscritto che riportava la cronaca, in origine completa del vero nome con patronimico, riguardante il Profeta Theudas di nome Giuda, uno dei fratelli di “Gesù”; non solo, fu costretto ad eliminare anche la notizia, sopra annunciata dallo storico ebreo, riguardante ulteriori elargizioni a beneficio di Gerusalemme, che avremmo certamente letto in Antichità:
“Lascio a un altro momento il racconto dei benefici compiuti da questa coppia reale per la nostra città” (ibid).
San Paolo Saulo, “il Segretario di Stato” senza jet-executive, fu lui ad occuparsi della “colletta” per gli aiuti e possiamo star certi che i Giudei, finalmente, se pur oltre dieci anni dopo, si rimpinzarono a sazietà e gli storici contemplativi mistici, odierni, allibiti dalla suddetta profezia, inghiottono l’eschetta infilzata sull’amo del “Profeta”, quasi fosse un’ostia consacrata e, all’unanimità, si attivano subito per “interpolare” con note a pié di pagina, allusive alla carestia sotto Claudio e agli “Atti degli Apostoli”, i testi didattici e “Antichità Giudaiche”, allo scopo di indottrinare i giovani in ossequio alla veridicità storica di uno pseudonimo: "san Luca evangelista" … l’impostore.
Se gli “Atti degli Apostoli” ed Eusebio di Cesarea hanno sentito la necessità di mentire sulla datazione di questa calamità è evidente che era vitale per la dottrina cristiana e doveva essere depistata per impedire la ricostruzione delle vicende che coinvolsero i veri protagonisti col rischio che venissero identificati in “Gesù Cristo” e i suoi fratelli.
Dal 34 al 37 d.C. avvenne un conflitto fra Roma e il Regno dei Parti perché Artabano III, il loro Re dei Re, come riferito da Tacito (Ann. VI 31) “Si impossessò dell’Armenia minacciando di invadere le terre già possedute da Ciro e Alessandro”, fra le quali era compresa la Palestina. Per impedirlo, nella primavera del 35, Tiberio inviò ad Antiochia il suo "Legatus Augusti pro Praetore" di rango consolare (34 d.C.), Lucio Vitellio, con pieni poteri su tutto l’Oriente, e questi, durante la crisi bellica che si protrarrà sino agli inizi del 37 d.C., trovò il tempo di recarsi a Gerusalemme, 600 km più a Sud, alla testa delle sue legioni, nel periodo della Pasqua ebraica del 36 d.C., per:
“Intanto Vitellio giunse in Giudea e salì a Gerusalemme dove i Giudei stavano celebrando la loro festa tradizionale chiamata Pasqua. Accolto con molti onori, rilasciò in perpetuo agli abitanti tutte le tasse sulla vendita dei prodotti agricoli e acconsentì che l’abito del Sommo Pontefice, e con esso i suoi arredi, fossero custoditi dai sacerdoti nel Tempio” (Ant. XVIII 90).
Questo evento ha un pròlogo: nel XV Libro di “Antichità Giudaiche” lo scrittore spiega che la “Sacra Veste”, appartenuta ai Re e ai Sommi Sacerdoti di sangue Asmoneo, fu tolta ai Giudei alla morte di Re Erode il Grande.
Da allora i Romani la custodivano nella fortezza Antonia e la concedevano ai Sommi Sacerdoti solo per le festività ebraiche (Ant. XV 403/409). E’ evidente l’alto valore simbolico, e di potere, che tale paramento sacro rappresentava per il popolo giudeo … e i Romani ne erano consapevoli.
Ciò si protrasse fino alla Pasqua del 36 d.C., appunto, quando Vitellio riconsegnò la sacra veste alle autorità religiose dopo aver nominato un nuovo Sommo Sacerdote filo romano. Lo storico conclude il pròlogo dicendo che: “Questa digressione è stata occasionata dalla triste esperienza che si ebbe dopo” (ibid). Ma quale “triste esperienza si ebbe dopo"? E perché la "digressione" provocò la deviazione o rottura della prassi descritta?
In “Antichità” non troviamo la spiegazione dell'importante preambolo - che avrebbe dovuto essere riferita nel XVIII libro, prima del brano citato riguardante il condono delle tasse ai Giudei - perché verrà censurata anch'essa dagli scribi di Dio.
Nel corso di una guerra contro l'Impero dei Parti (un immenso Stato orientale, da sempre rivale di Roma, governato da un “Re dei Re”) non è credibile che l’uomo più potente dell’Impero Romano dopo Tiberio, in virtù del mandato ricevuto, si sia recato tanto a Sud, a Gerusalemme, solo per detassare i Giudei sui prodotti agricoli perché affamati dalla carestia.
Che bisogno c’era per Vitellio, Luogotenente di Tiberio, Comandante di tutte le forze romane d’Oriente, di recarsi in Giudea alla testa delle sue legioni durante un frangente bellico rischioso, sempre in atto, e lasciare Antiochia, sede del più importante presidio militare anti partico? Sarebbe bastato inviare corrieri al Prefetto Ponzio Pilato, suo subalterno, con l’ordine di alleggerire i tributi ai Giudei. Al contrario, per imporre le tasse sarebbe stato necessario l’impiego della forza … non per abolirle. Esattamente come fece lo stesso Vitellio agli inizi del 36 d.C. Così Tacito:
"Sotto il consolato di Quinto Plauzio e Sesto Papinio (36 d.C.) ... La tribù dei Cliti, soggetta ad Archelao di Cappadocia, vedendosi costretta, in conformità all'uso romano, a denunciare le proprietà e a pagare i tributi, si ritirò sulla catena del Tauro, dove, per la nativa conoscenza del posto, si sentivano protetti contro le imbelli truppe del Re, finché il Legato Marco Trebellio, là inviato dal governatore della Siria, Vitellio, con quattromila legionari e ausiliari scelti, circondò con opere di assedio i due colli (chiamati Cadra il più piccolo, Davara l'altro) su cui si erano insediati i barbari, costringendo con le armi alla resa quanti osarono attaccare, per sete gli altri." (Ann. VI 41).
Quando un Generale romano, Capo di Stato Maggiore, al comando di più legioni, si muoveva in un momento così difficile e pericoloso, voleva dire che era accaduto qualcosa di grave e, per l’Impero Romano, “grave” significava “guerra”.
Approfittando della situazione politica internazionale, nel 35 d.C., mentre Lucio Vitellio era alle prese con Artabano III, Re dei Parti, gli Zeloti giudei colsero il momento propizio del conflitto fra Roma e la Parthia per innescare la rivolta e liberare Gerusalemme, la Santa, dalla dominazione pagana...
"Venne poi la carestia che li rese sfrenati in modo travolgente"
Era in atto una grave carestia e il popolo affamato, per di più “vessato dai tributi dovuti a Cesare”, venne incitato dai profeti zeloti con veementi prediche per il ripristino della Legge di Yahwè. I Giudei si ribellarono alla guarnigione romana pagana che stanziava nella Città Santa, massacrandola "... e sfasciarono tutto ciò che restava degli ordinamenti civili" (Bellum VII cap. 8). Questo richiamo fatto dallo storico è inserito in un memoriale di famiglia al fine di denunciare le gesta eversive del Capo zelota Giovanni, citato espressamente da Giuseppe Flavio, tali da giungere a sopprimere gli "ordinamenti civili" costituiti dal governo romano e dai sacerdoti opportunisti del Sinedrio collusi con il potere imperiale.
Un discendente di stirpe reale asmonea, l’influente Rabbino di Gàmala, Giovanni il Nazireo*, figlio primogenito del Dottore della Legge, Giuda il Galileo, definito dallo storico "di grande potere", alcuni giorni prima della Festa delle Capanne del 35 d.C. (inizio autunno) si mise a capo della rivolta riuscendo a farsi riconoscere Re dei Giudei e insieme Sommo Sacerdote del Tempio. Una volta eliminato il contingente militare di Roma, Giovanni restaurò la prassi degli antenati monarchi Asmonei che rivestirono entrambi i sacri uffizi di Re e Sommo Sacerdote, quindi indossò la "Veste Sacra" e si cinse il capo con il diadema reale.
