Il rinomato editore umanista Aldus Pius Manutius (Aldo Manuzio, 1449 - 1515), figura di spicco del Rinascimento italiano, appassionato di studi classici, amico di influenti religiosi e frequentatore di antiche biblioteche, dopo essersi avvalso per anni della collaborazione di esperti ricercatori di manoscritti, indispensabili alla pubblicazione di opere della civiltà greca e latina, nel 1508 stampò una edizione de "L'Epistolario di Plinio il Giovane a Traiano..." (C. Plinii Secundi ... Epistolarum libri Dece...) fra cui, per la prima volta, il carteggio indirizzato all'Imperatore quando il patrizio governava la Bitinia in qualità di Legatus Augusti pro Praetore.
In una di queste lettere, indirizzata a Traiano il 112 d.C., il Senatore pagano denunciò la presenza, copiosa e anomala, di una setta di Cristiani entro quella lontana Provincia romana.
In merito all'autenticità della lettera indirizzata da Plinio il Giovane a Traiano e la relativa risposta dell'Imperatore, da oltre un secolo, molti esperti di fama mondiale hanno pubblicato ipotesi contrastanti, in qualche caso macchinose, nessuna delle quali avvalorata da informazioni storiche determinanti, pertanto incapaci di andare oltre un generico giudizio che, inevitabilmente, riflette posizioni preconcette: i credenti, convinti della veridicità, al contrario, i non credenti affermano sia un falso.
L'intera documentazione fu ricavata dalla lettura del manoscritto classificato "Codex Parisinus Latinus 6809", datato paleograficamente al VI secolo e giacente nell'Abbazia di San Vittore (vicino a Parigi) ove il frate domenicano Giovanni Giocondo trascrisse il codice per poi consegnare una copia ad Aldo Manuzio. Questi si premurò di pubblicarla a Venezia e, per la prima volta, nel 1508, tutti gli studiosi interessati ad approfondire la materia conobbero la vicenda dei precursori Cristiani, già presenti nella Provincia di Bitinia tra la fine del I secolo e l'inizio del II d.C., talmente numerosi da spingere Plinio Secondo a indagare sugli adepti della setta e le sue finalità, per poi sottoporre il problema a Traiano evidenziandone l'aspetto giuridico in conformità al diritto romano.
Questo manoscritto e gli altri - contenenti le lettere di Gaio C. Plinio Secondo, detto il Giovane, dalla disgregazione dell'Impero Romano fino a dopo l'epoca carolingia - erano tutti conservati in biblioteche appartenenti ad abbazie, in prevalenza francesi, facenti capo a disparate autorità ecclesiastiche. I documenti furono trascritti da copisti in più codici a partire da un archètipo, con ogni probabilità quello originale o, quanto meno, una copia, ma, solo alcuni di essi riportavano il X libro: l'unico che comprendeva la corrispondenza fra il Governatore di Bitinia e l'Imperatore Traiano consistente in 26 missive ufficiali fra cui quella che riguardava i Cristiani primitivi.
La relazione inviata all'Imperatore dal suo Legato "Epistularum X 96" (è in rete) riferisce le conclusioni della indagine svolta per accertare la pericolosità della nuova setta religiosa avvalendosi, innanzitutto, della tortura sino al punto di uccidere numerosi Cristiani.
Stando alla "tradizione" ecclesiastica, documentata nella immane patrologia greca e latina, redatta dall'alto Medio Evo in poi (antecedente a questa epoca non esiste alcun manoscritto), quei Cristiani sottoposti a supplizio ed uccisi avrebbero dovuto essere riconosciuti come "màrtiri".
Viceversa, leggiamo come Tertulliano in "Apologeticum" (2,6) commenta la triste vicenda:
"Plinio Secondo, che governava una Provincia (quale?), dopo aver condannato e costretto a rinnegare la fede alcuni Cristiani, impressionato dal loro numero e non sapendo come comportarsi, comunicò all'Imperatore Traiano di non aver in loro trovato niente di criminoso a parte il rifiuto del culto pagano".
Questa è una testimonianza "indiretta" molto riduttiva che "dimentica", volutamente, ma inspiegabilmente a prima vista, di riportare il dato più grave e significativo: il supplizio e la morte di un elevato numero di Cristiani perpetrato dal Legatus Augusti pro Praetore, Governatore di Bitinia, Plinio il Giovane.
E' importante sottolineare che i primi manoscritti di "Apologeticum" risalgono al X secolo. Questa datazione dimostra che, cinque secoli prima che il frate domenicano Giocondo trascrivesse l'epistolario di Plinio Secondo, completo dei suoi rapporti a Traiano, già allora gli scribi cristiani erano a conoscenza delle lettere che il Governatore di Bitinia inviò all'Imperatore. Non solo, stando alla datazione del "Codex Parisinus Latinus 6809", gli antichi esegeti ecclesiastici erano a conoscenza diversi secoli prima della lettera di Plinio il Giovane e dei Cristiani torturati e uccisi. Di tale lettera gli alti prelati possedevano nelle loro biblioteche la trascrizione, e forse anche l'originale, ma senza averla mai pubblicata e richiamata nella imponente letteratura patristica cristiana redatta nel corso dei secoli; pur avendo il dovere e l'nteresse a farlo ... secondo un giudizio iniziale superficiale.
Fu appunto la lettura di "Apologeticum" che spinse l'erudito frate domenicano a indagare sull'episodio dei numerosi Cristiani denunciati da Plinio il Giovane a Traiano e, grazie alle sue frequentazioni con autorità dell'alto Clero, venne a conoscenza dell'esistenza della epistola che Plinio Secondo, nella veste di Governatore, spedì all'Imperatore. Una consapevolezza che permise a Giocondo di trovare in una Abbazia la copia monoscritta del decimo libro dell'epistolario di Plinio Secondo a Traiano col chiaro fine di dimostrare al mondo intero l'esistenza dei Cristiani primitivi certificata da un documento storico. Almeno quello fu il suo intento e di chi lo aiutò ... molto, molto in buona fede.
Al contrario, le "eminenze grigie" dell'alto Clero - che sino all'Anno Domini 1508 erano riuscite a mantenere nascosta la epistola ufficiale del Governatore Plinio il Giovane e il suo intervento contro i Cristiani - iniziarono a temere che prima o poi qualcuno scoprisse il movente che le indusse a un sì grave sotterfugio. Ebbene, oggi il tempo è scaduto.
Dopo che il Cristianesimo fu equiparato alle altre religioni da Costantino il Grande, la Chiesa si prodigò per individuare e redigere gli "Atti dei Màrtiri", costituiti da processi verbali concernenti le cronache delle strazianti morti subite dai cristiani seguaci di Gesù, a causa della loro fede, appena dopo la Sua crocifissione ... in poi.
Oggi quegli "Atti" sono contenuti nel "Martirologio": una sorta di calendario liturgico ufficiale in cui vengono descritte le storie dei màrtiri gesuiti di tutte le epoche. Eppure, nonostante la riprova storica, i màrtiri cristiani di Plinio il Giovane non sono mai stati beatificati ... neanche degni di una commemorazione al "màrtire ignoto". Perché?
Una volta ottenuta la possibilità di consultare gli archivi imperiali sotto Costantino e visionato l'autentico epistolario di Plinio Secondo, le "eminenze grigie" cristiane si resero conto della vicenda e il retroscena ad essa connesso: l'episodio, oltre a dimostrare che quei "cristiani" erano "messianisti" ma "non seguaci di Gesù", faceva crollare la credibilità di tutti i sacri testi "canonici" e delle gesta in essi narrati, ad iniziare dagli Apostoli, i loro successori e màrtiri compresi. I sottili intelletti del Clero gesuita compresero subito che i Cristiani di Bitinia non conoscevano "Gesù Cristo", il "Figlio di Dio", "Salvatore" e "Redentore" dell'umanità intera.
Una evidenza che costrinse gli amanuensi a modificare la "sacra scrittura", alla fine del IV secolo, adottando un metodo superficiale e puerile che possiamo dimostrare avvalendoci della lettura comparata di "Atti degli Apostoli" con la storiografia dell'epoca.
