Un biblista non deve limitarsi a comparare la documentazione evangelica con le testimonianze dei Padri della Chiesa per scoprire le numerose contraddizioni riscontrate nei testi dottrinali ad oggi pervenuti, ma il metodo più proficuo, ai fini dell’accertamento delle verità o delle falsificazioni, è quello di confrontare tali scritti e verificarne la corrispondenza attraverso analisi critiche più avanzate. Avvalendoci di informazioni comprovate contenute nella storiografia, escludiamo, inderogabilmente, l'utilizzo di qualunque congettura o ipotesi per cercare di "spiegare" determinate vicende descritte nei vangeli. Solo un presuntuoso sprovveduto può biasimare i documenti neotestamentari, fondamento della dottrina cristiana da oltre 1700 anni, limitandosi ad inventare teorie paradossali su cui costruire futili "veritas" invece di basare le sue analisi su precise constatazioni di fatti realmente accaduti.
Per contro, anziché disquisire su cosa fecero o dissero Gesù, Apostoli e Maria Vergine - trattandosi di protagonisti oggetto di culto e descritti come autori di gesta, tanto mirabolanti quanto impossibili - primo dovere dei docenti di Storia del Cristianesimo è quello di accertare che siano esistiti realmente indagando sui personaggi noti dell'epoca che, secondo i vangeli e la patrologia, risultano aver interagito con i "prodigiosi" Santi. Personaggi potenti e famosi, uomini veri, pertanto rintracciabili nelle fonti trascritte, supportate da archeologia, filologia, epigrafi, numismatica.
La ricerca critica testuale può verificare se la narrazione dei rapporti, intercorsi fra i sacri interpreti della mitologia cristiana con le persone celebri di allora, si dimostra autentica, falsa o manomessa volutamente.
Tacito, Svetonio, Giuseppe Flavio, Cassio Dione, Plinio il Giovane, Esseni e Zeloti dei rotoli del Mar Morto, gli scribi patristici e molti altri, quando riportarono le cronache di allora, inconsapevolmente, hanno tramandato testimonianze, tali, che oggi permettono di ricostruire gli avvenimenti giudaici di duemila anni addietro e far luce sul vero messianismo (cristianesimo) primitivo del I secolo che dette origine, in epoca successiva, al mito di "Gesù Cristo".
Al fine di garantire la verificabilità, sarà quindi nostro compito fondamentale approfondire le indagini storiche basandoci unicamente sulle risultanze testuali delle citazioni neotestamentarie ed ecclesiatiche di provenienza diretta, nonché sulle constatazioni archeologiche, evitando le espressioni superflue ma preoccupandoci più della chiarezza che dell'eleganza, pur sapendo in anticipo che il nostro lavoro sarà incompleto ma già di per sé con esiti tali da essere attaccato dalla critica dogmatica con incessante violenza. Studi che, pur non essendo difficoltosi, tuttavia richiedono l'impegno necessario per essere assimilati compiutamente.
Previa l'esclusione di una enorme, quanto superflua, bibliografia celebrativa cristiana, la conoscenza diretta degli eventi lontani - tramite le fonti originali dell’epoca e la consultazione degli antichi Codici elaborati dagli amanuensi nel corso dei secoli - ci consente di procedere nella ricerca "dentro" un autentico apparato critico sino al punto di accertare la falsificazione di tutti gli “Atti del Sinedrio” di Gerusalemme (il Supremo Tribunale Giudaico) riportati nei Vangeli e negli “Atti degli Apostoli” (le gesta di "Gesù", “san Pietro”, “san Paolo”, “santo Stefano”, ecc.).
Ma l'analisi storiologica va oltre, essendo in grado di scoprire il movente delle mistificazioni, permettendoci di comprendere perché l’unico “Atto del Sinedrio” - a noi fatto pervenire nelle opere dello storico Giuseppe Flavio dalla morte di Erode il Grande sino al 66 d.C. - risulta essere solo quello di “Giacomo fratello di Gesù detto Cristo” ... rivelatosi manomesso dagli scribi cristiani, come proveremo negli studi seguenti.
Ancora, dagli “Atti” di un vero Sinedrio ebraico, mentre era in corso il “Processo a Gesù”, non sarebbe mai risultato che i Giudei scagliassero, contro se stessi e i propri figli, la maledizione eterna riportata nei Vangeli (Mt 27,25):
“E tutto il popolo rispose: il suo sangue (di Gesù) ricada sopra di noi e i nostri figli”.
Una cronaca descritta da amanuensi talmente catechizzati al punto da far decadere la veridicità del "processo a Gesù" ancor prima che potesse iniziarsi. Infatti, un eminente sacerdote ebreo come Giuseppe, discendente dai Re Asmonei per parte di madre e da Sommi Sacerdoti in linea paterna, così come tutti i Giudei di allora e di oggi, non avrebbe mai potuto riconoscere verosimile questo paradosso: gli Ebrei, dopo averlo osannato, fanno crocefiggere il proprio “Messia” divino e nel contempo si maledicono per l’eternità. L'evento, se per assurdo fosse accaduto, sarebbe stato di una tale gravità che lo storico sacerdote, ligio al proprio credo, l'avrebbe riferito nelle sue cronache, poiché, poco prima della distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C. ad opera del condottiero romano Tito (figlio dell'Imperatore Vespasiano), fu da lui autorizzato a recuperare gli Atti del Sinedrio e tutti i documenti conservati negli Archivi Pubblici (fatto che dimostreremo più avanti).
La mancata citazione di ulteriori Atti del Sinedrio, da parte dello storico, ci porta ad indagare sugli “Atti degli Apostoli” e sui Vangeli perché quanto viene riferito in questi manoscritti, in ultima analisi, avremmo dovuto trovarlo negli Atti di un vero Sinedrio e riportati dall'ebreo nel XVIII Libro delle sue “Antichità Giudaiche”: l'epoca di Gesù.
E’ grazie alla Storia che possiamo dimostrare l’insussistenza degli Apostoli, pertanto, apriamo il sacro testo, redatto dall’evangelista Luca che ne descrive le imprese miracolose, e diamo inizio al confronto tra il mito teologale della "Salvezza per la Vita Eterna" con ... il razionalismo storico.