Ma non durerà a lungo. A fine autunno del 35 d.C., Vitellio riusci a mettere in crisi Artabano costringendolo alla fuga e, dopo aver assoggettato nuovamente l’Armenia al dominio di Roma, da oltre il fiume Eufrate, "ove si era spinto col nerbo delle legioni romane e gli alleati" invase il Regno dei Parti, poi, "ritenendo bastevole aver fatto mostra delle armi romane ai Grandi Dignitari parti, rientrò in Siria ad Antiochia con le sue legioni" (Tacito, Ann. VI 37).
Quando il condottiero romano raggiunse il Presidio in Siria, alla fine del 35, venne informato degli eventi accaduti in Giudea e, dopo aver fatto riposare l’esercito nei quartieri invernali, si rimise in marcia alla testa delle sue legioni per riconquistare Gerusalemme e giustiziare il monarca, che, illegittimamente, si era proclamato Re dei Giudei.
Nel frattempo aveva già inviato il Prefetto Marcello a Cesarea Marittima per rilevare Ponzio Pilato dal suo incarico e predisporre la logistica necessaria all'esercito romano, in attesa del suo arrivo.
Il Legato imperiale considerò il Prefetto Ponzio Pilato responsabile della perdita di Gerusalemme non essendo riuscito a prevenire la sommossa. In occasione delle festività ebraiche, Pilato avrebbe dovuto rafforzare il contingente degli ausiliari romani stanziati nella Fortezza Antonia, anzi tempo, come previsto dalle precise consegne militari.
Un paio di giorni prima della Pasqua del 36 d.C., Lucio Vitellio, dopo aver cinto d’assedio ed inviato un ultimatum alla Città Santa, ormai impossibilitata a resistere senza scorte di viveri (gli aiuti di Elena non poterono durare a lungo e sfamare un popolo intero), ne otterrà la resa e la consegna del Re abusivo.
Fu il Sinedrio, convocato dallo stesso Giovanni in qualità di Sommo Sacerdote del Tempio, in un momento così drammatico, a decretare la fine del Re ed il suo breve regno. Così argomentò Caifa, agli anziani riuniti, l'intimazione di Vitellio della resa di Gerusalemme:
"Considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera" (Gv 11,50).
Questa testimonianza, sopravvissuta alle censure ecclesiastiche praticate al "vangelo di Giovanni", già da sola dimostra come il pericolo per l'intera nazione giudaica non poteva essere costituito dalle semplici forze ausiliarie reclutate da un Prefetto, individuato nei vangeli in Ponzio Pilato. Soltanto un Proconsole "Legatus Augusti pro Praetore" come Lucio Vitellio - capo dello Stato Maggiore romano di stanza ad Antiochia in Siria, inviato da Tiberio con pieni poteri su tutto il contingente militare dello scacchiere orientale - era in grado di distruggere una rivolta degli Ebrei coordinati in una "Santa Alleanza".
Per Giovanni, il "Salvatore" Re dei Giudei, non vi fu alcuna possibilità di scampo e accettò il suo destino: la crocifissione. Venne arrestato e portato nella Fortezza Antonia, incatenato e piantonato a vista. La Veste Sacra, ancor prima indossata da Caifa, fu depositata nel Tempio e assegnata in tutela al Sommo Sacerdote "Gionata", appena nominato da Vitellio e figlio del sadduceo conservatore Sommo Sacerdote Anano ("Anna" dei vangeli); mentre il Diadema (la Sacra Corona) ritornò sotto la custodia del Tribuno, Comandante della Guarnigione romana e rimarrà nella fortezza cinque anni sino a che, per volere di Claudio Cesare, potrà cingere il capo del futuro Re dei Giudei, Erode Agrippa il Grande.
Il giorno successivo, dopo un lungo, inutile interrogatorio, sotto tortura, per fargli confessare i nomi dei complici ed i particolari sulla organizzazione rivoluzionaria, Giovanni il Nazireo, figlio di (bar) Giuda, venne crocifisso pubblicamente, come monito rivolto agli Ebrei inteso a rimarcare la potenza dell'Impero Romano.
Il non meglio specificato "discepolo che Gesù amava", che il vangelo identifica con "Giovanni figlio di Maria, madre di Cristo", sarebbe stato crocefisso anche lui se avesse osato avvicinarsi ad un condannato alla pena capitale pubblica e atrocemente torturato come esemplare mònito agli Ebrei per dissuaderli ad imitarne le imprese. L'unica possibilità permessa dalla Legge di Roma a Giovanni il Nazireo era quella di essere inchiodato sulla croce ... chiunque altro doveva mantenersi alla larga, tenuto a bada con le armi.
"Allora tutti i discepoli, abbandonandolo (Gesù), fuggirono" (Mt 26,56).
Nel vangelo secondo Matteo, almeno su questo aspetto, la legge di Roma viene ottemperata. I Suoi fratelli e gli Zeloti più in vista sapevano di poter essere identificati e denunciati da qualche delatore del partito conservatore, contrario a quei cambiamenti sociali che avevano cancellato i privilegi acquisiti prima del breve regno di "Yeshùa". Vantaggi sociali e ricchezze combattute dall'ideologia della "quarta filosofia, una novità sinora sconosciuta", ideata nel 6 d.C. da Giuda il Galileo, padre di Iohannes bar Yehudas.
Giovanni era il nome di uno dei figli di Maria, "madre di Gesù", elencato assieme agli altri suoi fratelli, come riferito in alcuni codici manoscritti del vangelo di Matteo che abbiamo elencato nel primo studio "Non sono esistiti gli Apostoli".
Non vi fu alcun processo per stabilire la colpevolezza o meno dell’imputato, non ve n’era bisogno: la flagranza di reato era manifesta. Giovanni, un suddito dell'Impero approfittò della guerra contro i Parti per insediarsi con la forza sul trono di un territorio di Tiberio: un ribelle senza cittadinanza romana divenne nemico di Roma e come tale fu eliminato. Ecco perché.
L’impossibile “processo a Gesù”
La regola del processo penale nelle Province imperiali della Roma antica dove, come nella Giudea, non esistevano Tribunali romani in loco, prevedeva che gli abitanti, accusati di reato e muniti del Diploma di Cittadinanza Romana, dovevano essere inviati a Roma. Come nel caso dei due processi, secondo i documenti neotestamentari della Chiesa, subiti dal "cittadino romano" san Paolo sotto Cesare Nerone. Processi mai avvenuti nella realtà (vedi studio su Paolo di Tarso).
In Giudea, giudice unico era il Governatore che, in quanto Magistrato romano, era munito di “imperium”, quindi il solo a detenere il “ius gladii” (diritto di uccidere), appositamente conferito dal Cesare in carica. I Magistrati imperiali di stanza in Giudea (Prefetti dal 6 al 40 d.C. e Procuratori dal 44 al 66 d.C.) detenevano il potere esecutivo e la forza militare per applicare le sentenze da loro emesse.
Il reato più grave, commesso dal mitico “Gesù Cristo”, se fosse realmente avvenuto, sarebbe stato il “crimen perduellionis”, consistente nella sedizione contro le istituzioni dello Stato e considerato alto tradimento (basta consultare un vocabolario di latino).