Torniamo alla vicenda di Plinio il Giovane in Bitinia e allarghiamo la visuale sul territorio assoggettato a Roma: osserviamo che in quello stesso anno del martirio di messianisti, il 112 d.C., un famoso Proconsole incaricato da Traiano e amico di Plinio Secondo, nonché il principale storico dell'Impero Romano, Cornelio Tacito, era insignito come Governatore della Provincia d'Asia, confinante a sud della Bitinia ... di conseguenza ...
“Attraversarono la Frigia e la Galazia, avendo lo Spirito Santo vietato di predicare nella Provincia d'Asia. Raggiunta la Misia, si dirigevano verso la Bitinia, ma lo Spirito di Gesù non lo permise ...” (At 16,6/7).
Scopriamo perché "Dio" vietò a san Paolo e Barnaba di recarsi a far proselitismo nelle Province d'Asia e Bitinia ...
L'apostolato di san Giovanni
Lo studio svolto su Simone lo zelota - “fratello” “fratellastro” “parente” “cugino” di Gesù, il quale, stando alle scritture cristiane, fu secondo Vescovo di Gerusalemme - ha dimostrato l'inesistenza di questo personaggio come uomo e, inevitabilmente, la massima carica sacerdotale di governo spirituale della comunità cristiana della Città Santa, anch'essa è andata a “farsi benedire” sino a smentire l'esistenza del suo precursore, l'apostolo “Giacomo il Minore”, primo Vescovo della stessa Diocesi.
L'indagine sulla presenza dei cristiani (messianisti, non gesuiti) denunciata da Plinio il Giovane, avvenuta nel 112 d.C., da noi riferita ne “i falsi màrtiri di Nerone”, ci consente di provare la mancanza di Capi alla guida “pastorale” della Chiesa di Cristo in Bitinia. A quella stessa data non esistevano comunità di cristiani gesuiti e loro Capi territoriali, neanche nella Provincia d'Asia, con capitale Efeso, governata dal Proconsole romano Cornelio Tacito*, il quale, essendo sacerdote pagano, li avrebbe quanto meno denunciati e, come Plinio il Giovane, sottoposto il problema all'Imperatore Traiano.
“La Chiesa di Efeso, che Paolo fondò ed in cui Giovanni rimase fino all'epoca di Traiano, é testimone veritiera della tradizione degli apostoli” (op. cit. III 3,4).
“Attraversarono la Frigia e la Galazia, avendo lo Spirito Santo vietato di predicare nella Provincia d'Asia. Raggiunta la Misia, si dirigevano verso la Bitinia, ma lo Spirito di Gesù non lo permise ...” (At 16,6/7).
* La Santissima Trinità fu inventata dai Padri Venerabilissimi e Santi dopo aver dichiarato “Consustanziale lo Spirito Santo con il Figlio e il Padre” nel Concilio di Costantinopoli del 381 d.C.
Oltre due secoli dopo l'Avvento di Cristo iniziarono ad essere redatti documenti da scribi clericali per far apparire una “cristianità gesuita” numerosa, ben organizzata dai loro Episcopi “pastori di anime”, sin dal I secolo, ad iniziare dalla più importante, quella di Roma, sede del Trono di Simone Pietro, il primo Papa: la vera Chiesa, custode unica della Tradizione dei Padri maestri fondatori, ligia agli insegnamenti del Redentore, santo baluardo contro l'eresia dilagante dei falsi “Cristi Salvatori”.
Continuiamo a seguire il metodo e l'attenzione con cui le “eminenze grigie teologali” crearono la “patrologia”, struttura portante della “tradizione cristiana”, comparando fra loro gli attestati manoscritti da autorevoli “Padri”, avvalendoci, come sempre, della documentazione storica per ricercare dati significativi sull'esistenza del longevo discepolo prediletto dal Signore Gesù: san Giovanni.
Le sviste degli scribi "tertullianei"
Ritorniamo su "Padre" Tertulliano per verificare la tradizione di "Giovanni, apostolo evangelista" sulla base dei documenti manoscritti a noi giunti al fine di comparare la coerenza delle sacre testimonianze, nonchè la datazione delle "varianti" ad esse aggiunte nel corso dei secoli. Modifiche utili per stabilire la veridicità delle deposizioni rese sul "Discepolo che Gesù amava" da parte dei presunti successori degli apostoli: Clemente Alessandrino, Ireneo di Lione, Policrate di Efeso e Papa Vittore; tutti citati da Eusebio di Cesarea, come abbiamo visto sopra, ai quali aggiungiamo noi lo stesso Tertulliano.
Tramite l'analisi della “Natività di Gesù” (vedi XI studio) evidenziamo la grave contraddizione nella quale sono incappati gli amanuensi medievali, i quali, per colmare il “buco” cronologico di 12 anni fra le nascite di Luca e Matteo, ebbero la malaugurata idea di far sostituire da Tertulliano in “Adversus Marcionem” (IV 19) - un manoscritto "apparso" quasi un millennio dopo il presunto "Padre" - il Governatore imperiale di Siria, Publio Sulpicio Quirinio, con un altro, Senzio Saturnino.
Questi, documentato effettivamente dagli storici come Governatore di Siria, fu incaricato da Cesare Ottaviano, in qualità di Legatus Augusti pro Praetore, in un torno di tempo durante il quale Erode il Grande avrebbe potuto fare la “strage degli innocenti” per eliminare il neonato "Gesù bambino". In realtà la ricerca storica dimostra (vedi XI studio sulla "Natività") che Saturnino non ha mai avuto il mandato da Cesare Augusto per eseguire alcun censimento durante il quale, secondo il vangelo di Luca, nacque il Salvatore dell'umanità.
Sulla base di quanto riportato dagli amanuensi medievali, dal X secolo in poi (vedi l'iniziale "Codex Latinus Parisinus 1623"), che compilarono i successivi codici di "Apologeticum" a nome di Tertulliano, abbiamo ricavato, fra le tante, una prova della falsificazione del martirio dei Cristiani di Nerone (vedi XII studio), comparando, oltre ai testi, le datazioni dei codici. Dalla loro lettura risulta che la “testimonianza” negli Annales, ascritta a Tacito, è posteriore di un secolo a quella dello scriba “tertullianeo”, il quale, in "Apologeticum" (cap. XVI 1), richiamandosi alle "Historiae" dello storico latino, lo accusa di aver sparso la voce che i Cristiani, alla pari dei Giudei, adoravano gli onagri ... senza poter immaginare che un secolo dopo di lui un altro scriba avrebbe riportato sul "Codex Laurentianus MS 68 II", risalente all'XI secolo, gli "Annales" di Tacito in cui risulta che i Cristiani adoravano Gesù Cristo, non gli asini.
L'imponente òpera, accumulatasi nei secoli, e la conseguente indagine sulla vita di Tertulliano, un “Padre apologista” collocato dalla "tradizione" fra il II e III secolo, spacciato per vero ma sconosciuto da tutti i “Padri” a lui coevi e a quelli successivi ... fino allo storico Eusebio di Cesarea del IV secolo, in apparenza il primo a citarlo (ma i codici della Historia Ecclesiastica furono trascritti dal X secolo in poi), ci porta a concludere che "Quinto Settimio Fiorente Tertulliano” non è mai esistito. L'impresa letteraria a lui attribuita fu redatta da scribi cristiani avvicendatisi in epoche storiche molto posteriori la sua immaginaria esistenza.