Parte I
Atti degli Apostoli
Dopo l’ascensione in cielo di Gesù, gli Apostoli, rimasti nella Città Santa, danno inizio alla diffusione della dottrina predicata da Cristo. Sotto il portico di Salomone e nelle piazze, emulando il loro “Maestro”, si esibiscono in guarigioni straordinarie, esaltano il popolo e attirano le folle delle città vicine “che accorrevano, portando malati e persone tormentate da spiriti immondi e tutti venivano guariti”. Il Sommo Sacerdote e i Sadducei, “pieni di livore”, li fanno arrestare con l’accusa di “aver predicato in nome di costui” (Gesù Cristo) e, convocato il Sinedrio di Gerusalemme, il massimo Tribunale giudaico, avviano l’atto processuale minacciando di “metterli a morte” (At 5,12-33):
“Si alzò allora nel Sinedrio un fariseo, di nome Gamalièle, Dottore della legge, stimato presso tutto il popolo. Dato ordine di far uscire per un momento gli accusati, disse: «Uomini di Israele, badate bene a ciò che state per fare contro questi uomini (gli Apostoli). Qualche tempo fa venne Theudas, dicendo di essere qualcuno, e a lui si aggregarono circa quattrocento uomini. Ma fu ucciso, e quanti s’erano lasciati persuadere da lui si dispersero e finirono nel nulla. Dopo di lui sorse Giuda il Galileo, al tempo del censimento, e indusse molta gente a seguirlo, ma anch’egli perì e quanti s’erano lasciati persuadere da lui furono dispersi. Per quanto riguarda il caso presente, ecco ciò che vi dico: Non occupatevi di questi uomini e lasciateli andare. Se infatti questa teoria o attività (Cristianesimo) è di origine umana, verrà distrutta (come avvenuto a Theudas e Giuda il Galileo); ma se essa viene da Dio, non riuscirete a sconfiggerli; non vi accada di trovarvi a combattere contro Dio!». Seguirono il suo parere e li rimisero in libertà” (At 5,34-40).
Tutti i personaggi descritti nel brano sono realmente esistiti all’epoca, anche il sacerdote Gamalièle, il cui figlio diverrà Sommo Sacerdote del Tempio nel 63 d.C. (Ant. XX 213); ma, dopo attento esame, la prima considerazione da fare è che questo evento, se fosse veramente accaduto, si è verificato quando il Re dei Giudei, Erode Agrippa I, era ancora vivo nella sua reggia in Gerusalemme. Accertiamo dunque i fatti.
Precisamente, al momento del sermone di Gamalièle sono vivi tutti gli Apostoli e fra questi, oltre a Simone Pietro, anche Giacomo il Maggiore il quale, secondo l’evangelista (At 12,1), verrà ucciso dallo stesso Re Agrippa (che regnò sulla Giudea dal 41 al 44 d.C.) prima di essere eliminato, a sua volta, (nel 44 d.C.) da un "angelo del Signore" (At 12,23). Seguiamo ora gli eventi accaduti in Giudea, poco dopo la presunta "passione" di Gesù, e descritti da Giuseppe Flavio nei resoconti storici del Libro XX di “Antichità Giudaiche” (versi 97/102):
97. “Durante il periodo in cui Fado era Procuratore della Giudea (44-46 d.C.), un certo sobillatore di nome Theudas persuase la maggior parte della folla a prendere le proprie sostanze e a seguirlo fino al fiume Giordano. Affermava di essere un Profeta al cui comando il fiume si sarebbe diviso aprendo loro un facile transito. Con questa affermazione ingannò molti.
98. Fado però non permise loro di raccogliere il frutto della loro follia e inviò contro di essi uno squadrone di cavalleria che piombò inaspettatamente contro di essi uccidendone molti e facendone altri prigionieri; lo stesso Theudas fu catturato, gli mozzarono la testa e la portarono a Gerusalemme.
99. Questi furono gli eventi che accaddero ai Giudei nel periodo in cui era Procuratore Cuspio Fado (44 – 46 d.C.).
100. Il successore di Fado fu Tiberio Alessandro (Procuratore dal 46 al 48 d.C.), figlio di quell’Alessandro che era stato Alabarca in Alessandria.
101. Fu sotto l’amministrazione di Tiberio Alessandro che in Giudea avvenne una grave carestia durante la quale la Regina Elena comprò grano dall’Egitto con una grande quantità di denaro e lo distribuì ai bisognosi, come ho detto sopra.
102. Oltre a ciò, Giacomo e Simone, figli di Giuda Galileo, furono sottoposti a processo e per ordine di Alessandro vennero crocefissi; questi era il Giuda che - come ho spiegato sopra - aveva aizzato il popolo alla rivolta contro i Romani, mentre Quirinio faceva il censimento in Giudea”.
Tali avvenimenti, separati fra loro da due o tre anni, sono la prova che il sacerdote Gamalièle non ha mai potuto pronunciare nel Sinedrio il discorso a difesa degli Apostoli perché in quello stesso momento il Profeta “Theudas” era vivo. Infatti, facendo attenzione alle date, seguiamo la storia di Giuseppe Flavio:
- nel 44 d.C. muore Re Erode Agrippa I ma, essendo il figlio troppo giovane per governare un Protettorato romano, l’Imperatore Claudio decide di ricostituire la Provincia di Giudea, Samaria, Idumea, Galilea e Perea; pertanto …
- nel 44 d.C. fa subentrare ad Erode Agrippa, come Governatore della Provincia, il Procuratore Cuspio Fado che (dopo il Re defunto) durante il suo incarico (44-46 d.C.) fa uccidere “Theudas”, la cui testa viene portata ed esibita in Gerusalemme come monito rivolto a chiunque volesse seguire il suo esempio (Ant. XX 97-98);
- nel 46 d.C. il Procuratore Tiberio Alessandro sostituisce Cuspio Fado e, nel corso del suo mandato (46/48 d.C.), dopo un processo, dà l’ordine di crocifiggere Giacomo e Simone (Ant. XX 102), due figli di "Giuda il Galileo", quest'ultimo fondatore, il 6 d.C., e capo del Movimento Nazionalista Giudaico anti romano.
Pertanto, all’interno del Sinedrio convocato in seduta deliberante per decidere sulla sorte dei “dodici Apostoli”, da quanto abbiamo letto in “Atti”, come ha potuto l’evangelista Luca far dire a Gamalièle che “Theudas” era già morto quando Erode Agrippa era ancora vivo ... e Cuspio Fado (che avrebbe poi ucciso Theudas), non era ancora subentrato ad Agrippa?
Noi abbiamo constatato, semplicemente, che quel discorso era falso: Gamalièle non poté farlo perché Re Erode Agrippa e “Theudas” erano ancora vivi entrambi. Fu scritto, in epoca successiva ai fatti reali, da uno scriba cristiano con lo pseudonimo “Luca” che lo mise in bocca a Gamalièle, importante membro del Sinedrio vissuto realmente, per discolpare, in un processo del Tribunale giudaico, gli Apostoli arrestati (fra cui Simone e Giacomo), dall’accusa di istigazione uguale a quella di Theudas, Giuda il Galileo e i suoi figli Giacomo e Simone; accusa che comportava la pena di morte da parte dei Romani. Ma, poiché il discorso era (ed è) una assurdità è evidente che non fu fatto, pertanto era falso sia l’arresto che l’assoluzione, perciò, a quella data, nessuno degli Apostoli era stato arrestato.
Al contrario, al verso 102, come sopra abbiamo letto in “Antichità”, sia Giacomo che Simone, figli di Giuda il Galileo, vennero catturati per essere “sottoposti a processo” e poi giustiziati: dunque furono giudicati colpevoli e non più latitanti (nel 46/48 d.C., dopo la morte di Re Erode Agrippa).