Il procedimento penale era documentato negli appositi “Atti” da inviare all’Imperatore e, durante l’interrogatorio, il Magistrato chiedeva e registrava le generalità dell’imputato, ad iniziare dalla città di residenza e la Gens o la Tribù di appartenenza, dal patronimico ed i nomi degli eventuali parenti diretti i quali, senza una loro esplicita denuncia preventiva, erano ritenuti complici: un insieme di dati obbligatori che, assurdamente, non sono richiesti all’imputato dal Prefetto imperiale, Ponzio Pilato, durante il processo a Gesù. Fatto che, già a se stante, non lo rende credibile, dimostrato peraltro da ulteriori aspetti, particolarmente gravi, per le numerose testimonianze relative ai peggiori reati, commessi dall’imputato, contro il dominio romano.
Crimini imputati a Gesù
Un atto di accusa di interesse primario del diritto romano consisteva nel sovvertimento del potere prefettizio del Legato imperiale incaricato dal Cesare e conseguente Colpo di Stato, attuato da Gesù: un suddito dell’Impero, proclamato Re dei Giudei dagli abitanti di Gerusalemme in contrasto alle disposizioni dell'Imperatore.
“La gran folla che era venuta per la festa, udito che Gesù era a Gerusalemme prese dei rami di palme e andò verso di lui gridando: Osanna, benedetto colui che viene nel nome del Signore, il Re d’Israele” (Gv 12,13).
Giuda il traditore si attiva per arrestare Gesù e, fatto impossibile nella gerarchia militare romana, scavalca l’autorità del Tribuno imperiale di Gerusalemme assumendo il comando di un distaccamento di soldati romani accasermati nella Fortezza Antonia:
“Giuda dunque, preso un distaccamento di soldati e delle guardie (del Tempio) fornite dai Sommi Sacerdoti e dai Farisei…” (Gv 18,3);
"Tutta l'assemblea si alzò, lo condussero (Gesù) da Pilato e lo accusarono: «Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo (Messia) Re» (Lc 23,1);
“Pilato gli disse: «Dunque tu sei Re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici; io sono Re»” (Gv 18,37).
Qualsiasi Prefetto romano non sarebbe mai stato indifferente di fronte ad un sedicente “Re dei Giudei” acclamato dal popolo, un monarca che, in quanto tale, vietò il pagamento dei tributi all’Imperatore. Gesta che avrebbero comportato l’estromissione di Ponzio Pilato dalla carica di Governatore della Giudea (residente a Cesarea Marittima, allora capitale imperiale della Giudea) ed il conseguente sovvertimento dei poteri-doveri a lui delegati da Tiberio …
Al contrario, secondo quanto scritto dagli evangelisti:
“Pilato intanto uscì di nuovo e disse loro: «Ecco, io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo in lui nessuna colpa» (Gv 19,4).
A questo punto (altra assurdità) sono i Giudei a ricordare al Prefetto imperiale Pilato la Legge di Roma e quali sono i suoi doveri:
"Se liberi costui (Gesù) non sei amico di Cesare! Chiunque si fa Re si mette contro Cesare" (Gv 19,12).
"... allora Pilato disse ai Giudei: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge». Gli risposero i Giudei: «A noi non è consentito mettere a morte nessuno»" (Gv 18,28/31), ovviamente in ossequio al diritto imperiale romano.
Durante l’interrogatorio, un autentico Governatore di Roma, di fronte ad accuse così evidenti ed accertate non avrebbe mai chiesto all’imputato “Sei tu il Re dei Giudei?”; o peggio ancora, mentre “Gesù” era davanti a lui, avrebbe chiesto alla folla: “Volete che vi rilasci il Re dei Giudei?” (Mc 15,8-9).
Il paradosso di questa affermazione è confermato anche dal fatto che il primo teste consultato dal Prefetto, per le funzioni ufficiali svolte, inevitabilmente, avrebbe dovuto essere il Tribuno di Gerusalemme, alto funzionario imperiale, comandante del contingente militare romano accasermato nella Fortezza Antonia. Questi, come ufficiale responsabile dell’ordine pubblico della Città, da testimone oculare, inevitabilmente, sarebbe stato a conoscenza dell’acclamazione popolare a “Re dei Giudei” da parte degli stessi Gerosolimitani e, di conseguenza, il Tribuno avrebbe avvertito subito la massima autorità consolare della Provincia, il Legato imperiale di Siria, un condottiero prescelto dal Cesare, che sarebbe intervenuto alla testa delle sue legioni, appositamente dislocate in Antiochia. L'alto ufficiale romano presente a Gerusalemme era consapevole che l'acclamazione del popolo di un sedicente "Re dei Giudei" sarebbe stato di una gravità inaccettabile da parte di Roma, quindi considerato un colpo di stato contro il legittimo ordinamento Prefettizio, costituito nella Provincia dell’Impero per decreto di Tiberio e in ottemperanza ai precetti di Cesare Augusto.
E' doveroso evidenziare che lo stesso vangelo di Giovanni, dalle citazioni appena lette, dimostra l'assenza del Tibuno di Gerusalemme accasermata nella Fortezza Antonia. Unica spiegazione plausibile dipende dal fatto che fu ucciso durante l'insurrezione degli Zeloti.
Tornando al testo evangelico, l'amanuense che lo ha stilato continua a rappresentare un comportamento inammissibile da parte di Ponzio Pilato, come di qualunque Governatore romano che avesse agito in tal modo:
"Pilato disse loro: «Che farò dunque di Gesù chiamato il Cristo?». Tutti gli risposero: «Sia crocifisso!». Ed egli aggiunse: «Ma che male ha fatto?». Essi allora urlarono: «Sia crocifisso!». Pilato, presa dell’acqua si lavò le mani davanti alla folla: «Non sono responsabile di questo sangue, vedetevela voi». E tutto il popolo rispose: «Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli!». (Mt 27, 22/25).
Con questo brano demenziale della eterna auto dannazione giudaica lo scriba cristiano sottoscrive la falsità del “processo a Gesù”, ideato al solo fine escatologico della dottrina: sacrificio, sangue, morte e resurrezione per la salvezza dell’umanità.
“Essi insistevano a gran voce chiedendo che venisse crocifisso; e le loro grida crescevano. Pilato allora decise che la loro richiesta fosse eseguita” (Lc 23,25).
Da notare che Pilato, come Magistrato romano, aveva riconosciuto innocente l’imputato, ciononostante lo fa lacerare a sangue prima di crocifiggerlo fino a farlo morire dopo una straziante agonia, quando avrebbe potuto semplicemente decapitarlo, evitandogli la prolungata tortura dilaniante.
Per l’escatologia cristiana, il sangue versato dal Figlio “Salvatore”, voluto da Dio Padre come sacrificio per la salvezza dell’intera umanità, doveva essere copioso e versato lungo una irreale “via crucis” (mai attuata dai Romani i quali, come tutti i militari da sempre, usavano modi sbrigativi), esageratamente tormentosa, per l’odio dei miliziani romani e giudei, che lo seguivano come carnefici.
Una descrizione irrazionale ideata da psicopatici fanatici per cui risulta che il sangue versato da Cristo era sparso sull’intero suo corpo appena schiodato e deposto dalla croce da Giuseppe di Arimatea. Da questi fu subito avvolto in un candido lenzuolo e ne trasportò il cadavere dal Golgota fino al sepolcro di sua proprietà. Sangue che, inevitabilmente, avrebbe imbrattato la "Sacra Sindone" in modo del tutto irregolare al punto che sarebbe stato impossibile riconoscere la autentica forma naturale del defunto prima di morire. Una narrazione inventata, riferita da tre scribi nei vangeli sinottici, che si dimostra tale quando la confrontiamo con quella, del tutto diversa, rilasciata da Giovanni evangelista, il “discepolo prediletto”.
Questi, al contrario degli altri evangelisti, e fra essi unico testimone oculare diretto, descrive una sepoltura totalmente difforme che esclude la presenza della sindone all'interno del sepolcro.