Una sequela di cronisti cristiani come Orosio, Sulpicio Severo, sant’Agostino, ecc., in particolare Dionigi il Piccolo (cui dobbiamo la datazione della nascita di Gesù) e, su su, nei secoli, nessuno di questi conosce Tertulliano. Fino a quando, a partire dall'inizio del IX d.C., iniziarono ad essere stilate dagli amanuensi le prime opere ascritte a Tertulliano, accumulando, nel tempo successivo, un’immane, quanto impossibile, “tradizione manoscritta”, a lui accreditata, per essere poi collazionata e scelta, la prima volta, nel XVI secolo allo scopo di esibire “archètipi”, comunque difformi, impossibili da congetturare. Una corposa serie di "Trattati", per lo più teologici, attribuiti al “Padre” attraverso varie “editio princeps opera omnia” ricavate da “famiglie” di codici contrastanti fra loro, al punto di indurre i chiesastici, curatori delle traduzioni, ad elaborare macchinose "lezioni" per sanare i contrasti fra le testimonianze riferite nei manoscritti. Semplice dimostrazione che queste opere non furono redatte da alcun "Tertulliano" perché il vero autore originale non avrebbe mai rilasciarto testimonianze divergenti … senza contare ulteriori trattati dati per "persi" nel corso dei secoli, in realtà volutamente eliminati in quanto inconciliabili fra loro.
L'unico dato certo riguardante Tertulliano fu il movente che obbligò le eminenze grigie del Clero ad inventarlo: l'esigenza imprescindibile dl un "Primo Grande Testimone" destinato a comprovare una corposa presenza di cristiani nell'Africa Proconsolare Romana, unitamente alla dottrina del Salvatore Universale. Ma, una volta conferito l'incarico al "Grande Teste", gli scribi di Dio commisero la dabbenaggine di collocarlo in quella Provincia imperiale dalla metà del 2° secolo sino a farlo morire di vecchiaia entro il primo quarto del 3° secolo. (Nel merito vedi "Ad Scapulam" XIX studio).
Da quanto premesso, ribadiamo, non sussistono concrete testimonianze storiche relative al Padre apologista Q. Settimio Fiorente Tertulliano a sostegno della sua effettiva esistenza. Eusebio di Cesarea e Girolamo Sofronio, come stiamo per verificare, lo richiamano in codici medievali, ma, oltre a questi Padri, viene citato da "san Vincenzo Lirinense" (V sec), "san Gelasio" (V sec), e "sant Isidoro di Siviglia" (VI sec), santi anch'essi spacciati per veri ma in realtà mai esistiti. La prova della loro invenzione è semplice essendo sconosciuti dal Vescovo Jacopo da Varazze (1228-1298), autore della "Legenda aurea", la lista aggiornata di tutti i "Beati" a partire da san Pietro sino a tutto il XIV secolo, pertanto questi tre santi che avrebbero "certificato" l'esistenza di Tertulliano furono inventati dopo tale epoca. Testimonianze tutte trasmesse in manoscritti ecclesiastici, non autentici, ma elaborati da altri autori fra il tardo Medioevo ed il Rinascimento.
E' d'obbligo sottolineare che "Tertulliano" risulta testimoniato in "De viris illustribus" (LIII) di Girolamo Sofronio, ma è altrettanto vincolante ribadire che i Codici di questo documento* (fine IX sec.) sono posteriori al "Codex Agobardinus Parisinus Lat. 1622": il più antico manoscritto (entro la prima metà del IX sec.) in cui si certifica, la prima volta, l'esistenza del prete apologista "Tertulliano".
* Le fonti attendibili del "De viris illustribus" utilizzate per essere trascritte sono costituite da 84 mss. suddivisi in otto gruppi: A. Parisinus (Corbeiensis o Sangermanensisis 7° sec.); T. Vaticanus Reg. Lat., 7° sec.; Veronensis, 8° sec.; Vercellensis 8° sec.; Monspessalanensis 9° sec.; Monacensis 8° sec.; Vindobonensis 9° sec.; H. Parisinus 9°sec. Cui si aggiungono: un codice del 9° secolo ora a Vienna, già a Bobbio; e due mss del 9° secolo: uno conservato a Montpellier "Codex Ms H. 406", mentre il secondo è conservato a Monaco. Un altro manoscritto antico, il "Codex Ms Lat. 2 Q Neoeboracensis", risalente al 9° secolo, è conservato al General Theological Seminary in New York.
Da evidenziare che le stime paleografiche, relative alle datazioni dei manoscritti appena citati, si dimostrano manifestamente errate quelle antecedenti al 9° secolo. La prova è costituita dal fatto che il primo manoscritto a riferire di Tertulliano (sconosciuto in qualsiasi testo stilato fino allora) e le sue prime opere è il "Codex Agobardinus Parisinus Lat. 1622". Ma, dal momento che questo preliminare documento, stilato dall'Arcivescovo Agobardo di Lione (il movente lo abbiamo appena riferito), è datato con precisione storica entro la prima metà del IX secolo, essendo costui morto il 6 giugno 840, ne consegue che tutti i manoscritti riguardanti le gesta di Q. Settimio Fiorente Tertulliano, inevitabilmente, furono redatti dalla seconda metà del 9° secolo in poi.
Stesso esito vale anche per la "Historia Ecclesiastica" di Eusebio di Cesarea, i cui codici iniziarono ad essere redatti a partire dal X secolo. Da notare che gli scribi medievali dell'opera eusebiana riferiscono di Tertulliano ma non ancora qualificato come il più famoso eretico "montanista": evidentemente la trama biografica tertullianea, dottrina compresa, fu sottoposta ad un secolare processo evolutivo fino all'ultima sua opera "Ad Scapulam", redatta in vari codici nel 15° secolo (vedi XIX studio).
Data la molteplicità e l'importanza dei manoscritti attribuiti a Tertulliano, avrebbe dovuto conoscerlo, innanzitutto, il Padre apologista Origene e il Papa Ippolito di Roma, a lui contemporanei secondo la "tradizione"; e con loro la sfilza di Vescovi, il primo dei quali san Cipriano, Vescovo di Cartagine e nativo di quella città come Tertulliano, cui seguono Padri e storici cristiani, che lo ignorano tutti, in conformità alla datazione dei rispettivi codici.
Da rimarcare che Origene Adamanzio (185-254), secondo la "tradizione ecclesiastica", fu uno dei maggiori "Padri Apologisti", il quale, dopo aver diretto la scuola di teologia di Alessandria, nel 232 d.C. fondò a Cesarea una sua scuola, con tanto di discepoli, fornita di una ricca biblioteca dotata di oltre 30.000 manoscritti, finalizzata a ricercare e raccogliere studi biblici, storici, filologici e critici sui protagonisti della dottrina cristiana. Poichè il "Pilastro Apologeta" Origene non conosce l'imponente ricerca cristiana, attestata in numerose opere dall'altro "Pilastro Apologeta" Tertulliano (155-230), né mai lo cita, significa che all'epoca di Origene non esisteva Tertulliano né il "frutto del suo ingegno".
Non è credibile che tra la fine del II e l'inizio del III secolo un intellettuale conoscitore del greco e del latino, figlio di un centurione, fervente pagano per buona parte della sua vita (sino a 40 anni, come attestato da san Girolamo in "De viris illustribus" e da lui stesso in "Apologeticum"), una volta fatto prete abbia avuto la possibilità - non solo economica ma anche temporale, con un'organizzazione di esperti calligrafi - di scrivere un'opera omnia di 40 trattati (senza contare quelli andati perduti) ... tutti sfuggiti al "bibliotecario" Origene.
Un impegno metodico - eccessivamente vasto ed approfondito sullo scibile del mondo classico, storico, filosofico, giuridico e religioso - assunto mantenendo, al contempo, un comportamento, pubblicamente documentato, di veemente contrapposizione ideologica nei confronti dei funzionari imperiali romani, al punto che, nella raltà, costoro l'avrebbero "martirizzato" subito, anziché lasciarlo invecchiare in tutta tranquillità, secondo quanto riferito da san Girolamo. Un lavoro letterario addirittura superiore a quello, pur ampio, affrontato da Giuseppe Flavio il quale, nel corso di venticinque anni, usufruì di sostanziosi contributi concessi da due Imperatori Flavi ed un ricco mecenate, unitamente alla possibilità di accedere agli archivi imperiali; oppure la monumentale opera del Senatore romano, contemporaneo di Tertulliano, Cassio Dione (Storia Romana) al quale necessitarono ventidue anni per completarla, senza problemi organizzativi, economici e con la possibilità di consultare gli Atti del Senato e gli archivi imperiali di Alessandro Severo suo amico. Un còmpito talmente impegnativo al punto che, per poter stilare le sue opere, allo stesso Orìgene necessitarono aiuti economici e scrivani fornitigli da un generoso protettore, non meglio identificabile, "il pio Ambrogio" ... dopo averlo convertito.