Diversamente a quanto evidenziavano le vicende concrete, il vero scopo di san Luca era far apparire ai posteri che il Sinedrio aveva assolto gli “Apostoli”, fra cui Giacomo e Simone, dall’accusa, così come articolata in ipotesi dal sinedrista Gamalièle, di essere equiparati ai Profeti rivoluzionari quali, Giuda il Galileo, i suoi figli Giacomo e Simone, e il Profeta Theudas. Imputazione, come abbiamo visto, fatta "smontare" da un ignaro Gamalièle il quale, nella realtà, non avrebbe potuto prevedere la morte improvvisa di Re Agrippa I, né l'incarico del Procuratore Cuspio Fado, né che questi avrebbe poi ucciso Theudas.
Tale “Atto del Sinedrio”, inventato e riportato in “Atti degli Apostoli”, convocato mentre Erode Agrippa era ancora vivo, è una falsificazione mirata a fugare ogni dubbio sulla condotta zelota degli “Apostoli”, dissociandoli dai sobillatori Theudas e Giuda il Galileo, e ad introdurre l’altra menzogna correlata alla persecuzione dei successori di Cristo da parte di Agrippa: la “fuga” dal carcere di Simone Pietro per l'intervento di un angelo di Dio (sic! At 12,7) nonché l’uccisione di Giacomo, falsamente addebitata al Re da “l’evangelista” impostore.
Risultato: un falso Atto del Sinedrio non poteva che essere nullo, pertanto la sua datazione e il suo scopo erano e sono nulli. Ne consegue che introdurre in “Atti degli Apostoli” un finto Atto del Sinedrio di Gerusalemme, il Supremo Consiglio del Sommo Sacerdote del Tempio, con funzioni giudiziarie e amministrative (pur se asservito al potere imperiale di Roma), operante nel I secolo, è un reato di cui si deve rispondere davanti alla storia.
Luca non si sbagliò ma si vide costretto ad inventare questo "Atto del Sinedrio" perché voleva impedire la identificazione di un apostolo con lo stesso nome di uno dei fratelli di Gesù. Inoltre doveva nascondere la relazione che intercorreva fra gli altri apostoli (con l'identico appellativo dei restanti fratelli di Cristo) e Giuda il Galileo, un famoso capo della rivolta popolare giudaica iniziatasi il 6 d.C. contro la dominazione di Roma. A tale scopo citò Gamalièle, un noto fariseo Dottore della Legge (ricordato più volte da Giuseppe Flavio ma defunto molte generazioni prima dello scriba "lucano"), per fargli testimoniare il falso sia su Theudas che su Giuda il Galileo, facendo risultare che quest'ultimo morì prima del Profeta - grazie all'affermazione riferita nel brano descritto "dopo di lui (Theudas) sorse Giuda" - col preciso intento di impedire a chiunque di sapere che il Profeta era uno dei figli rivoluzionari di Giuda, il capo degli Zeloti ormai morto da tempo, e infine comprendere il vincolo parentale, con il dirompente nesso, derivante dalla corrispondenza tra i nomi dei fratelli di Gesù e quelli dei figli del Capo degli Zeloti.
Oltre a fungere da "testimonianza", fu spacciato per vero un "giudizio" di assoluzione emesso nel corso di un "processo", istruito appositamente nell'ambito del Sinedrio, poichè lo scriba redattore di "Atti" aveva letto "Antichità Giudaiche" di Giuseppe Flavio ed al verso 102, come abbiamo visto sopra, é riferito che "Giacomo e Simone, figli di Giuda il Galileo, furono sottoposti a processo".
Pertanto, l'astuto evangelista celebrò un finto "contro processo" apposta per diversificare gli eventi ed impedirne la sovrapposizione grazie alla "assoluzione" degli apostoli Giacomo e Simone; in contrasto agli omonimi Zeloti, Giacomo e Simone, i quali, viceversa, furono condannati alla crocefissione. Lo scriba cristiano, infatti, sapeva che entrambi gli apostoli erano anch'essi "Zeloti" ... e fra poco lo verificheremo anche noi.
Ma procediamo per gradi e ritorniamo al testo di Giuseppe Flavio sopra riportato di (Ant. XX 97/102) sottoponendolo ad una analisi filologica. Notiamo che "Giacomo e Simone, figli di Giuda il Galileo", erano due veri appellativi giudaici completi del patronimico, obbligatorio secondo l'usanza di quel popolo, mentre "Theudas" non era un nome bensì un attributo che nel greco antico (koiné) voleva dire “Luce di Dio”.
Esso rende l’idea di una traduzione corretta dall'aramaico (Giuseppe scrisse le sue opere in tale idioma poi ne curò la versione in greco) ma non è accompagnato dal nome proprio né da quello del padre quindi non identificabile come dato storico da tramandare ai posteri; pur essendo evidente che si trattava di una persona importantissima se i Romani portarono la sua testa, nientemeno, dal fiume Giordano sino a Gerusalemme per esibirla alla popolazione come mònito. L’anomalia di questo attributo senza nome e senza patronimico è condivisa sia in “Atti degli Apostoli” (lo abbiamo visto col discorso di Gamalièle) che dal Vescovo Eusebio di Cesarea (IV sec. d.C.), il quale, unico storico oltre all'ebreo, riporta l'episodio esattamente come lo abbiamo letto sopra nella sua “Historia Ecclesiastica” (Libro II 11, 1-3) identificando il Theudas di "Atti" con quello di "Antichità"; e questo importante dato, già da solo, ci consente di accertare chi fu il primo falsario cristiano a capire quanto fosse dirompente per la sua dottrina il vero nome di Theudas.
Grazie alla carica di rilievo e all’influenza che esercitò sull’Imperatore Costantino e la sua Corte, Eusebio fu il primo cristiano ad aver la possibilità di accedere agli Archivi Imperiali e visionare gli scritti di Giuseppe Flavio reinterpretandoli nella sua "Historia" allo scopo di impedire l'identificazione dei veri protagonisti evangelici.
Fra le centinaia di appellativi giudaici dell'epoca, con il patronimico aggiunto obbligatoriamente al nome proprio per identificare le persone, l'unico da eliminarsi era quello di Giuda il Galileo. Qualsiasi altro sarebbe stato lasciato nella cronaca ... tranne quello del fondatore, il 6 d.C., della "quarta filosofia zelota" (così la chiamò lo storico), nazionalista rivoluzionaria, che propugnava l'uso della forza per liberare la terra d'Israele dall'occupazione romana ed eliminare le caste sacerdotali, opportuniste corrotte, così come quelle dei ricchi privilegiati ebrei.
I copisti amanuensi cristiani non potevano lasciare intatte, in un documento storico, descrizioni di vicende che, una dopo l'altra, vedevano come protagonisti tre uomini, giustiziati dai Governatori imperiali, con i nomi corrispondenti a quelli di tre fratelli di Gesù (stiamo per verificarlo), per di più risultanti figli di colui che fu Capo degli Zeloti; ergo fecero
passare il titolo "Theudas" come se fosse un nome, dopo aver cancellato quello vero, ma, senza rendersene conto, firmarono la contraffazione con le proprie mani quando scrissero "sobillatore di nome Theudas"* nel testo originale greco. Basta rileggere i brani storici su riportati per verificare che l'ebreo Giuseppe Flavio ha citato i diversi protagonisti direttamente col rispettivo appellativo, senza mai specificare "di nome": sarebbe stato superfluo in quanto già "nomi". La necessità di evidenziare una qualifica come "nome" dipese proprio dal fatto che non lo era.