Inizialmente il corpo del Cristo viene avvolto nella sindone intrisa di sangue da Giuseppe di Arimatea, quindi, aiutato da Nicodemo (altro sinedrista convertito), insieme trasportano il cadavere fino al sepolcro e, prima di entrare, eliminano il lenzuolo imbrattato (infatti nel sepolcro non risulta tale lenzuolo). Dopodiché, entrambi i sinedristi bendano accuratamente il corpo dopo averlo lavato, unto ed impregnato le bende con una mistura di circa trenta chili fra aloe e mirra, al fine di imbalsamarlo secondo un rito orientale, riservato ai Re ed ai Sommi Sacerdoti, in uso dalla antica Persia sino all’Egitto.
Conclusione: un processo inventato, quindi mai avvenuto ... come la "resurrezione". Infatti, un suddito dell’Impero, una volta proclamatosi “Re dei Giudei”, in flagranza di reato, non necessitava di alcuna indagine per accertare il suo crimine. L’alto tradimento del suddito contro lo Stato imperiale, in quanto palese, avrebbe conseguito la crocifissione pubblica come monito verso chiunque non riconosceva il dominio di Roma.
Al collo del reo veniva appeso un cartello su cui era scritta la colpa e il tutto si concludeva prima del calar del sole (Bellum IV 317), quando, al fine di consentire la deposizione del crocifisso, un soldato si accertava della sua morte infiggendogli una lancia nel cuore.
Invece, per Giovanni evangelista, “il Sacro Cuore” di Gesù non poteva essere trafitto, quindi lo scriba cristiano che si spacciò come il “discepolo prediletto” optò per il “fianco” (Gv 19,34).
Il primitivo processo contemplava due Gesù
Riguardo il “processo” a “Gesù” c’è un altro aspetto, oltre l’inattendibilità storica appena accertata, che evidenzia la manipolazione di questa vicenda: la teologia iniziale che configurava due Gesù Salvatori diversi. Verifichiamolo insieme.
Come risaputo da tutti, prima della crocifissione di Cristo, per volontà degli Ebrei, Ponzio Pilato fu costretto a liberare dal carcere il criminale sovversivo “Barabba” (colpevole di omicidio), al posto di Gesù; tuttavia, dalla lettura del “Novum Testamentum Graece et Latine” (A. Merck S. I. - Roma - Pontificio Istituto Biblico, 1933), che riproduciamo, risulta documentata una notizia del tutto diversa.
Riguardo il vangelo di Matteo, Cap. 27, osserviamo a fondo pagina il richiamo al versetto 16 (sottolineato in rosso), che riporta l’esistenza di due “Gesù”: il primo, quello risaputo da tutti, ed un secondo: “Gesù Barabba”. Mentre per noi, comuni mortali, risulta una stranezza, al contrario, gli esegeti cristiani “addetti ai lavori” conoscono molto bene questa “curiosità” e addirittura l’esistenza del più antico frammento evangelico contenente la specifica “Gesù Barabba”. Il reperto è denominato “P. Oxy. L 3523” e stimato paleograficamente al II secolo; inoltre esistono svariati codici, che riferiscono tale citazione di Matteo (Mt 27,16), redatti diversi secoli dopo, ad iniziare dal “Codex (Q) Koridethianus” del IX secolo, cui seguirono altri manoscritti che, accorpati, sono tutti classificati genericamente con la sigla “F1”.
Molto tempo prima dei manoscritti citati, Orìgene, già nel III secolo, era consapevole di questa narrazione evangelica e, nel suo “Commentario a Matteo”, in due brani del testo (Libro XIV 19), pur criticando il fatto, riferisce dell’esistenza dei due Gesù: “Gesù Barabba” e “Gesù detto il Cristo”.
Notiamo che “Barabba” è riportato nei Vangeli attuali con l’iniziale maiuscola, in realtà si tratta di un vocabolo composto dal lemma originale aramaico “Abba”, che vuole dire “Padre”, con anteposto “Bar” che significa “Figlio di”. Infatti, nel Vangelo di Marco (14,36) leggiamo “« Abba, Padre, tutto è possibile a te »”, e in Luca (23,34) “« Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno »”.
Questo “Abba”, dal momento che i preti ce lo hanno spiegato sin da bambini, sappiamo perfettamente che significa “Dio”: un appellativo supremo che, per la Legge mosaica, gli Ebrei non potevano pronunciare. Quindi “Abba” (Padre), nei manoscritti originali, designava “Dio”, pertanto, la frase riportata nei Vangeli “canonizzati”: “Pilato disse loro: « Volete che vi rilasci Barabba o Gesù detto il Cristo? »” (Mt. 27, 17), in quelli non “canonizzati” risultava: “« Volete che vi rilasci Gesù Barabba o Gesù detto il Cristo? »”… esattamente come riferito da Orìgene*. Di conseguenza, nei manoscritti primitivi dal contenuto teologico univoco e coerente, risultavano due “Salvatori” così attestati:
“« Volete che vi rilasci Gesù figlio di (bar) Abba (Dio Padre) o Gesù detto il Cristo (Messia)? »”.
Siamo di fronte ad un vero "colpo di scena teologico".
* Il fatto che Orìgene, nel terzo secolo avanzato, sia stato il primo cristiano ad evidenziare questo evento dirompente con la dottrina, dimostra che la stima paleografica del frammento “P. Oxy. L 3523” è erroneamente predatata di un secolo.
A prescindere dalle datazioni dei testi, risulta che i numerosi codici successivi, contenenti la stessa informazione, evidenziano l’importanza della notizia, nettamente in contrasto con la dottrina cristiana vigente dal IV secolo ad oggi.
Preoccupata delle sconvolgenti conseguenze teologiche, a questo “Gesù Barabba” - riferito nei vangeli primitivi antecedenti a quelli canonizzati - la Chiesa, alla fine del IV secolo, nel citato versetto evangelico ha eliminato “Gesù” lasciando il solo "Barabba", in modo da farlo risultare un appellativo comune.
Ma è doveroso approfondire questo particolare, tenuto opportunamente nascosto ai fedeli da quell’epoca in poi, al punto che Eusebio di Cesarea, nella sua “Historia Ecclesiastica”, scritta prima del Concilio di Nicea del 325 d.C. e destinata a certificare l'esistenza dei famosi cristiani (ad iniziare da tutti i protagonisti evangelici) non cita “Barabba” fra i soggetti dei sacri testi, perché allo storico Vescovo non risultava questo personaggio. In ultima analisi, un insieme di circostanze che inducono a sopprimere il famoso "Barabba" dalla tragica "iconografia divina" primitiva, la quale, diversamente dai vangeli canonici vigenti, prevedeva il "Figlio di Dio" graziato da Pilato, anziché essere inchiodato sulla croce. Patibolo sul quale, come diversamente risulta dal vangelo appena evidenziato, venne torturato "Gesù detto il Cristo" dal Prefetto romano. Ne consegue che, al posto del "Figlio di Dio" fu crocifisso il Re Messia; vale a dire un "Re Unto", secondo la antica pratica biblica dell'unzione con olio consacrato, riservata ai Re ed ai Sommi Sacerdoti.
Biblisti e filologi “contemplativi” tentano di fare “miracoli” inventando “tesi” complicate oltre misura (col risultato di aggrovigliare il proprio cervello) per cercare di trovare una giustificazione a questo paradosso che rappresenta due “Gesù” (Salvatori) diversi, soprattutto per la sconvolgente conclusione processuale che vede addirittura liberato il Figlio di Dio (Bar Abba) senza essere stato "sacrificato". Un'eresia talmente grave per la Fede cristiana, ufficializzata dal IV secolo in poi, fino al punto che gli esegeti spiritualisti odierni accusano di incapacità gli amanuensi redattori dei vangeli che la notificarono sui testi sacri. Gli ermeneuti chiesastici di tutte le sette cristiane sanno perfettamente che la loro dottrina crollerebbe: il Cristianesimo prevede crocifisso un solo “Gesù Salvatore, Figlio di Dio” ... pur se, sappiamo, è risultato dal sincretismo di molti “Cristi Salvatori” raffigurati diversamente, quindi considerati “eretici” (vedi i numerosi Concili del IV secolo contro i "Cristi eretici"), compresi i “Soteres”, Salvatori pagani, ad iniziare dal Dio Mitra.