La mancanza di coordinamento, causa dei molti contrasti già evidenziati nelle ricerche precedenti, derivò dall'immane lavoro che, composto da amanuensi di diverse Abbazie e successivamente assemblato, avrebbe richiesto una minuziosa lettura comparata, dei lavori attribuiti a Tertulliano, ormai divenuta impossibile fra tanti manoscritti dispersi nelle molteplici ecclesiae cristiane occidentali ed orientali. Infatti queste si erano ormai divise in conseguenza di litigiosi scismi e anatemi reciproci, motivati da sottili esigenze dottrinali e, soprattutto, da ambizioni di "Primato" (così viene definito il "potere" dagli ecclesiastici).
In merito alla verifica dell'esistenza di Tertulliano è doveroso porre in risalto un'ennesima falsificazione della sua testimonianza in contrasto con le altre deposizioni dei “Padri” fondatori, incompatibili fra loro: quella relativa alla vita dell'apostolo Giovanni.
Vita, opere e miracoli di san Giovanni
L'apostolo Giovanni, prima venne identificato dalla “Tradizione” nell'anonimo “discepolo che Gesù amava”, poi fu chiamato come testimone oculare della vita di Cristo, narrata in un canonico "Vangelo secondo Giovanni" a lui attribuito. Il Santo, infine, fu scelto da Dio come depositario della “Rivelazione” (Apocalisse) del Redentore e del Suo ritorno (Parusia) ... non più come “Salvatore” ma nelle vesti di un terrificante “Giustiziere” che avrebbe provocato la fine del mondo, tramite una catastrofe cosmica, dando inizio ad un eterno "Regno dei Cieli" destinato a quella parte di umanità giudicata meritevole. San Girolamo (Hieronymus) riconobbe san Giovanni come “Apostolo, evangelista e Profeta”.
Tuttavia, nonostante l'evidente montatura di una esistenza del “discepolo prediletto” interamente dedicata alla “vocazione”, la “Tradizione ecclesiastica” di Apostoli, Padri, Vescovi e Papi, compreso Eusebio di Cesarea ed il suo storico Egesippo, lo ha lasciato morire di vecchiaia: unico indenne tra le “colonne portanti della Chiesa”, i grandi Profeti evangelizzatori e miriadi di “màrtiri” cristiani gesuiti.
Il più antico codice manoscritto che si propose di colmare il grave “vuoto” di san Giovanni nel martirologio patristico cristiano risale al IX secolo, in piena epoca carolingia e, superfluo a dirsi, in esso viene chiamato in causa Tertulliano come “primo testimone dei fatti”.
“... Giovanni ebbe a sopportare la relegazione in un'isola (?), dopo (quando?) che miracolosamente nulla ebbe a soffrire, sebbene fosse stato immerso (da chi?) in un bagno di olio bollente!”.
Non è una cronaca, tutt'al più un ridicolo accenno assente di qualsiasi dato storico o elemento probante, non riferito appositamente per evitare riscontri antitetici … ma non le nostre considerazioni:
In definitiva, assistiamo alla messa in scena scritta da un amanuense medievale, diretto dalle mani autorevoli del Metropolita Agobardo, al fine di rafforzare una fede con la “dimostrazione”, destinata ai credenti, della potenza divina del Cristo Salvatore grazie allo strabiliante prodigio del suo apostolo prediletto: Giovanni. Il tutto “testimoniato” da un Padre apologista inventato secoli dopo: “Tertulliano”.
Ma non siamo i primi a renderci conto della somma di contraddizioni insite in questa finta deposizione, “telefonata” dopo quasi un millennio, da un Tertulliano mai esistito: le “eminenze grigie” della Chiesa ci hanno anticipato di secoli tentando di porvi rimedio. Furono obbligate a farlo per evitare di cestinare il codice ufficializzato dall'autorevole Arcivescovo, ormai già trascritto e diffuso, pur contenente solo tredici opere del Padre* col risultato di tagliare una fetta importante della patrologia cristiana.
* Mancano in particolare “Apologeticum” e “Adversus Marcionem”, due opere già trattate da noi che fino allora non erano state inventate. Si fa notare che il “Codex Agobardinus” è datato con precisione storica, mentre i successivi si basano su stime paleografiche approssimative, senza riscontro strumentale dello spettrometro di massa.
Essendo il più antico, oltre al valore intrinseco del manoscritto, il documento costituiva la “base” su cui impiantare un archètipo di “supplizio giovanneo” (in assenza di una fonte autentica) da accreditare a un presunto Tertulliano in vita. Un protòtipo, da selezionare tra famiglie di codici redatti in epoche posteriori, sarebbe servito a congetturare il supplizio di Giovanni. Codici collazionati e scelti, fra numerosi, per nascondere i rispettivi contrasti creati dalla fantasia di pii amanuensi dettata da un “eccesso di fede”.
Tramite “Documenta Catholica Omnia”, Excerpta ex Migne Patrologia Latina - una raccolta di testi manoscritti fra il basso medioevo ed il rinascimento, tradotti e pubblicati circa due secoli fa - in “Adversus Iovinianum” accreditato a Hieronymus (san Girolamo), lo scriba redattore “rivela”, pur se Tertulliano era morto da oltre un millennio, cosa “riferì” il Padre apologista del 200 d.C. riguardo san Giovanni:
“Giovanni Apostolo evangelista, da Profeta vide certamente l'Apocalisse nell'isola di Pathmos ove fu relegato dall Imperatore Domiziano dopo il martirio subito per il Signore. Inoltre Tertulliano riporta che fu immerso da Nerone* in una giara colma di olio bollente da cui uscì purificato (sic!) e più vigoroso di come era entrato” (op.cit. Lib. I 26).
* Tutti i manoscritti e le edizioni vetus latinae riportano “da Nerone”, tuttavia i “curatori” cristiani degli ultimi tre secoli falsificano la traduzione con “a Roma fu immerso ...”. Cancellano “Nerone” pur sapendo che i devoti amanuensi del trascorso millennio intendevano assembrare il supplizio di Giovanni con il martirio di Pietro e Paolo, perpetrati da quell'Imperatore.
Il motivo per cui non deve apparire Nerone, colpevole del supplizio di san Giovanni, dipende dal fatto che le eminenze grigie cristiane sapevano e sanno che, se Giovanni era vissuto durante tutto il I secolo, lui per primo avrebbe dovuto riferire dell'esecranda strage di cristiani voluta dall'Imperatore ... ma, l'amanuense che scrisse le tre lettere, attribuite all'apostolo per dimostrare che era esistito, ignorava questa spettacolare vicenda così come non conosceva il supplizio del "discepolo prediletto" del Signore. No! Oggi é meglio tenere san Giovanni “lontano” da Nerone: tenuto conto della gravità dell'evento, la mancata testimonianza di Giovanni, in merito alla strage neroniana, sarebbe balzata spontaneamente agli occhi anche dei “non addetti ai lavori”.
Chiunque può capire che il martirio neroniano di cristiani gesuiti è un falso se l'apostolo Giovanni non lo ha riportato nelle sue lettere scritte alla fine del I secolo, specie dopo essere stato immerso da Nerone in un tonificante bagnetto d'olio a oltre 300 gradi centigradi.