* Il lemma originale giudaico, che Giuseppe Flavio tradusse in greco con "Luce di Dio", era scritto "Uriel" יאֵאוּרִל
Ecco perchè l’evangelista sapeva che il nome del “Profeta Theudas” era “Giuda”, ma in “Atti” lo chiamò “qualcuno” per evitare che l’attributo “Profeta” potesse essere collegato ad “Apostolo”. Allora diamo un’occhiata agli “Apostoli”.
Nominativi e qualifiche degli Apostoli nei vangeli canonici
" Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, Ioses (Giuseppe), di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui con noi?” (Mc 6,3);
“Non è forse il figlio del carpentiere? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte fra noi?” (Mt 13,55-56).
Sono tutti nomi di stretta tradizione giudaica ai quali manca “Giovanni” (uno dei "Boanerghès"), indicato con “costui” perché, come stiamo per rilevare, è lui il soggetto di cui parlano i Giudei. Se fosse stato un qualsiasi ebreo di nome “Gesù” (Yeshùa) lo avrebbero chiamato in questo modo, senza problemi, come per i suoi fratelli; inoltre, violazione gravissima al costume giudaico, non viene identificato con il patronimico bensì col nome della madre: è evidente che, oltre il Suo, non doveva risultare neanche il nome del padre. Se i passi di “Marco” e “Matteo” li avesse scritti un vero testimone ebreo avrebbe riferito così:
“Non è Gesù, figlio di (bar) Giuseppe il carpentiere, il fratello di Giacomo, Giuseppe, di Giuda e di Simone?”.
Come sopra abbiamo visto, Giuda il Galileo era padre di Simone e Giacomo ma, essendo quest'ultimo fratello di Giuda Thaddaeus (vedi tabella), ovvero Giuda Theudas, ciò significa che Giuda il Galileo era anche suo padre.
Poiché Giuda il Galileo fu capo degli Zeloti, il movimento ebraico estremista violento, gli evangelisti hanno dovuto individuare i fratelli di Gesù con il matronimico anziché col vero nome del genitore.
Lo scriba cristiano, altrònde, non poteva far nominare “Gesù” ai Giudei in quanto "Yeshùa" (Colui che salva) è inteso nei vangeli come "Salvatore Divino" voluto da Dio (Mt 1,21), quindi non riconosciuto da Ebrei ancora in "Attesa" del loro Messia Salvatore, al contrario degli evangelisti che hanno creduto nel Suo "Avvento" in epoca storica successiva. Invero, se fosse stato il "Gesù Cristo" mirabile, come ci è stato inculcato oggi, i suoi paesani non l'avrebbero certo indicato come un semplice "carpentiere". Infine, il primo a non chiamarsi mai "Gesù" fu proprio Lui: in nessun vangelo Cristo afferma di chiamarsi "Gesù", ecco perchè non poteva essere il Suo vero nome (la analisi sul doppio significato del nome "Gesù" è pubblicata nel XIII argomento).
E' doveroso evidenziare che nel "Novum Testamentum Graece et Latine", A. Merk - Roma - Pontificio Istituto Biblico, anno 1933, in una nota a fondo pagina, il curatore, sacerdote gesuita Agostino Merk, riferì che alcuni codici latini - classificati, D R (Epm E Q) ed altri greci classificati, S D 565 1424 1207 MUss 472 280 Ass Vr , risalenti al IX secolo - nel brano ora citato di Matteo (Mt 13,55-56) tra i fratelli, figli di Maria, è presente anche "Iohannes" "Iωαννης" (Giovanni). Tali codici, da secoli utilizzati per indottrinare i popoli europei, sono stati contrassegnati con un asterisco (*) a significare che "non sono attendibili". Ecco perché.
I lettori si saranno già resi conto del motivo per cui gli ecclesiatici, vere eminenze grigie nascoste, furono costretti a fare una cernita fra i manoscritti per eliminare quelli che includevano Giovanni dall'insieme dei figli di Maria. Gli esegeti avevano scoperto che bastava sottrarre dal totale dei figli di Maria, (5 più Gesù) riferito nei codici "non attendibili" di Matteo, l'insieme dei fratelli (4 più Gesù) citati nel vangelo di Marco (che indica "Gesù" con "costui"), per capire che "Gesù" era in soprannumero. Gli scribi cristiani del vangelo di Matteo sapevano che Giovanni era uno dei figli di Maria in base alla lettura del vangelo di Giovanni:
Al fine di impedire l'identificazione di Giovanni con "Gesù", gli amanuensi decisero di depistare i credenti dando alla madre di Giovanni il nome composto "Maria Salome", laddove "Salome" è derivato dall'ebraico "Shalom" che significa "pace"; a questo punto non restava che assegnare a Giovanni un nuovo padre chiamato "Zebedeo" ed un solo fratello: Giacomo. Così facendo gli scribi separarono volutamente il significativo e pericoloso insieme dei fratelli ma, di "Giacomo", fra gli apostoli, ve ne sono due: Giacomo il Maggiore e Giacomo il Minore.
Il problema, ancora irrisolto per la Chiesa, riguarda la fine di Giacomo il Minore, il martirio del quale non è riportato in "Atti"; un aspetto gravissimo che depone a sfavore delle testimonianze di tutti gli evangelisti i quali avrebbero dovuto distinguerli ... se fossero esistiti due "Giacomo".
Come attestato da Eusebio di Cesarea, il vangelo originale di Matteo era scritto in aramaico e, fra i tanti vangeli di "Matteo" tradotti in greco, la decisione di scartare quelli che, ancora oggi, contengono l'informazione completa sulla totalità dei fratelli - figli di Maria e moglie di un "carpentiere" non identificabile - fu ed è un'azione mirata ad impedire la conoscenza di fatti realmente accaduti che vedevano Zeloti, con i medesimi nomi dei fratelli di "Gesù", agire nella stessa epoca contro il dominio pagano di Roma sulla terra di Israele.
Bisognava evitare il rischio che qualche storico curioso facesse ricerche pervenendo a risultati definitivi tanto veritieri quanto pericolosi per la dottrina cristiana, derivata da quella giudeo messianica riformata, poiché gli esegeti del Clero sapevano, e sanno, quali erano le testimonianze riferite nella storia: le stesse che, ancora oggi, siamo in grado di rinvenire progredendo negli studi avvalendoci della stessa metodologia applicata a Theudas.