Per la Storia, invece, questa “Fede” è già crollata … con o senza i due Gesù (Salvatori). Pertanto, la forzatura di vedere in “Abba” (c’è chi ci prova come il pretesco Gianluigi Bastia, autore del sito web "Cristianesimo Primitivo") un nome comune fra i Giudei del I secolo è smentita, sia dalla Storia di Giuseppe Flavio (lo storico ebreo riporta nelle sue corpose opere centinaia di nomi israeliti senza alcun “Abba”), sia dalla Archeologia dell’epoca. In effetti, la semplice logica insegna che nessun ebreo avrebbe mai potuto dire o annotare “figlio del padre” a se stante, perché, senza specificare il vero nome del genitore, la frase non avrebbe avuto alcun significato, essendo tutti figli di padri: da qui l’obbligo giudaico di indicare sempre il patronimico in prima citazione.
Comprendere come sia potuto succedere che scribi cristiani, nel corso dei secoli, siano giunti a testimoniare “Salvatori” diversi, nella sostanza e nella loro rappresentazione, trattandosi di escatologia pura, l’impresa diventa impossibile per qualsiasi storico analista; ben sapendo che la cosiddetta “tradizione cristiana” è stata fatta apparire omogenea, sotto il profilo escatologico ed i rispettivi protagonisti deificati, alla fine del IV secolo (lo accertiamo nella terza parte del VI studio), previa la distruzione di tutti i vangeli incoerenti con la dottrina finale vincente, estinguendo, innanzitutto, la catechesi e la liturgia del "Salvatore" Dio Mitra, per non evidenziare le similitudini con la nascente Fede cristiana, come la Grotta (Mitreo) ed il pasto eucaristico teofagico. Fatta salva qualche rara eccezione furono pochi i vangeli primitivi scampati casualmente all'annientamento attuato dagli integralisti cattolici.
Quello che oggi sappiamo per certo è il punto di partenza, costituito dall’israelita “Dominatore del Mondo”, riferito da Giuseppe Flavio, individuato nelle Sacre Scritture ed atteso dalla grande massa degli Ebrei per sconfiggere gli invasori pagani e liberare la Terra Promessa dalla egemonia romana. In particolare gli Esseni, che si definivano "figli della luce", profetarono l’avvento di un “Figlio di Dio dominatore del Mondo” (lo documentiamo meglio fra poco) in grado di sconfiggere gli oppressori “Kittim, figli delle tenebre”.
Purtroppo per gli Ebrei - in conseguenza dei massacri etnici subiti per colpa dei Romani nelle guerre del 70-73 e del 132-135 d.C. - in un periodo successivo a questi olocausti, gli Esseni si costrinsero a “correggere” il loro vaticinio iniziale facendo apparire che, oltre un secolo prima, era già venuto un Messia, Figlio di Dio “Salvatore del Mondo” (non più "Dominatore del Mondo"), capace di risorgere dopo morto, con la promessa di garantire la vita eterna a chi avesse creduto in Lui.
In realtà, ciò che è precluso sapere ad ogni storico riguarda l’evoluzione della dottrina iniziale poiché, ribadiamo, tutti i vangeli precursori, contrastanti con la catechesi finale, furono volutamente distrutti per non far risultare che erano frutto della fantasia umana, anziché dettati da una rivelazione divina.
In ultima analisi, il goffo tentativo degli storici spiritualisti, inteso a spiegare razionalmente le contraddittorie testimonianze evangeliche, deriva dalla debolezza o l’incapacità di riconoscere la propria ingenuità nel “credere” ad una favola miracolosa con la illusoria prospettiva di conseguire la vita eterna … ma, soprattutto, con il preciso scopo di indottrinare il prossimo per esclusivo tornaconto.
Quel che più importa, da quanto appena esposto, resta solo una conclusione certa: il fantasioso ladrone "Barabba” non è mai esistito (lo abbiamo appena dimostrato) come non è mai avvenuto alcun “processo a Gesù”.
E’ ormai definitivamente provato che la “biografia di Gesù” è solo un canovaccio mistico letterario, basato su una sceneggiatura posticcia, creata maldestramente, per cui: “Natività”, “Miracoli”, “Processo”, “Sacrificio”, “Risurrezione” e “Ascensione” del “Salvatore Universale”, si dimostrano ingenue narrazioni frutto di irrazionale pensiero umano, non di quello divino.
Terminato questo ultimo "excursus teologico", estremamente imbarazzante per gli esegeti animisti (ma molto divertente per noi atei ), consapevoli che esistono vangeli in cui si narra che il "Figlio di Dio" non fu crocifisso, riprendiamo il filo "canonico" dell'argomento in questione.
Dunque, confermiamo, il “Processo” è stata un’invenzione finalizzata a far ricadere sui Giudei la colpa dell’uccisione del “Salvatore”. Infatti, Gesù Cristo “Nostro Signore”, per la nuova dottrina, non doveva risultare giustiziato da un alto plenipotenziario imperiale di Roma perché ciò avrebbe dimostrato che fu un Re ebreo zelota e guerriero ... ma questo sarebbe stato in contrasto con la nuova, docile, figura dell’ “Agnus Dei”, vittima sacrificale divina per il bene dell’umanità.
Pur trattandosi di un "Agnello di Dio" con intenti bellicosi, stando alle Sue parole:
"Non sono venuto a portare pace sulla terra, ma una spada" (Mt 10,34);
"E quei nemici che non volevano diventassi loro Re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me" (Lc 19,27);
"Chi non ha spada venda il mantello e ne compri una...gli apostoli dissero: «Signore, ecco due spade»" (Lc 22,36/38).
Nella analisi comparata delle cronache di Giuseppe Flavio e Cornelio Tacito, riportate nel VI e nel XII studio sui màrtiri di Nerone, dimostriamo che i passaggi dei due grandi storici del I secolo sono interpolazioni spurie. Furono introdotte da falsari amanuensi i quali, dopo aver copiato e censurato i manoscritti originali dei due scrittori, con le modifiche aggiunte, anziché conservarli li distrussero per eliminare le prove delle loro manomissioni.
Tuttavia Ponzio Pilato - il Magistrato romano che, secondo i vangeli, non intendeva giustiziare “Gesù” ma si sottomise alla decisione del Sinedrio e del popolo giudaico che lo voleva crocifisso - la storia lo fa scomparire anche dal…“Credo”.
Il nome di quel Prefetto fu introdotto nel “Credo” del Concilio di Costantinopoli, convocato dai Cristiani Cattolici nel 381 d.C., che declamava:
“…incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, si sacrificò e fu sepolto, il terzo giorno è resuscitato…”.
Mentre, il “Credo” originale, formulato a Nicea nel 325 d.C., recitava così:
“…si è incarnato, e si è fatto uomo, si sacrificò, e il terzo giorno è resuscitato…” .
Oltre Pilato, (altro particolare di importanza vitale per la nuova dottrina) manca la “Vergine Maria Madre di Dio” la cui "Immacolata Concezione" non era ancora stata ripresa dai culti pagani, fatto sancito nel Concilio di Efeso del 431 sotto l'Imperatore Teodosio II.
In relazione al Prefetto imperiale di Tiberio, è doveroso riportare una dichiarazione, molto importante, fatta nel IV secolo dal Vescovo cristiano Eusebio di Cesarea:
“E’ dunque dimostrata la falsità degli Atti contro il nostro Salvatore, pubblicati recentemente, essi, infatti, pongono sotto il quarto consolato di Tiberio, che coincide col suo settimo anno di regno, le sofferenze che gli Ebrei osarono infliggere al nostro Salvatore: ma in quel tempo Pilato non governava ancora la Giudea”
(HEc. I 9,3/4).