Intanto prendiamo atto che gli amanuensi del tardo medioevo decisero di arricchire la scarna cronaca tertullianea carolingia con un san Giovanni “martirizzato” da Nerone (perlomeno l'imperatore ci provò). Inoltre, quella “balneazione divina tonificante” gli giovò alla salute, tanto da farlo vivere sino in età avanzata, dopodichè Domiziano lo relegò nell'isola di Pathmos (nel Dodecaneso) ove ebbe la profetica “Rivelazione” del “Candido Signore con voce di tromba” sulla fine del mondo. Ne consegue che san Giovanni risulta essere stato oltremodo famoso dal momento che due Imperatori (più avanti vedremo che, del suo supplizio, verrà incolpato Domiziano dai saccenti baciapile) si interessarono personalmente del “Discepolo che Gesù amava” ... una notorietà non condivisa da nessun altro “Padre”, “Vescovo” o “Papa”, a lui presenti e futuri, i quali, nessuno di loro sapeva del miracoloso “martirio giovanneo”.
Gli attribuirono guarigioni miracolose, gli fecero resuscitare i morti: un potere concessogli per grazia divina pari a quello dei santi Paolo e Pietro, per di più "comprovato" in artistici dipinti realizzati nelle Chiese di Dio; il “martirio purficatore” avvenuto ad Efeso non più a Roma; la “giara” divenne “caldaia” (si era capito che avrebbe funzionato meglio), inoltre, sempre più “realisticamente”, ma “apocrifo”:
“L'olio bollente si mutò in rugiada celeste e Giovanni uscì dalla caldaia più fresco e più vigoroso di quando vi era entrato”
… e, tra una “Legenda Aurea” e l'altra, si giunse quasi alla fine del medioevo quando apparve l'ultima “rivelazione divina”: Giovanni evangelista bevve, indenne, un calice avvelenato offertogli da un sacerdote pagano del Tempio di Efeso. Altra variante: la “coppa con la vipera” (simbolo demoniaco). Quella "coppa" (sic!) è rimasta esposta nella basilica di San Giovanni in Laterano a Roma alcuni secoli, poi “celata dietro le quinte” perché giudicata “apocrifa”.
In definitiva, una serie di miti giovannei “comprovati” da Padri Venerabilissimi e Santi Episcopi, tutti successivi ad Eusebio di Cesarea. Perchè?
* Dopo il Concilio di Nicea del 325 d.C., cui partecipò Eusebio, seguirono numerosi altri per stabilire la “sostanza” di Dio, sino a quello di Efeso nel 431. I manoscritti originali del “Padre Eusebio” non ci sono pervenuti perchè furono eliminati. Essi avrebbero evidenziato la differenza creatasi nella dottrina cristiana derivata dalla “introduzione”, successiva, della “Santissima Trinità” e l'assurdo rapporto fra la “Madre di Dio” e la “Madre del Figlio di Dio” “consustanziale e coeterno al Padre dall'inizio dei secoli”.
Gli esegeti ispirati non sono riusciti a trovare una spiegazione plausibile nonostante l'assoluta necessità per i fedeli di adorare un “san Giovanni miracolato” predicato dai pulpiti. Per di più il problema è aggravato dalla totale mancanza di prove su “chi” avrebbe dovuto eseguire il supplizio, e “quando”.
Viceversa, per chi non crede, o chiunque interessato al Cristo storico intenda documentarsi - una volta preso atto delle sciocchezze narrate nei manoscritti e scoperto le contraddizioni derivate dalla pretesa degli scribi di farle apparire vere storicamente - non gli resta che una conclusione: bollare come falsi protagonisti sia l'Apostolo Giovanni che Padre Tertulliano. Di conseguenza, anche gli altri "testimoni di Giovanni" riferiti da Eusebio, come Clemente Alessandrino, Ireneo di Lione, il Vescovo Policrate di Efeso e Papa Vittore, sono stati inventati da Eusebio, l'Episcopo della Corte di Costantino il Grande e, solo molto tempo dopo la sua morte, gli amanuensi medievali li fecero risultare nella "patrologia" con richiami testuali, incrociati appositamente, per far apparire che vissero realmente.
Ecco spiegato perchè Tacito, il grande storico e Governatore della Provincia d'Asia, non ha evidenziato alcuna esistenza di Cristiani gesuiti ad Efeso, diversamente da Plinio il Giovane in Bitinia. Non vi fu alcun Apostolo, nè successore, che si recò nella Provincia d'Asia ad evangelizzare i Gentili pagani. Quindi, non essendo esistiti gli Apostoli, non possono essere esistiti i loro successori Vescovi. Esattamente come abbiamo dimostrato con gli studi precedenti su san Paolo, Giacomo il Minore, primo Vescovo di Gerusalemme, ed il suo successore Simone, parente di Gesù, secondo Vescovo di Gerusalemme.
Sant'Ignazio, primo pseudo discepolo di san Giovanni, e Onesimo: due spropositi storici
Ma non basta. Un altro Padre della Chiesa di Cristo, sant'Ignazio Vescovo di Antiochia, nel 107 d.C. - solo cinque anni prima dell'arrivo del Proconsole Tacito ad Efeso, nel 112 d.C., ed esattamente tre anni dopo la morte di san Giovanni (104 d.C.) - scrisse una lunghissima lettera al numeroso popolo cristiano di Efeso.
Come abbiamo evidenziato all'inizio di questo studio, in base alle testimonianze storiche di tutti i Padri, compreso san Girolamo, alla fine del I secolo non risultano Vescovi della importante città di Efeso. La strana circostanza, divergente dalla "tradizione", ci ha insospettiti e portato a scoprirne il movente sino a coinvolgere, oltre l'assenza della Madonna "Madre di Dio" in questa città, anche quella dell'apostolo Giovanni, successore di Cristo e, fra tutti, il più degno a salire sul soglio episcopale di Efeso, il quale, secondo la "Lettera agli Efesini" di Paolo non vi risiedeva.
Ci volle circa un millennio, dalla fondazione della numerosa ecclesia efesina da parte di Paolo, perché la Chiesa si accorgesse della significativa mancanza del Capo spirituale di quella metropoli, sfuggita alle creative penne degli amanuensi con le gravi ripercussioni sulla realtà storica, allora cercò di porvi rimedio ricorrendo a "Ignazio di Antiochia", citato da Eusebio di Cesarea (HEc. III 36) dal X secolo in poi, e descritto (nell'immancabile lettera a lui pervenuta non si sa da chi), come un "assatanato" dalla brama di martirio:
"Che nessuna delle cose visibili o invisibili mi impedisca di raggiungere Gesù Cristo: rogo, croce, assalti di belve, ossa sfracellate, membra squarciate, tutto il corpo stritolato, tormenti del demonio mi colgano, purché io possa raggiungere Gesù Cristo" (HEc. III 36,9).
Dunque un uomo speciale nato nel 35 d.C. e vissuto - secondo la visionaria "tradizione" imbastita nel IX secolo dagli scribi del "De viris illustribus" (XVI) di Girolamo - fino al 107 d.C.: data ultima dell'immancabile supplizio e beatificazione. Ecco il suo esplicativo martirologio, tutt'oggi ufficiale:
"Memoria di sant’Ignazio, vescovo e martire, che, discepolo di san Giovanni Apostolo, resse per secondo dopo san Pietro la Chiesa di Antiochia. Condannato alle fiere sotto l'imperatore Traiano, fu portato a Roma e qui coronato da un glorioso martirio: durante il viaggio, mentre sperimentava la ferocia delle guardie, simile a quella dei leopardi, scrisse sette lettere a Chiese diverse, nelle quali esortava i fratelli a servire Dio in comunione con i vescovi e a non impedire che egli fosse immolato come vittima per Cristo".
E' del tutto evidente che lo scrivano "biografo" di Ignazio, essendo afflitto da demenza contemplativa mistica, non sapeva che i Romani, per impedire ogni possibilità di fuga ai malcapitati rei, incatenavano i prigionieri destinati ad essere divorati dalle fiere per poi trasportarli su carri in grosse gabbie di ferro. Mai, i miliziani romani, paragonati a feroci leopardi, avrebbero attrezzato la maxi stia "monolocale con sevizi", ad uso personale di Ignazio, arredata di, scriptorium, scanno, calamaio, rotoli di papiro, leggio e càlami d'oca, affinché il martire potesse scrivere sette lettere, lunghe quanto i vangeli, preoccupandosi, per giunta, di chiamare un "postino" onde recapitarle ai destinatari.