Parte III
L'unico "apoistolo" col nome di autentica tradizione giudaica, non appartenente alla cerchia dei fratelli, è Matteo. Esso viene chiamato anche Levi, con un impossibile doppio nome ebreo, indicato come “Pubblicano” e designato a testimoniare dal vero le vicende di Cristo sin dalla nascita. Ma nella tabella notiamo che "Matteo Levi" non esiste nel vangelo di Giovanni: é impossibile, non ha senso. Se fosse stato uno dei “dodici apostoli” avrebbe dovuto riferirlo anche "Giovanni", a maggior ragione poiché gli scribi cristiani li fanno apparire entrambi "colleghi" redattori di vangeli.
Nel vangelo di Matteo (lui stesso) si dichiara “Pubblicano”: altra assurdità. I Pubblicani erano gli esattori che riscuotevano i tributi dovuti all’Imperatore previa effettuazione di un censimento, pertanto, gli altri “apostoli” Zeloti e sicari, aderenti alla “quarta filosofia zelota contro la tassazione di Roma” lo avrebbero ucciso senza ripensamenti essendo un nemico ideologico da eliminare, come postulato dallo stesso Giuda il Galileo quando capeggiò la guerra contro il censimento decretato da Cesare Augusto:
“Giuda si gettò nel partito della ribellione gridando che «questo censimento mirava a mettere in totale servitù» e incitava la Nazione ad un tentativo di indipendenza. I fanatici nazionalisti (gli Zeloti) «...non indietreggeranno di fronte allo spargimento di sangue che potrà essere necessario, e la Divinità (Yahweh) ne avrebbe favorito l'impresa fino al successo»” (Ant. XVIII 5,6).
Matteo è un falso protagonista. L'evangelista cristiano che ideò quel nome, molto tempo dopo i fatti descritti, operò al solo scopo di rendere più credibile la propria "testimonianza" facendolo apparire un attore ebreo di quelle vicende.
Gli esegeti cristiani lo hanno fatto nascere a Cafàrnao (vedi "Udienza Generale" del 30 agosto 2006 di Benedetto XVI) ma, inconsapevoli delle risultanze storiche, hanno commesso il grave errore di insediare in quel villaggio l'apostolo "Matteo Levi" come Pubblicano, esattore incaricato per la riscossione dei tributi per conto di Roma, mentre, in realtà, la responsabilità di tale incombenza era delegata direttamente ad Erode Antipa il quale, essendo la sua Tetrarchia considerata un Protettorato romano, operava in piena autonomia come suo padre Erode il Grande. Antipa era tenuto a versare all'Imperatore Tiberio un tributo annuo fisso di duecento talenti d'oro (Ant. Giu. XVII 318), mentre l'apparato amministrativo delle riscossioni risiedeva nella capitale della Galilea: Tiberiade.
In realtà, il redattore di questo vangelo in greco, ripreso da un vangelo primitivo originale che fu tradotto, non poteva essere un giudeo, padrone dell’aramaico, perché non comprese il significato di “cananeo” e lo trascrisse in forma ellenizzata riferito a “Simone” ("qanana" in aramaico). L’accostamento prospettico, nella tabella, con "Simone Zelota" del vangelo di Luca non lascia dubbi.
Il
vangelo di “Giovanni” riporta “Iscariota”, ma Giuseppe Flavio, in
“Guerra Giudaica” riferisce, approfonditamente, nel cap. 8° del VII
libro (par. 253/255), attraverso un ricordo lontano nel tempo, che i Sicari erano il braccio armato degli Zeloti, i seguaci della “quarta filosofia” fondata da Giuda il Galileo, ed agivano contro i propri connazionali filo romani a partire dal 6 d.C.
Che lo scriba evangelista con lo pseudonimo “Matteo” non sia stato un ebreo, né mai vissuto in Giudea, è dimostrato in altri molteplici passaggi del suo Vangelo, ad iniziare da quello riguardante l’insieme dei fratelli di “Gesù” indicati col nome della madre anziché col patronimico,come imponeva l'usanza giudaica; inoltre, sulla “Natività” (come verifichiamo nel successivo studio), dimostra di non conoscere i luoghi, la storia giudaica dell’epoca di Cristo e l’Antico Testamento, cadendo, peraltro, in contraddizione grave con la sua qualifica di funzionario esattore “Pubblicano”. Ad esempio, in riferimento al suicidio di Giuda il traditore, riportiamo il grave errore commesso da un impossibile testimone ebreo "Matteo":
“Perciò quel campo fu chiamato «Campo di sangue» fino al giorno d'oggi. Allora si adempì quanto era stato detto dal profeta Geremia: e presero trenta denari d’argento, il prezzo del venduto, che i figli d’Israele avevano mercanteggiato, e li diedero per il campo del vasaio, come mi aveva ordinato il Signore” (Mt 27,9).
Un vero ebreo non avrebbe mai citato l'adempimento di un vaticinio che il Profeta Geremia non ha mai espresso.
Giuda detto Theudas era un Profeta “sobillatore” (rivoluzionario), fratello di Giacomo, a sua volta fratello di Simone il quale, insieme a Giovanni e Giuseppe (l’ultimo), costituiscono la cerchia di fratelli evangelici tutti con nomi di tradizione giudaica. Solo questi nomi, autenticamente ebraici - dalla lettura del “Novum Testamentum” A. Merk S.I., Roma, Pontificio Ist. Biblico, Anno 1933; e, “Novum Testamentum” H. Kaine, Paris, Edit. Ambrogio F. Didot, Anno 1861 – risultano accompagnati da qualifiche e attributi, quindi da atti, conformi allo stesso Profeta “sobillatore” Giuda Theudas ucciso da Cuspio Fado nel 45 d.C.:
“Zeloti” che, dall’interpretazione in greco di Giuseppe Flavio, indica i “fanatici nazionalisti”; “barionà”, in aramaico, vuol dire “latitante fuorilegge”; “Iskarioth” forma omofona grecizzata del latino "sicarius" da cui "sicariota", l'attentatore armato di "sica", un lungo pugnale ricurvo in uso all'epoca e in coerenza con l'ebraico "ekariot" che sta per "sicario"; “boanerghès”*, significa “figli dell'ira” o “figli della collera”; “cananeo” da “qanana” in aramaico, equivalente a “zelota”, e “galilei”, come “fuorilegge”.
Erano tutti figli di Giuda, ideatore dello zelotismo antiromano, detto “il Galileo”.
* L’amanuense cristiano, con lo pseudonimo di “Giovanni detto anche Marco” - che trascrisse in greco un vangelo aramaico primitivo - nel versetto (Mc 3,17) riportò il vocabolo “βοανῆργε'ς” (leggi “Boanerghès”) e lo tradusse con la espressione “Υἱòι βροντῆς" (leggi “Uiòi Brontés”) che vuol dire “Figli del Tuono”. Egli intese, volutamente, documentare la voce come se quel concetto fosse testimoniato da un cittadino ellenico dell’epoca.
E’ oggi accertato che nessun greco di allora avrebbe mai detto o scritto “βοανῆργε'ς” (Boanerghès) per significare “Figli del Tuono” ma si sarebbe limitato a dire o scrivere “Υἱòι βροντῆς“ (“Uiòi Brontés”).