Da quanto appena letto, Eusebio ci informa della pubblicazione, a lui contemporanea, di una versione di “Atti di Gesù” (un vangelo fatto poi sparire, ovviamente), diversa da quella giunta sino a noi, nella quale si fa cadere il supplizio di “Cristo” il 21 d.C. (quarto consolato di Tiberio), cioè sotto Valerio Grato, predecessore di Pilato, a dimostrazione dei rimaneggiamenti fatti dai redattori evangelici per depistare la ricerca su chi crocifisse veramente “il Salvatore”... e la datazione dell'evento immaginario. Secondo quegli “Atti di Gesù” fu il Prefetto Valerio Grato a “sacrificare” Cristo.
Stando a quanto scritto dai calligrafi cristiani di Eusebio quando interpolarono il brano spurio del "Testimonium Flavianum" in "Historia Ecclesiastica" (I 11,7/8) - nel quale viene riferita la "testimonianza" dello storico Giuseppe concernente la condanna di Gesù alla croce da parte di Pilato - tutt'oggi leggiamo che gli ingenui amanuensi collocarono (incollarono) l'evento nel 18 d.C., sotto Valerio Grato.
Come abbiamo provato nell'apposito VI studio, da una semplice analisi del "Testimonium Flavianum" - ripreso dai copisti che, nell'XI secolo, redassero "Antichità Giudaiche" di Giuseppe Flavio nel "Codex Ambrosianus Gr F 128" (cfr XVIII 63-64) - chiunque capisce che è un falso perché "Gesù" risulta crocefisso l'anno prima (18 d.C.) in cui lo storico ebreo registra la cacciata da Roma di tutti i Giudei da parte di Tiberio nel 19 d.C., confermata da Tacito (Annales 2,85) e Svetonio (Tiberius 36).
Peraltro, gli amanuensi di Eusebio (vedi dettagli al VI studio Parte II) presero una seconda "dolorosa cantonata mistica" sino al punto di smentire gli stessi vangeli: la crocifissione di "Gesù" risulta eseguita molti anni prima dell'uccisione di Giovanni Battista, mentre gli evangelisti attestano che muore prima di Cristo. Diversamente dai vangeli, per la Storia, la morte del Battista fu ordinata da Erode Antipa 17 anni dopo la "resurrezione di Gesù" così come riferita nel falso "Testimonium Flavianum" di "Antichità Giudaiche" (Ant. XVIII 63-64); vale a dire che Giovanni Battista venne ucciso a fine 35, inizi del 36 d.C. Per l'appunto, nell'estate del 36 Erode Antipa fu sconfitto nella guerra, a lui dichiarata dall'ex suocero, Re Areta IV (Ant. XVIII 116/119).
Un ulteriore riscontro alla datazione che dimostra l'esecuzione di Giovanni Battista avvenuta a fine 35, inizio 36 d.C., lo ritroviamo nella "Historia Ecclesiastica" di Eusebio di Cesarea:
"Erode Tetrarca sposò Erodiade, la moglie di suo fratello, dopo aver ripudiato la prima moglie che aveva sposato secondo le leggi (era la figlia di Areta, re della Petrea) dopo aver separato Erodiade dal marito, che era ancora vivente. E per causa di questa donna fece uccidere Giovanni e mosse guerra ad Areta, di cui aveva disonorato la figlia" (op. cit. I 11,1).
Constatiamo che causa ed effetto della guerra sono immediati, e dalla storia abbiamo la conferma che Areta IV aprì il conflitto contro Erode Antipa l'estate del 36 d.C.; pertanto, sapendo che il Battista era già morto a fine 35, inizio del 36, ne consegue che la crocifissione del "Salvatore" avvenne per la Pasqua del 36 d.C.
Al contrario della realtà, le vicende narrate nei vangeli evidenziano contraddizioni cronologiche insanabili con la storiografia, ma basta spostare al 36 d.C. la morte di "Gesù" che le scadenze dei fatti diventano coerenti fra loro, sia per la storia che per i vangeli, ottenendo una sequenza incontrovertibile di date: morte di Giovanni Battista, fine 35, inizi 36 d.C.; destituzione di Ponzio Pilato da Governatore della Giudea all'inizio del 36 d.C.; intervento di Lucio Vitellio per la Pasqua del 36 d.C.
Infatti, in base alla antica documentazione cristiana, anche la Chiesa sa che "Gesù Cristo" venne crocifisso il 36 d.C., ma si guarda bene dal rivelarlo perché è consapevole che, proprio per la Pasqua ebraica del 36 d.C., come storicamente accertato sopra, a Gerusalemme risulta presente il Legato di Siria Lucio Vitellio anziché Ponzio Pilato, ormai già prosciolto dal suo mandato per ordine del Legato Imperiale.
La testimonianza ecclesiastica che fa risalire la morte di Cristo al 36 d.C. ci è pervenuta grazie allo storico cristiano, san Girolamo Sofronio, il quale, in "De viris illustribus", al cap. IX, concernente la biografia dell'apostolo Giovanni, così attesta:
"Giovanni ... sotto il principato di Nerva (dal 96 al 98) tornò ad Efeso e, restandovi sino al principato di Traiano (dal 98 al 117), fondò e diresse le varie Chiese della Provincia d'Asia. Stremato dalla vecchiaia, morì a sessantotto anni di distanza dalla morte del Signore".
Dal momento che l'ultracentenario evangelista Giovanni morì il 104 d.C., basta sottrarre 68 anni a questa data che risulta il 36 d.C. l'anno in cui fu ucciso "Gesù". Data l'importanza della notizia storica, precisa e inconfutabile, le sottili menti vaticane si sono costrette ad aggiungere un "circa" alla data di morte dell'apostolo († Efeso 104 ca.) nella biografia dell'evangelista Giovanni (vedi Cathopedia, di cui abbiamo fatto lo stamp) ... pur di "esorcizzare" la contemporaneità "Lucio Vitellio-Gesù Cristo" in contrasto all'assenza di Pilato.
Ricordiamo ai lettori che i più antichi codici, testimoni del "De viris illustribus" di Girolamo (IX secolo), sono antecedenti di oltre un secolo a quelli afferenti la "Historia Ecclesiastica" di Eusebio di Cesarea (X-XI secolo). Per le datazioni di tutti i manoscritti di Eusebio vedi III studio, mentre per quelli di Girolamo vedi V studio al cap. "le sviste degli scribi tertullianei". Ne consegue che, essendo Eusebio la fonte storica di Girolamo, siamo certi che la stessa informazione fu riferita prima dallo storico Vescovo nel III libro cap. 31 del suddetto trattato, ma, dal X secolo in poi, l'alto clero censurò questo particolare nell'opera di Eusebio per i motivi appena esplicitati.
Nonostante le continue rielaborazioni e rimaneggiamenti dei documenti neotestamentari e quelli patristici, riguardo Ponzio Pilato permane la certezza che gli scribi cristiani non hanno mai incolpato il Prefetto romano per l'uccisione di "Gesù", bensì il Sinedrio e tutto il popolo ebraico, come chiaramente attestato da Eusebio nella sua famosa "Historia Ecclesiastica":
"furono gli Ebrei che osarono infliggere le sofferenze al nostro Salvatore"...
Esiste un'altra importante testimonianza sul Governatore della Giudea Pilato che, inevitabilmente, si riflette anche su Yeshùa, il "Salvatore" ebreo dell'umanità: quella del grande studioso e filosofo giudeo Filone Alessandrino (20 a.C - 45 d.C.), contemporaneo del Messia Gesù e di Ponzio Pilato.