"Le lettere di sant'Ignazio ci sono pervenute come una preziosa testimonianza della vita delle Chiese primitive", così commentano estasiati gli storici illuminati odierni, felicitandosi che il servizio postale dell'antica Roma sia sempre efficiente.
Mentre la totale mancanza di reperti archeologici - a riprova dell'inesistenza di Chiese nei primi due secoli - indusse gli antichi amanuensi a far risultare, banalmente al mondo intero, nelle Province dell'Impero Romano una inverosimile presenza di numerosi gesuiti seguaci del Redentore. Ciononostante, gli esegeti ecclesiastici odierni preferiscono chiudere gli occhi, convinti di ottenebrare la ragione di tutti.
In realtà, fu un calligrafo cristiano ad attestare nei dettagli la presenza di un Vescovo ad Efeso e le sciocche gesta di Ignazio nel "Codex Laurentianus Mediceus 57.7", datato paleograficamente all'XI secolo, e, grazie ad una miracolosa telefonata spazio-temporale di mille anni dopo, fra le sette, si fece dettare dallo spirito del màrtire il contenuto della "Lettera agli Efesini", mai rivelato da nessuno prima di allora, a "integrazione" della "Lettera agli Efesini" di san Paolo. Lo spirito di Ignazio, finalmente - dopo che Eusebio era passato a miglior vita da circa settecento anni, e prima di lui la sfilza dei Padri e cronisti storici cristiani, tutti ignari del fatto - smentendo i calligrafi di san Girolamo (che nel IX secolo non potevano conoscerlo), riferì allo scriba che ad Efeso esisteva un Vescovo di nome "Onesimo":
"In nome di Dio ho ricevuto la vostra comunità nella persona di Onesimo, imitatore di Cristo e rianimato nel Suo sangue, vostro Vescovo nella carne".
Secondo il Codice appena citato, il Vescovo Onesimo di Efeso, nel 107 d.C., si recò a visitare il collega Vescovo, Ignazio di Antiochia, e da lui fu ospitato nella vettura maxi stia "monolocale con servizi" che, per l'occasione, i "feroci leopardi" soldati romani avevano allestita con il triclinio.
Scorrendo la lettera apprendiamo che il santo màrtire Ignazio, nel 107 d.C. (come fece Paolo prima di lui), si rivolge, salutandoli, ai Cristiani della Chiesa di Efeso (poco prima della venuta di Tacito come Proconsole) chiamando per nome i Presbiteri e spronandoli "nel glorificare Gesù Cristo" ... ma, anch'egli non cita né commemora san Giovanni, suo maestro da poco deceduto e a lui coevo sino al 104 d.C., epoca di Traiano: neanche un minimo accenno all'apostolo "che Gesù amava".
Pure in questo caso, come la lettera paolina "Agli Efesini", il mancato richiamo di Ignazio al suo maestro Giovanni, venuto ad Efeso con Maria Vergine, mina la credibilità del "prediletto del Signore" e della Madre di Dio al punto di smentire il riferito martirologio ufficiale della Chiesa: un "Ignazio" (da "ignis", fuoco) che, assieme al suo Maestro Giovanni apostolo, viene spazzato via dalla storia, reliquie comprese, alla stregua dei suoi prossimi "colleghi" discepoli e successori di san Giovanni.
Il particolare che deve essere evidenziato riguarda il contrasto fra i codici redatti dagli amanuensi i quali hanno architettato la vita del "discepolo che Gesù amava". Infatti, lo scriba del "Codex Laurentianus Mediceus 57.7", non sapeva della recente presenza del famoso apostolo Giovanni ad Efeso, né delle sue spoglie "addormentate" in quella capitale (Eusebio HEc III 31,3), ma si permise di "citare" come Vescovo e capo spirituale dei cristiani efesini un pinco pallino qualsiasi di nome "Onesimo" ignorando il costante operato della "colonna portante" della Chiesa di Cristo qual era Giovanni, da poco (104 d.C.) ivi deceduto. L'amanuense di Dio, preoccupato di "colmare" la cronotassi dei Vescovi di Efeso, commise la stoltezza di far risultare "Onesimo" capo dei cristiani di quella capitale già dal 107 d.C. e oltre, finendo col provare la costante presenza di una affollata cristianità concomitante con il Proconsole Cornelio Tacito, Governatore della Provincia d'Asia nel 112 e 113 d.C., mentre era residente ad Efeso. Una testimonianza resa da uno scriba nell'XI secolo inconsapevole che un'altro amanuense di Dio, poco dopo di lui, avrebbe fatto risultare Cornelio Tacito come il cronista della strage neroniana di cristiani nei suoi "Annales" facendogli esternare l'odio contro i màrtiri di Cristo. Un accanimento tale che, per coerenza, essendo Tacito un sacerdote pagano, avrebbe inevitabilmente trovato sfogo anche avverso la massa di cristiani gesuiti di Efeso.
Abbiamo riportato questa "cronaca" per dimostrare che non è affatto semplice ingannare la Storia; né inventandola prima, né modificandola poi. Infatti, negli stessi anni in cui venne stilato il "Codex Laurentianus Mediceus 57.7", un'altro amanuense, inconsapevole di questo codice, si apprestava a trascrivere gli "Annales" di Tacito nel "Codex Laurentianus Mediceus Ms 68.II" attribuendo al patrizio romano la falsa testimonianza su Gesù e un impossibile "Procuratore" Pilato (in realtà Pilato fu un Prefetto); commise inoltre la sciocchezza di fare esternare al più grande storico di Roma, nonché sacerdote pagano, il suo odio verso una ingente moltitudine di presunti Cristiani massacrati da Nerone dopo l'incendio di Roma del 64 d.C.
Cristiani i quali - a dispetto dei miracoli del super apostolo Paolo e del "discepolo prediletto del Signore", Giovanni, già capo della Chiesa di Efeso - si dimostrano assenti in quella capitale nel 112 d.C. quando, come Proconsole delegato da Traiano, Cornelio Tacito governò in Efeso la Provincia d'Asia mentre vi risiedeva insieme al Vescovo Omesimo ... esattamente cinque anni dopo che sant'Ignazio aveva "glorificato" gli Efesini gesuiti.
In coerenza con il livore manifestato dallo storico romano avverso i màrtiri neroniani (stando alla descrizione dello scriba del manoscritto "Laurenziano Mediceo 68.II"), Tacito, in quanto Governatore e sacerdote pagano stanziato ad Efeso, ad iniziare da Onesimo, avrebbe fatto una strage di Cristiani maggiore di quella attuata dal suo amico, Gaio Plinio Cecilio Secondo, in Bitinia, nello stesso anno.
Al fine di evitare le negative conseguenze storiche appena descritte sull'esistenza del Vescovo di Efeso, Onesimo, la Chiesa fece cadere il suo martirio il 109 sotto Traiano. Ma anche un ritardato mentale capisce che più in basso di questa datazione le sottili menti vaticane non potevano scendere in quanto vincolate dalla "Lettera agli Efesini", scritta da Ignazio di Antiochia il 107 d.C., ove leggiamo che Ignazio, nella maxi stia, riceve personalmente Onesimo, salutandolo come Capo della comunità cristiana della
capitale romana della Provincia d'Asia.
Una volta trascritti gli Annali di Tacito, la Chiesa si rese conto della contraddizione che si era creata e, al colmo della paranoia da "sindrome tacitiana" creò due vescovi di Efeso, uno in fila all'altro, di nome "Onesimo"; il primo martirizzato sotto Domiziano con tanto di martirologio:
Martirologio Romano: "Commemorazione del beato Onesimo, che san Paolo Apostolo accolse quale schiavo fuggiasco e generò in catene come figlio nella fede di Cristo, come egli stesso scrisse al suo padrone Filémone"
(da Cathopedia - Biografia di sant'Onesimo); mentre il secondo "Onesimo" viene a mala pena accennato al termine della biografia, quasi a prenderne le distanze:
"La tradizione cristiana parla anche di un martire Sant'Onesimo, vescovo di Efeso, lapidato a Roma nel 109 durante la persecuzione di Traiano".