Infatti, in tutta la letteratura greca classica, “βοανῆργε'ς”, citato nel vangelo, è l’unico caso ove ricorre tale vocabolo; ne consegue che la parola non può avvalersi di alcuna etimologia, pur se scritta in tale lingua, ed è quanto risulta nei vocabolari.
In realtà la fonetica è di origine ebraica, non greca, e il suo etimo lo ritroviamo in due sezioni del lemma: il primo, “boan e”, un modo di “bèn e” che significa “figli di”; il secondo, “rghès” la cui radice semitica indica “ira”.
In ebraico antico, la lingua usata dai Dottori della Legge (Rabbini), בנירגש "benerghèsh" significa "figli dell'ira". Pertanto “βοανῆργε'ς” (“Boanerghès”) vuol dire “Figli dell’ira”. L'unica "ira" cui richiamarsi nella società teocratica israelita, con la Terra Santa profanata dai pagani, era "L'Ira di Yahweh", il Padre (Abba) del "popolo eletto" i cui figli prediletti, discendenti di Davide, non potevano che essere gli Zeloti.
Dunque la proposizione “Figli del Tuono”, secondo il progetto dello scriba cristiano che lo riferì, esprime un concetto riduttivo e fuorviante rispetto all’originale vocabolo ebraico il quale, effettivamente, rivela il medesimo intento ribelle nazionalista degli altri fratelli Zeloti.
Troviamo infine conferma, al brano di Marco appena citato, nel vangelo di Luca (Lc 9,53) ove Giovanni e Giacomo, i fratelli apostoli “Boanerghés”, intendono incendiare un villaggio della Samaria ma … vengono fermati da “Gesù”; nel contempo la storia ci insegna che i Giudei erano nemici dei Samaritani e in guerra tra loro, all’epoca di Cristo.
E’ d’obbligo evidenziare che tali qualifiche rivoluzionarie sono riferite solo ad “apostoli fratelli” che hanno lo stesso nome, di stretta osservanza giudaica, dei fratelli di "Gesù". Al contrario, gli apostoli con nomi greci, senza alcuna designazione ribelle, vengono tutti cancellati dalla storia come dimostriamo ad iniziare da "Filippo" nello studio successivo su "Paolo di Tarso": entrambi inventati.
Gli appellativi escogitati successivamente, tutt'oggi in uso, sono serviti, attraverso contraffazioni delle traduzioni nelle varie lingue e la manipolazione dei termini originali, sia a celare le vere identità dei fratelli Zeloti dietro "santi apostoli", sia a "replicarli" fino a raggiungere il numero, significativo giudaico, di "Dodici", come fecero dichiarare a Cristo nel vangelo:
"Siederete anche voi (gli apostoli) su dodici troni a giudicare le dodici tribù d'Israele" (Mt 19,28).
In particolare troviamo replicati: Simone detto "Pietro il Galileo" con Simone lo Zelota o il Cananeo (alcuni manoscritti riportano "Cananite"); Giacomo il Maggiore con Giacomo il Minore (quest'ultimo, alter ego del primo, viene cancellato dalla storia come provato nel successivo studio); Giuda detto Thaddaeus (traduzione latina volutamente fuorviante di Theudas) con Giuda detto Thomà (san Tommaso) e con Giuda Iskarioth (sicariota), qualifica grecizzata del latino attentatore assassino "sicarius". A questo punto i lettori si saranno accorti che la sovrapposizione di "Giuda Iscariota" con "Giuda non Iscariota" cancella il famoso "bacio di Giuda", divenuto simbolo infamante dell'inganno più abbiètto nel mondo cristiano.
Oltre a quanto sopra rilevato (dopo la tabella) sulle contradditorie parentele di Giuda, leggiamo cosa dicono i vangeli in merito all'apostolo rinnegato dopo che questi aveva tradito "Nostro Signore Gesù" per trenta denari.
In Atti (1,18) il "testimone oculare" san Pietro riferisce un episodio raccapricciante:
"Giuda comprò un pezzo di terra con i proventi del suo delitto poi, precipitando in avanti, si squarciò in mezzo e si sparsero fuori tutte le viscere".
L'altro apostolo, "testimone oculare" anche lui, Matteo, invece, così la racconta:
"Giuda, gettate le monete d'argento nel Tempio, si allontanò ed andò ad impiccarsi" (Mt 27,5).
Mentre san Paolo, nella I Lettera ai Corinzi (15,4-5), ci informa che:
"Cristo fu sepolto e resuscitato, il terzo giorno apparve a Cefa (Kefaz, san Pietro) e ai dodici apostoli".
Essendo "dodici" vuol dire che fra essi era presente anche Giuda "il traditore" sempre vivo, infatti, questo apostolo, all'evangelista Giovanni non risulta che si sia suicidato.
E' evidente che tali incompatibili deposizioni non hanno alcun valore probatorio se non dimostrare la montatura di un "apostolo", sfruttata, peraltro, con fini ideologici legati a un nome che identificava l'odiata etnia giudaica accusata di aver ucciso "Gesù" senza averlo riconosciuto come proprio Messia Salvatore.
Alcuni esegeti clericali, consapevoli di questa assurdità evangelica, provano a rimediare ricorrendo a ipotetiche, personali, "rivelazioni divine" per tentare di giustificare le contraddizioni connesse a questa morte immaginaria (destino macabro teatrale o semplice suicidio?; proprietario terriero o nullatenente?) ... sino a reinterpretare le "Sacre Scritture", modificandole di fatto.
In realtà, come già dimostrato sopra, il vero Giuda, autentico zelota sicario, fu ucciso da Cuspio Fado.
Escludendo gli apostoli replicati, i nomi di stretta osservanza ebraica, riportati come fratelli, sono:
Giovanni, Giuda, Simone, Giacomo, e Giuseppe. Ad iniziare da Giovanni, uno dopo l'altro furono giustiziati dai Romani come martiri irredentisti, tranne l'ultimo, Giuseppe, troppo giovane all'epoca per militare come capo Zelota sicario.
In contrasto furono aggiunti apostoli con appellativi derivati da aggettivi come san "Bartolomeo", nome inesistente in greco e latino nel I secolo, il quale, separato dall'usueto "bar" aramaico biblico, diventa "bar tolomeo" che vuol dire "figlio di Tolomeo". Poichè Tolomeo era un nome greco che significava "Valoroso", adottato da alcuni sovrani egizi ellenizzati, quindi "Bartolomeo" significa "Figlio del Valoroso", ma ... un apostolo che non viene testimoniato nel vangelo del suo "collega apostolo" Giovanni è un vuoto, talmente vistoso e banale, più che sufficiente a dimostrarne l'inesistenza.