Dopo aver riferito nel suo trattato "De Providentia" (II 107) che si recava frequentemente in pellegrinaggio al Tempio di Gerusalemme per offrire sacrifici a Dio (senza accennare all'esistenza di Gesù Cristo e suoi Apostoli, tanto meno loro "miracoli"), nella sua opera "De Legatione ad Caium" (paragrafi 299-303), Filone rilasciò un giudizio negativo su Ponzio Pilato:
"Un tiranno corrotto, avido e insensibile alle ragioni della giustizia ... Orgoglio, prepotenza e insolenza erano la sua regola. Il paese sotto di lui fu lasciato al saccheggio e la gente veniva uccisa senza il rispetto di alcuna legge". (Guide to the Bible: An Introduction to the Study of Holy Scripture, Published Under the Direction of A. Robert and A. Tricot, Volume 2 – Paris 1955).
Questa è la descrizione del vero Pilato storico (conforme a quella di Giuseppe Flavio), ma con indole totalmente diversa da quella connotata dagli evangelisti, a loro volta obbligati a far risultare un "Cristo" condannato dal Sinedrio anziché dalla legge di Roma, allo scopo di non far apparire "Gesù" militante zelota anti romano. Inoltre, risulta evidente il richiamo agli Zeloti rivoluzionari e l'impossibilità del Prefetto, al comando di una forza militare ridotta, a prevenire e contrastare le numerose scorrerie eversive che avvenivano ovunque in una Palestina dove il partito dei "fanatici nazionalisti" era maggioritario.
Filone era un ricco ebreo privilegiato e riportò questa informazione sul suo recente passato dopo la sfortunata Legazione al cospetto di Gaio Caligola (op. cit. XXX 203) avvenuta nel 40 d.C.
Ma il filosofo Filone Alessandrino, profondo sapiente dell'Antico Testamento e vissuto nell'epoca di Cristo, in nessuna delle sue opere riferisce l'Avvento di un "Messia" divino giudaico (Cristòs) di nome "Gesù" che, secondo i vangeli, visse nella stessa terra, stesso periodo, autore di prodigi straordinari, osannato dagli abitanti di Gerusalemme come "Re dei Giudei" e da loro chiamato "figlio di Davide" ... né sa della sua crocifissione avvenuta per volere del Sinedrio ed attuata dal Prefetto romano, Ponzio Pilato.
Come possiamo constatare, nel IV secolo la “costruzione storica” della nuova fede era ancora in evoluzione e tendeva ad allontanarsi dalle religioni pagane precedenti, soprattutto da quella dell’ultimo “Salvatore” sacrificato: il Dio Mitra.
Oltre ad aver inventato la nuova “Madre di Dio”, che prima non esisteva, per farla adorare ai “gentili” dolciotti, i “Venerabilissimi Santi Episcopi” inventarono anche il “sacrificatore” di “Gesù” ripescando il funzionario romano Pilato, (senza incolparlo del delitto) precedente a Lucio Vitellio, per depistare la ricerca storica sull’intera vicenda.
Il colpo di stato, vero e proprio atto di guerra contro il dominio di Roma, imponeva a Vitellio, ancora in conflitto con i Parti, di sottoporre direttamente a supplizio il capo responsabile e ucciderlo. Plenipotenziario e rappresentante imperiale su tutto l’Oriente, “Egemone” unico della Provincia di Siria cui erano annesse Giudea, Idumea e Samaria, Vitellio, Luogotenete di Tiberio, sapeva che quella ribellione mirava ad esautorarlo dei suoi poteri-doveri, il primo dei quali consisteva nel garantire il primato di Roma sui territori ad essa sottomessi.
Giovanni il Nazireo aveva osato nominarsi "Re dei Giudei", monarca di un territorio di proprietà dell’Impero, macchiandosi del crimine più grave imputabile ad un suddito del Cesare. Un attentato contro la sovranità di Roma e gli ordinamenti imperiali intesi a salvaguardare lo Stato e, conseguentemente, la sicurezza di tutti.
Era Tiberio, l’Imperatore, che decideva chi, quando e dove, nell’ambito dei possedimenti sotto la sua giurisdizione, potesse fare il Re, purché sempre fedele “cliente”.
Da quando Pompeo Magno, nel 63 a.C., conquistò la Palestina, tutti i Re e Tetrarchi, che si susseguirono nel governo di quelle regioni, venivano nominati da Roma; e vi rimanevano finché l’Imperatore voleva … e l’Imperatore acconsentiva fintanto, a suo inappellabile giudizio, riteneva che essi operassero nell’interesse dell’Impero … un semplice dubbio e venivano subito destituiti o esiliati; come successe il 6 d.C. ad Erode Archelao e come avverrà nel 39 ad Erode Antipa.
Durante l’interrogatorio, Vitellio (lo stesso sarebbe valso anche per Pilato), non fu neanche sfiorato dall’idea di chiedere a Giovanni il Nazireo: “Sei tu il Re dei Giudei?”; o peggio ancora, mentre “Gesù” era davanti a lui, avrebbe chiesto alla folla: “Volete che vi rilasci il Re dei Giudei?” (Mc 15,8-9); oppure, rimanendo su Pilato, in violazione alle prescrizioni militari, imposte gerarchicamente ad un Prefetto imperiale di Roma e da lui disattese, sentite cosa ci vuol far credere san Luca, nel suo Vangelo, per scagionarlo:
“Essi insistevano a gran voce chiedendo che venisse crocifisso; e le loro grida crescevano. Pilato allora decise che la loro richiesta fosse eseguita. Rilasciò colui (l'inesistente "Barabba") che era stato messo in carcere per sommossa ed omicidio…” (Lc 23,25).
Non tanto per l’uccisione di un giudeo, che ad un romano non sarebbe importato più di tanto, ma un Prefetto di Tiberio, che governava un territorio di Roma su suo mandato, non avrebbe mai rilasciato il responsabile di una sommossa già arrestato da lui … soltanto un esercito avrebbe potuto farlo desistere … ma l’esercito era ai suoi ordini e le legioni agli ordini del suo diretto superiore: Vitellio.
Solo menti in piena estasi mistica, visionari senza la minima conoscenza della realtà storica di tutti i tempi e di tutti gli Imperi, antecedenti e successivi a quello romano, hanno potuto concepire idiozie simili e, pur avendo compreso il motivo per cui l’abbiano fatto, lo sproposito rimane ugualmente … anche per chi, ingenuamente e docilmente, vi crede. L'amanuense "Luca" evangelista e tutti quelli che, come lui, lo hanno imitato, non volevano far risultare che un potente funzionario romano aveva sottoposto a supplizio “Gesù” il “Salvatore”, per aver messo in atto una sanguinosa sovversione politica contro il potere di Roma.
Nei Vangeli è stato introdotto un falso processo per far ricadere la decisione della condanna di Gesù sui Giudei e sul Sinedrio con motivazioni esclusivamente religiose, non patriottiche rivoluzionarie che provocarono spargimento di sangue: l’ “Agnus Dei” non poteva aver organizzato e commesso un’azione militare così violenta e palesemente antiromana.
Tutti i sudditi dell’Impero erano testimoni che Roma non aveva mai perseguitato gli adepti di alcuna religione, tranne per casi limite e ben motivati. Al suo interno esisteva un crogiolo di dottrine che vivevano a contatto con altri credi senza problemi; sarebbero stati guai per i Romani se le avessero perseguitate: l’Impero sarebbe caduto.
Le autorità si preoccupavano quando una religione diventava la base ideologica per sobillare il popolo e sovvertire le istituzioni, allora, in quel caso, scattava la repressione, violenta, come contro quella ebraica nazionalista.
Gli scribi cristiani "lucani" erano ben consapevoli di ciò e provvidero a nascondere il “Salvatore”, e gli altri protagonisti ebrei che lo attorniavano, dietro un’aureola di “santità” innocua e rassicurante, fino al punto di far apparire un “Gesù” che predicava, impunemente, ai Giudei di "dare a Cesare il tributo" … mentre, nella realtà, per una provocazione simile, i Giudei avrebbero lapidato il “Cristo” ancor prima che finisse la “paraboletta”.