Un Vescovo, addirittura martire e santo, la cui presenza era talmente imbarazzante per essere stato collocato a capo della Chiesa efesina nell'epoca in cui operava Tacito; al punto che le sottili menti vaticane hanno scelto di tagliare la successiva cronotassi episcopale di quella provincia.
Per eliminare ogni eventuale dubbio, concernente l'invenzione di questi Vescovi, martirizzati e beatificati con tanto di reliquie, si fa notare che san Girolamo non conosce nessuno dei due "Onesimo"; ciò dimostra che questi furono inventati dopo gli iniziali manoscritti, risalenti al IX secolo, contenenti il "De viris illustribus" di Girolamo. Infatti, come abbiamo sopra riferito, la "Lettera agli Efesini", accreditata ad Ignazio di Antiochia, è stata escogitata, due secoli dopo, dagli amanuensi dell'XI secolo e da loro manoscritta nel "Codex Laurentianus Mediceus 57.7". Ma il colmo dell'assurdo si evidenzia con l'ignoranza, da parte di san Girolamo, che "il beato Onesimo", citato nella "Lettera a Filemone" di un mai esitito "Paolo di Tarso", era addirittura divenuto "Vescovo".
E' facile inventare màrtiri e santi, il problema si presenta quando si devono ricercare i "martirizzatori", nella documentazione storica reale, facendo attenzione a non incappare negli svarioni col rischio di non potersi più "liberare" dei finti beati e delle loro false reliquie ... come nel caso di sant'Ignazio di Antiochia:
"Ignazio, vescovo di Antiochia, santo, martire, i suoi resti sono, unitamente a quelli di S. Clemente I, nell’urna posta sotto l’altare maggiore di S. Clemente Papa al Laterano" (Reliquie Insigni e "Corpi Santi" a Roma).
Con questa ulteriore prova abbiamo accertato le modalità con cui "la tradizione apostolica" è stata creata artatamente dagli scribi di Dio i quali non si sono fatti alcuno scrupolo nello stilare "lettere" a nome di Santi e Apostoli, inventati da loro stessi, per comprovarne l'esistenza ... finendo, inevitabilmente, col contraddirsi.
In ultima analisi, il grande personaggio "obbligato" ad entrare (erroneamente) nella storia era "san Giovanni".
Giovanni apostolo, Policarpo di Smirne e Ireneo di Lione: una sacra triade inventata
Al fine di evidenziare il metodo adottato dagli amanuensi per "dimostrare" l'esistenza dei protagonisti cristiani foggiati da loro nel corso dei secoli, proviamo a seguire la fantasiosa ideazione del più famoso discepolo di san Giovanni: san Policarpo martire, già discepolo di Ignazio, consacrato Vescovo di Smirne nell'antica Provincia romana d'Asia (dopo che Tacito era passato a miglior vita) nientemeno che dal suo Primo Maestro apostolo Giovanni, "il Super discepolo prediletto di Gesù".
Policarpo, dal greco polys (molto) e karpos (frutto), da quanto desunto dai suoi scritti, nacque, non si sa da chi, nel 69 d.C. e, molti secoli dopo la sua morte, nel tardo medio evo, scrisse una lettera che gli permise di "testimoniare" l'esistenza di sant'Ignazio di Antiochia; il quale, a sua volta, fu "maestro" di Ireneo di Lione (Vescovo delle Chiese delle Gallie); quest'ultimo indicato come "fonte" di Policarpo per averlo menzionato (nel tardo medio evo) in "Adversus Haereses" (III 3,4) assieme a Papa Vittore.
Policarpo è citato anche da san Girolamo in "De viris illustribus" e da Eusebio di Cesarea (HEc. IV 15,1-43). Lo storico cristiano Eusebio, nel IV secolo, fu il primo inventore di san Policarpo e, a suo dire, possedeva una lettera "autentica" (mai vista da nessuno) della Diocesi di cui era capo il santo.
I più antichi testi del "De viris illustribus", fra cui il "Codex Ms 2 Q Neoeboracensis" (Eboracum: nome romano di York in Britannia), datati a fine IX secolo, nei quali tutti gli scribi vi hanno documentato che san Girolamo, nel 392 d.C. (mezzo secolo dopo Eusebio), riferì la vita di Policarpo descrivendone il martirio avvenuto oltre due secoli prima:
"Policarpo discepolo dell'apostolo Giovanni e da lui ordinato vescovo di Smirne a capo di tutti i cristiani d'Asia ... Successivamente, durante il regno di Marcus Antoninus e Lucius Aurelius Commodus, nella quarta persecuzione dopo Nerone, per ordine del Proconsole, in Smirne è stato bruciato mentre tutte le persone gridavano contro di lui nell'Anfiteatro" (op. cit. XVII).
Dunque un santo martirizzato alla vegliarda età di oltre 101 anni a Smirne, durante il principato di Marco Aurelio (Marcus Aurelius Antoninus Augustus diresse l'Impero dal 169 al 180 d.C.) e contemporaneamente, sotto l'imperatore Commodo (Lucius Aurelius Antoninus Commodus) in carica dal 180 al 192 d.C.
Oltre un secolo dopo la redazione di questi antichi manoscritti, altri amanuensi medievali hanno iniziato a trascrivere ex novo i codici (da noi già riferiti nel III e IV studio) della "Historia Ecclesiastica" di Eusebio di Cesarea ove lo storico vescovo "testimonia" la vita di Policarpo adducendo come "fonte" Ireneo di Lione ("Adversus Haereses" III 3,4).
Nel testo si riferisce di una "lettera della Chiesa di Smirne", spedita da quei fedeli subito dopo il supplizio del santo, quindi ricevuta un secolo e mezzo dopo da Eusebio ma, dopo averla letta, l'epistola andò "persa" ... secondo gli storici "illuminati": un pio alibi che smentiremo fra poco. Nella lettera è contenuta la narrazione, riportata in "Historia Ecclesiastica", lunga e minuziosa dello spettacolare martirio del vegliardo Policarpo, protetto da Dio, quindi invulnerabile alle fiamme del rogo che avrebbero dovuto arrostirlo: un potente "accidente divino" che costrinse il suo aguzzino a sopprimerlo con una "umile" pugnalata pagana per spedirlo, finalmente, in paradiso (è tutt'oggi beatificato come martire). Riferiamo il brano che narra l'avvenimento successo a Smirne nell'anfiteatro traboccante di folla:
"Gli addetti appiccarono il fuoco e, mentre divampava una grande fiamma, assistemmo ad un miracolo. Il fuoco, infatti, prese forma di volta, come una vela di nave gonfiata dal vento, e circondò il corpo del martire, che vi era in mezzo non come carne che bruciava, ma come oro e argento arroventato in una fornace. E noi sentimmo un odore acuto come il profumo d'incenso o di altri aromi preziosi. Quei malvagi, infine, vedendo che il fuoco non riusciva a consumare il suo corpo, ordinarono ad un confector (esecutore) di andare a conficcarvi una spada. Fatto questo, ne uscì una tale quantità di sangue che il fuoco si spense (sic!) e tutta la folla stupì di una così grande differenza tra i non credenti e gli eletti" (HEc. IV 15,36-39).
Non si capisce perché il popolo di Smirne non si sia convertito in massa alla fede cristiana, come gli "eletti", dopo aver visto nell'anfiteatro gremito il vegliardo Vescovo arroventarsi come oro e argento nella fornace, rimanendo illeso fino alla stoccata decisiva, per poi spegnere l'enorme vampata con il proprio sangue. Ma la presunzione degli scribi di Dio - nel macchinare penosi "riscontri incrociati" tramite lettere scritte secoli dopo a nome dei Santi inventati da loro - si è dimostrata del tutto incapace a basarli su dati storici concreti ... al punto di contraddirsi.