Altro apostolo, semplice aggettivo - citato in "Atti degli Apostoli" ma poi dimenticato e lasciato senza gesta che ne attestino l'esistenza - è Andrea, dall'epiteto greco "andreas" che vuol dire "vigoroso", una caratteristica di Simone a lui "affratellata" così: "vigoroso, fratello di Simone"; o, ancora, san Tommaso, dall'aramaico "thomà" che significa "gemello", o dal greco "didymos" anch'esso equivalente a "gemello", sino al punto di escogitare uno strano sostantivo composto da due aggettivi in due lingue diverse con le iniziali maiuscole "Tommaso detto anche Didimo" (Gv 11,16) che vuol dire "Gemello detto anche Gemello", privo di significato e ... molto buffo. Un nome così insensato non poteva appartenere a nessuno sulla faccia della terra; è solo un errore commesso da uno stupido scriba intento a manipolare la traduzione in greco di un testo senza essere padrone dell'aramaico e, non essendo egli neanche giudeo, non poteva sapere che nessun ebreo della Palestina adottava come nome "thomà" essendo un aggettivo qualificativo. Oltre a ciò, questo "apostolo" fuoriesce dalla storia anche perché, dal vangelo letto da Eusebio di Cesarea risulta che Giuda e Tommaso ("Thomà" in aramaico) sono la stessa persona:
"«Dopo l'ascensione di Gesù, Giuda, detto anche Tomaso, mandò ad Abgar l'Apostolo Thaddaeus»" (HEc. I 13,11).
Poiché la sovrapposizione Giuda-Tommaso cancella un apostolo, nella tabella ne rimarrebbero undici: fatto assurdo. Questa è la prova evidente che i vangeli furono ulteriormente modificati dopo Eusebio di Cesarea, ma noi abbiamo dimostrato sopra che Thaddaeus, in realtà, era Giuda Theudas. Si trattava di un sedicente Profeta zelota con due titoli aggiunti ("Profeta" e "Luce di Dio") al vero appellativo semita: Giuda. La dottrina cristiana non poteva ammettere la violenta genesi zelota ebraica dei fratelli di Cristo senza coinvolgere anche Lui, pertanto questi furono celati nel "mucchio" di "Dodici Apostoli" dei quali alcuni nomi risultano consueti attributi aramaici traslati scorrettamente in lingua greca. Semplici aggettivi che, col trascorrere dei secoli, grazie all'ignoranza dei fedeli sul vero significato originario, furono accettati e adottati come nomi di persone.
Nella tabella degli apostoli, il solo vangelo di Giovanni, riporta "Natanaele" che in semitico "celestiale" voleva dire "Dono di Dio": non era un appellativo usato dal popolo ebraico nel I secolo. Era un antico attributo biblico fatto passare per nome, a conferma, come già riferito, che gli scribi cristiani redattori dei vangeli non erano Giudei.
Ovviamente, l'inesistente Natanaele viene ignorato dagli altri evangelisti mentre "Giovanni" riferisce che Natanaele riceve l'annuncio dell'Avvento di Gesù Cristo da parte di Filippo (Gv 1,45) ... ma, nello studio successivo su "Paolo di Tarso", dimostriamo, storia alla mano, che l'apostolo Filippo non è mai esistito, di conseguenza anche Natanaele è una finzione...come gli altri "Apostoli".
Una invenzione scollegata fra gli stessi evangelisti ed estremamente imbarazzante per la Chiesa al punto che, senza alcuna base o riferimento storico, evangelico, filologico, i Suoi esegeti azzardano che "Natanaele (Dono di Dio) viene comunemente identificato con san Bartolomeo (Figlio del Valoroso)". Solo un visionario mistico può intravedere una correlazione fra i nomi* "Dono di Dio" e "Figlio del Valoroso", affinché possano essere accomunati; pertanto ogni ulteriore commento diventa superfluo.
* Il più famoso biblista ed esegeta esistente, il sacerdote John Paul Meir, docente presso le Università Cattoliche in Italia e negli U.S.A., nella sua ponderosa opera "A Marginal Jew: Rethinking the Historical Jesus", vol. 3, pagg. 199/200, rigetta categoricamente la "identificazione", quindi la sovrapposizione di "Natanaele" con "Bartolomeo".
A maggior ragione perché anche lo storico Vescovo, Eusebio di Cesarea (morto nel 340 d.C.), nella sua "Historia Ecclesiastica", scritta entro il 325 d.C., pur riferendo le gesta degli Apostoli, non conosce "Natanaele". Ciò significa che questo "apostolo" è stato inserito nei vangeli dopo il Concilio di Costantinopoli del 381 d.C.
Ma torniamo ancora sulla interazione Natanaele-Filippo: il primo riceve l'annuncio dell'Avvento di Gesù "testimoniato" da un inesistente Filippo e della "rivelazione" del "Figlio di Dio" tutt'uno con il "Padre", come stabilito nel "Credo" dai Vescovi cristiani nei Concili indetti nel corso del IV secolo (tre secoli dopo Cristo).
"Filippo, da tanto tempo sono con voi e ancora non mi conosci? Credetimi, io sono nel Padre e il Padre è in me"
(Gv 14,9-11). "...questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea ..." (Gv 12,21). Gli amanuensi che "incollarono" in modo posticcio questo "Filippo" nei loro vangeli non avevano la reale conoscenza dei luoghi in cui decisero far muovere i loro fantasiosi personaggi al punto di ubicare Betsàida in Galilea anzichè in Gaulanite dove essa era edificata e successivamente ingrandita, dopo la morte di Erode il Grande, da suo figlio il Tetrarca Erode Filippo, appartenendo al territorio da lui ereditato (Ant. XVIII 28).
dove possiamo notare, nel testo centrale in greco a destra (Mt 16,17), il vocabolo “Barionà” riferito a Simone - un aggettivo qualificativo che in aramaico significa “latitante, ricercato” - in greco non viene tradotto ma traslato con la lettera maiuscola in modo da farlo apparire un nome di persona: “Simon Barionà”. “Barionà”, come nome proprio di persona, nell’aramaico antico non è mai esistito, tanto meno in greco o latino, e la falsificazione diventa addirittura ridicola attraverso la comparazione delle traduzioni.
Infatti, a sinistra, nella versione latina fu diviso in “Bar Iona” con l'accento tolto sulla "a" finale; pertanto "Barionà" (latitante) diventa: Bar (“figlio di” in aramaico) Iona … filius Iona … figlio di Giona. βαριωνα' (il "latitante" aramaico diventa Βαρ Ιωνα “figlio di”), quindi Bar Iona; lemma che, l'amanuense, per non modificare ulteriormente il vocabolo originale, trascrive in latino indeclinato errato: "filius Iona" (anziché Ionae), tradotto in italiano "figlio di Giona".
Se “Iona” fosse stato veramente il nome di una persona avremmo dovuto trovarlo, sin dall’inizio, sempre separato da “bar” minuscolo, come per “filius” latino o “uios” ύιος greco; vocaboli usati spesso e senza problemi nei Vangeli … tranne in questo caso. Nel testo del 1861, in basso a destra in latino, “Pietro” non esiste: solo Simon Bar-Jona; e a sinistra, in greco, riporta Bar staccato. Nelle lingue latina e greca “Bar” e Βαρ non sussistono; allora sia nel testo latino che in quello greco Bar - Βαρ, come in aramaico, vorrebbero apparire “figlio”, ma, essendo traduzioni a suo tempo destinate a fedeli di lingua greca o latina, è assurdo tentare di farli passare come tali sapendo che in latino si dicono “filius” e in greco ύιος (ùios).