La nuova dottrina cristiano gesuita, evolutasi dalla riforma del Messia da parte degli ebrei Esseni, dopo le guerre del 66/70 e del 132/135 d.C. e i conseguenti olocausti dei Giudei in molte città orientali dell’Impero, grazie agli insegnamenti epistolari di un mai esistito "Paolo di Tarso", era diventata, opportunamente … filo romana.
Giunti a questo punto dello studio abbiamo individuato con precisione quattro figli di Giuda il Galileo: Giovanni, Giacomo, Simone e Giuda, i cui nomi erano uguali a quelli dei fratelli di “Gesù”. Abbiamo anche accennato, in parte, alle gesta di un quinto figlio, il più giovane, Giuseppe, anch'egli fratello di Cristo, che lo storico ebreo chiama "Menahem figlio di Giuda il Galileo", il quale riuscì a divenire Re dei Giudei nel 66 d.C. Ricordiamo che l'identificazione di "Menahem" con "Giuseppe" è riferita nel XV studio.
Giovanni fu il promogenito di Giuda il Galileo, di stirpe asmonea, dunque con diritto di investitura a Re dei Giudei, e per questo, alcune generazioni dopo l'avvenimento storico, il personaggio verrà mitizzato dai monaci ebrei Esseni come "Messia" col titolo aramaico deificato di "Yeshùa", che significa "Salvatore".
Durante la dominazione romana, gli ebrei Esseni, anch'essi nazionalisti come gli Zeloti, usavano le loro "profezie" allo stesso modo degli "Oracoli di Yahweh" per incitare il popolo a ribellarsi. Ne conseguì lo sterminio etnico perpetrato dai Romani, ad iniziare dalle persecuzioni ordinate da Vespasiano contro i Giudei, familiari compresi, che non lo riconoscevano come "Signore" o "Padrone", fino all'olocausto finale ordinato dall'Imperatore Adriano.
Fu allora che gli Esseni, preso atto della enorme disparità di forze, rividero la rappresentazione del "Messia condottiero", atteso dal popolo come il mitico Davide, e, in coerenza con la loro profezia scritta nel frammento del rotolo "4Q246" di Qumran, lo deificarono come il "Figlio di Dio". Ma non più, un "Dominatore del Mondo", bensì un sofferente "Salvatore del Mondo", docile come un "Agnus Dei": un "Messia, Figlio di Dio, Salvatore del Mondo", capace di far risorgere i morti, "il cui regno sarà un dominio eterno". Nella seconda metà del II secolo d.C., gli Esseni alessandrini scrissero i vangeli primitivi, senza preoccuparsi della "consustanzialità" del Figlio con il Padre, intenzionati semplicemente ad illudere la popolazione nella risurrezione dopo la morte.
Nel IV secolo, il Vescovo Eusebio di Cesarea, consapevole dell'epoca reale in cui furo scritti i primi documenti neotestamentari, anticipò la datazione di oltre un secolo e, adattandola, scrisse: "Narrano che Marco, inviato in Egitto, fu il primo a predicarvi il Vangelo che mise poi anche per iscritto, e fondò le Chiese proprio ad Alessandria".
Lo stesso Eusebio stabilì quali fossero i vangeli canonici, ma, dopo la sua morte (340 d.C), durante il IV secolo, si tennero numerosi Concilii intesi a ridefinire la dottrina cristiana. Oltre alla consustanzialità del Padre con il Figlio, decretata nel Concilio di Nicea del 325 d.C., successivamente, in esecuzione dell'Editto di Tessalonica del 380 d.C., venne decretata anche la nascita verginale di Maria, Madre di Gesù Cristo.
Fu così che, come risultato dei Concilii cristiani convocati nel IV secolo, prevalse il Cattolicesimo, legittimato con l'Editto di Tessalonica del 380 d.C., come religione unica del neonato Impero Cattolico Romano; di conseguenza, nel 381 si tenne il Concilio di Costantinipoli in base al quale furono modificati i vangeli precedenti, già approvati da Eusebio prima del Concilio di Nicea del 325.
La dimostrazione dell'ultima modifica dei vangeli con i relativi dettagli si può leggere nella 3^ parte del VI studio dedicato al "Testimonium Flavianum".
In realtà, in contrasto alla dottrina pacifista ideata alla fine del II secolo dagli Esseni, questi, seppur mitizzandole, presero spunto dalle vicende zelote sopra descritte. Eventi che riguardavano la lotta, condotta nel primo secolo da cinque fratelli appartenenti alla dinastia ebraica, definita più volte da Giuseppe Flavio "di grande potere".
Una stirpe di sangue reale che, rivendicando il diritto a insediarsi sul trono dei Giudei appartenente agli Asmonei, si impegnò, fino al martirio, in una guerra contro il dominio di Roma attraverso un contesto storico pericoloso ed estremamente difficile per gli Israeliti.
Il casato asmoneo si estinguerà definitivamente nel 73 d.C. per mano dei Romani con la caduta di Masada, ultima roccaforte degli Zeloti, condotti dal nipote di Giuda il Galileo: Eleazar bar Jair (Lazzaro figlio di Giairo).
Una triste epopea perfettamente compatibile con le vicende reali di quegli anni, riferite, oltre che da Filone Alessandrino, soprattutto, come stiamo per relazionare, da Giuseppe Flavio e Cornelio Tacito, ma confermate, pur con descrizioni ridotte, anche da Svetonio e Cassio Dione.
Parte terza
Come abbiamo appena letto, lo studio sopra pubblicato è servito a scoprire la vicenda che originò il mito di “Gesù Cristo”, Figlio di Dio, ideato dagli Esseni dopo l’ultimo olocausto giudaico perpetrato da Adriano nel 135 d.C. per punire l’ultima grande rivolta degli Ebrei. Tuttavia, scorrendo gli eventi trattati, i lettori accorti avranno sicuramente rimarcato l’importanza, sotto il profilo storico, determinata dal fatto che, mentre era in corso una guerra fra Roma ed il Regno dei Parti, Lucio Vitellio, l’uomo più potente dell’Impero Romano dopo Tiberio, si sia recato due volte a Gerusalemme: nel periodo della Pasqua ebraica del 36, come in quella del 37 d.C. Gli stessi anni in cui, nella Città Santa, secondo i documenti neotestamentari, appena dopo la risurrezione del “Salvatore”, gli Apostoli da Lui scelti iniziarono a compiere “Atti miracolosi”, tali da stupire i Gerosolimitani e tutti gli abitanti delle città vicine, guarendo da qualsiasi male ogni infermo, fino al punto di far risorgere i morti (At 5,12; 9,34; 9,40).
La concomitanza fra gli “Atti degli Apostoli” e gli “Atti di Lucio Vitellio”, da circa un secolo ha iniziato a preoccupare gli storici genuflessi della Roma antica, i quali “istintivamente” percepivano che qualcosa sfuggiva alla “tradizione cristiana”, una sensazione che, in mancanza di spiegazioni plausibili, rischiava di trasformarsi in angoscia.
Oltre mezzo secolo fa, uno di tali studiosi, Albino Garzetti, ha rotto gli indugi conducendo una apposita “analisi” finalizzata a sminuire le imprese del grande condottiero romano, finendo col negargli uno dei due viaggi a Gerusalemme (per ridurre l’attenzione dei ricercatori curiosi) e, soprattutto, intesa a modificare la datazione delle gesta di Vitellio, con il malcelato intento di allontanarle dall’epoca di Gesù e dei Suoi successori.
Effettivamente, Albino Garzetti, con le sue “applicazioni” su Lucio Vitellio, riuscì a placare l’ansia repressa dei suoi epigoni, e da loro, in segno di riconoscenza per tali studi, è stato citato nei libri di storia … al punto che è riuscito ad “entrare nella storia”.
Ma verifichiamo, adesso, in quale "storia” …
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