Infatti, la datazione del miracoloso martirio, diversamente dalla testimonianza di san Girolamo (citata sopra), in questo caso viene fatta risalire dagli amanuensi che trascrissero la "Historia Ecclesiastica" di Eusebio di Cesarea sotto Lucio Vero, co-imperatore assieme al fratellastro Marco Aurelio (dal 161 al 169 d.C., anno in cui morì Vero). Inoltre la vicenda descritta, di cui riportiamo solo gli stralci con i dati significativi, è inserita in una sceneggiatura più ricca di particolari ma del tutto diversa da quella del codice più antico, risalente al IX secolo, rispetto ai codici della "Historia Ecclesiastica" di Eusebio, datati posteriormente, in cui abbiamo appena letto che il santo, invulnerabile al rogo, viene ucciso con una spada. Tuttavia, una volta morto, gli amanuensi fanno intervenire un centurione che, stranamente senza problemi, brucia il cadavere consentendo ad altri Cristiani di raccoglierne le ossa.
E' necessario sapere che dal XII secolo iniziarono a funzionare i sacri tribunali delle inquisizioni, per legittimare supplizi e roghi, cui erano destinati gli eretici; pertanto, il beato Policarpo, non essendo eretico, non poteva essere consumato dalle fiamme dell'inferno. Ecco spiegato perché anche gli altri "colleghi" màrtiri, eliminati prima di lui nel corso della stessa persecuzione, non necessitarono di pira ardente:
Naturalmente, certe evidenze non sono, né saranno mai, palesate dagli esegeti "spirituali": loro scelgono altri percorsi "dimostrativi" arrampicandosi sullo specchio della Storia con le mirabolanti "ventose" del Credo. Vediamo come.
Il martirio di san Giovanni
Il grave “vuoto” storico, concernente le deposizioni su Giovanni da parte dei suoi “testimoni”, ad iniziare da Tertulliano, é stato fatto proprio, allo scopo di “colmarlo”, dalla dottoressa Ilaria Ramelli, laureata in Letteratura Classica e Filosofia nonché esperta filologa.
Nel duemila, anno del Grande Giubileo internazionale tenutosi a Roma sotto il papato del “Beato Karol Wojtyla il Grande”, stimolata dall'occasione, la grande studiosa Ilaria Ramelli - avvalendosi di una acuta analisi ispirata da una profonda “rivelazione divina” manifestata ad hoc per il grande evento - ha risolto il “caso” del martirio di san Giovanni ... e lo ha pubblicato.
“Oh, se avesse speso solo in queste sciocchezze la sua vita efferata! No, senza che nessuno lo punisse o mai si vendicasse, svuotò Roma di anime insigni, di uomini famosi. Solo quando cominciò ad averne terrore il popolo, cadde: questo gli fu fatale, mentre ancora grondava del sangue dei Lami”.
Tutto qui … per noi; gente comune che si limita a leggere e magari sorridere sul contenuto della satira indirizzata “post mortem” all'ultimo imperatore dei Flavii, Pontefice Massimo, inetto come condottiero, dispotico e facile nel decretare pene capitali.
La Satira IV di Giovenale ed il supplizio
Ilaria Ramelli
la cui descrizione inizia con queste parole:
“Si è probabilmente sottovalutato il valore specifico del curioso episodio del pesce che, incontestabilmente, costituisce il fulcro della satira” ... "è ben noto il valore cristoforo del pesce, in virtù dell'acrostico che risulta dal suo nome greco" e finisce: “Dunque, la tradizione raccolta da Tertulliano, Girolamo ed Ambrogio (?), oltre che dagli apocrifi, sulla presenza a Roma di Giovanni al tempo di Domiziano e sul suo supplizio acquisterebbe autorevolezza e peso storico” (sic!).
Da semplici cittadini, che paghiamo le tasse, non possiamo fare a meno di stupirci per come sia possibile che “studi” simili circolino nei nostri Atenei, avvalorati, per giunta, da giudizi fideistici di altri storici spiritualisti, grati l'un l'altro per il contributo intellettuale apportato.
Persone dotte, con o senza la tonaca, ignorano, volutamente, la datazione dei documenti manoscritti, essenziale per capire il “montaggio” evolutivo delle esistenze dei "Santi" mitizzati; tengono celate le contraddizioni riscontrate per impedire che altri evidenzino l'aspetto ridicolo e si allontanino dalla Fede. Loro unico scopo è fare “apostolato” sottoponendo i giovani ad un continuo lavaggio del cervello, senza alcuna alternativa critica, senza prove o dimostrazioni razionali, ma basato unicamente su un convincimento, ammantato di autorevolezza, spalleggiato dai mass media: persone colte che usano la conoscenza per impedire che altri sappiano.
Esiste un altro documento: il “Codex Bodleianus Baroccianus MS 182”, datato paleograficamente all'XI secolo, conservato nella Biblioteca Bodleiana di Oxford. In esso i copisti cristiani tardomedievali riportarono la "Chronographia" di Iohannes Malalas, uno storico cristiano originario di Antiochia vissuto nel VI secolo. Il codice, una delle fonti della vasta "Patrologia Greca", riporta l'opera di Malalas e in “Chronica X” (340 D) leggiamo:
“Sotto il regno di Domiziano avvenne una persecuzione di Cristiani: egli fece venire san Giovanni il Teologo a Roma e lo interrogò. Meravigliandosi della sapienza dell'Apostolo stava per farlo tornare di nascosto ad Efeso dicendogli: «Vai e sta in pace donde venisti». Ma fu rimproverato e lo confinò a Pathmos”.
Con i prossimi studi svolti negli argomenti specifici saremo in grado di provare che nel corso della secolare evoluzione mitologica del "Messia Gesù", i cosiddetti "apostoli" furono creati come "involucri teologali" continuatori del messaggio salvifico del mitico "Redentore" per impedire ogni tentativo di identificazione con i cinque figli di Giuda il Galileo. I primi quattro furono uccisi fra il 36 e il 48 d.C., mentre il più giovane fu eliminato dalle caste sacerdotali ebraiche nel 66 d.C., dopo che questi aveva sconfitto la guarnigione romana che presidiava Gerusalemme e, al contempo, come Cristo, si era proclamato Re dei Giudei.
San Giovanni, “il discepolo che Gesù amava”, é stato inventato dagli ideologi cristiani e fatto risultare, lui solo, fra tutti i discepoli, sotto la croce, per “dimostrare” che non poteva essere il Re dei Giudei giustiziato dai Romani sulla croce. Una presenza impossibile a qualunque persona perché in contrasto con la procedura per l'esecuzione della pena capitale pubblica dello Stato romano.
La vigilanza intorno alle persone crocefisse era praticata, per motivi di ordine pubblico, da un cordone di miliziani armati che impediva a chiunque avvicinarsi al condannato a morte, ad iniziare dai parenti e amici. In base alla prassi romana, alla vittima predestinata veniva appeso al collo un cartello con il nome e la motivazione della pena capitale.
Tramite le analisi, riferite nei successivi argomenti appositamente dedicati, dimostriamo che quello fu l'unico, autentico, supplizio di Giovanni il Nazireo (consacrato a Dio), capo degli Zeloti, che osò autoproclamarsi Re dei Giudei, nel 35 d.C., dopo aver liberato Gerusalemme la Santa dalla dominazione pagana mentre Roma era impegnata nella guerra contro la Parthia di Artabano III.
Dopo la avvenuta distruzione di Gerusalemme e del Tempio con l'olocausto ebraico del 70 d.C. ad opera di Tito, e ancora dopo la strage di Ebrei ordinata dall'Imperatore Adriano nel corso della guerra giudaica del 132-135 d.C., gli Esseni terapeuti di Alessandria, grazie ad una nuova “gnosi” divina ripresa dal “logos” ideato dal filosofo ebreo Filone Alessandrino, provarono a concepire una nuova figura di “Messia”: non più il "Figlio di Dio" “Dominatore del Mondo” come da loro scritto nel frammento dei roltoli di Qumran vicino al Mar Morto (rotolo "4Q246"), bensì un sofferente “Figlio di Dio” “Salvatore del Mondo”, capace di resuscitare i morti.
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