In alto a destra, nel testo (Ioh= Gv 1,42), poiché il vocabolo “Cephas” in latino non esiste, si dice che deve (sic!) essere “interpretato Pietro”; anche nel greco antico, in alto a sinistra, “Kefaz” (Κηφας) non può ricorrere in tale idioma: è aramaico (sasso, pietra), ma ci viene imposto che ... “significa Pietro”. In latino pietra = lapis, saxum; in greco = lithos, petra (minuscolo e mai “kefaz”). Le tre parole originali in aramaico erano Simon, kefaz, barionà, che tradotte vogliono dire: Simone detto Kefaz (pietra, nel senso di “duro, massiccio”), latitante ricercato. Nella realtà Simone era uno dei fratelli zeloti già ricercato dai Romani sin da quando “Gesù” era ancora in vita e la sua identificazione era facilitata dalla vistosa corporatura massiccia. Fu un capo zelota e, come tale, consapevole di condurre una lotta integralista sino alla estrema conseguenza del martirio; di fatto avvenuto assieme al fratello Giacomo, tramite crocifissione, dopo la cattura per opera del Procuratore Tiberio Alessandro nel 46 d.C.
La mescolanza delle lingue e la manipolazione dei vocaboli tradotti furono, nel tempo, sfruttati volutamente, dopo averne travisato il senso, da scribi professionisti consapevoli di trattare con ingenui credenti.
Queste “tecniche” di traduzione sono soltanto uno dei modi con cui si può falsare il significato della vita di una persona e, se la Chiesa ha fatto "carte false" per trasformare "barionà" sino a farlo sparire nei Vangeli moderni, ciò sta a dimostrare che il significato di "latitante ricercato", espresso dal testo originale, è reale, pertanto Essa lo considera veramente pericoloso e in contrasto alla nuova dottrina evolutasi nei secoli futuri da quella giudaica originale.
Pertanto, nella consapevolezza che "Simone detto Kefaz" ci consente di scoprire in "san Simone Pietro" il capo zelota ricercato dai Romani, nessun prete, durante la messa, osa narrare dal pulpito la illuminante parabola della "regola" cui si atteneva il successore di Cristo dopo la Sua crocefissione, riferita in "Atti degli Apostoli":
“Un uomo di nome Ananìa con la moglie Saffira vendette un suo podere e, tenuta per se una parte dell’importo d’accordo con la moglie, consegnò l’altra parte deponendola ai piedi degli apostoli. Ma Pietro gli disse:«Ananìa, perché mai Satana si è così impossessato del tuo cuore che hai mentito allo Spirito Santo e ti sei trattenuto parte del prezzo del terreno? Prima di venderlo, non era forse tua proprietà e, anche venduto, non era sempre a tua disposizione? Perché hai pensato in cuor tuo a questa azione? Tu non hai mentito agli uomini, ma a Dio». All’udire queste parole, Ananìa cadde a terra e spirò. E un timore grande prese tutti quelli che ascoltavano.
Si alzarono allora i più giovani e, avvoltolo in un lenzuolo, lo portarono fuori e lo seppellirono. Avvenne poi che, circa tre ore più tardi, entrò sua moglie, ignara dell’accaduto. Pietro le chiese: «Dimmi: avete venduto il campo a tal prezzo?». Ed essa: «Si, a tanto». Allora Pietro le disse: «Perché vi siete accordati per tentare lo Spirito del Signore? Ecco qui alla porta i passi di coloro che hanno seppellito tuo marito e porteranno via anche te». D’improvviso cadde ai piedi di Pietro e spirò. Quando i giovani entrarono, la trovarono morta e, portatala fuori, la seppellirono accanto a suo marito. E un grande timore si diffuse in tutta la Chiesa e in quanti venivano a sapere queste cose” (At 5,1/11).
Gli Zeloti erano Farisei rivoluzionari fuori legge, di conseguenza i sacerdoti appartenenti al Movimento di Liberazione Nazionale (lo stesso valeva per gli Esseni) non avevano la possibilità di riscuotere le decime dei raccolti (Ant. XX 181) spettanti per diritto ai sacerdoti Sadducei e Farisei conservatori filoromani.
La scelta ideologica di condurre una lotta armata contro Roma indusse gli Zeloti, per finanziarsi, ad imporre tributi agli Ebrei possidenti adottando metodi persuasivi violenti. Alla guerriglia contro i "kittim" invasori, la maggioranza degli Esseni privilegiò la propaganda religiosa avvalendosi delle Profezie della Legge ancestrale per incitare le masse, mentre, per il loro sostentamento, si erano organizzati in comunità produttive, soprattutto agricole.
La Chiesa è sempre stata consapevole delle qualifiche rivoluzionarie di alcuni apostoli (quelli con nomi giudaici) e, ovviamente, ha tentato di reinterpretare il loro significato come ha fatto con i "boanerghès" Giovanni e Giacomo i quali, lo abbiamo visto sopra, da "figli dell'ira" (di Dio) sono stati declassati a "figli del tuono". Nel merito, leggiamo come ha commentato il pontefice "teologo", Benedetto XVI, ai fedeli, durante la Udienza Generale in Piazza San Pietro dell’11 Ottobre 2006, riguardo l’apostolo Simone:
“Luca lo definisce zelota … è ben possibile che Simone, se non appartenne propriamente al movimento nazionalista degli Zeloti, fosse almeno caratterizzato da un ardente zelo per l’identità giudaica, quindi per Dio, per il suo popolo e per la Legge divina ...".
Qudeste frasi, sibilline e incerte, rappresentano tutt'oggi la posizione ufficiale della Chiesa: una “testimonianza” reticente in antitesi con la verità storica e con gli stessi vangeli. Una sorta di "alibi" che può essere supportato solo dalla “buona fede” e dall’ignoranza di credenti - tenuti appositamente all’oscuro sui fatti realmente accaduti - ai quali viene detto, in sostanza, che Simone zelota, non era uno zelota … nonostante sui vangeli è scritto “zelota”. Infatti, basta scorrere l'Antico Testamento per accertarsi che "la Legge divina", rammentata dal Papa, consisteva nella "Ira di Dio" che comandava la strage di qualsiasi pagano, donne e bambini compresi, avesse osato calpestare la Terra Promessa da Yahweh al suo popolo. Ma, dal 6 d.C., data di fondazione del Movimento Nazionalista degli Zeloti, per loro mano la "Ira di Dio" si scagliò anche contro gli stessi connazionali. Questa "Legge divina" veniva imposta, come regola cruenta e con "ardente zelo", da Simone Pietro agli adepti della sua comunità per finanziare la guerriglia zelota, anche vendendo la propria terra.
La prima finalità della Chiesa di creare gli “Apostoli” fu dettata dalla necessità, messa in atto da ignoranti in storia e cultura giudaica, di nascondere nel “mucchio” i cinque fratelli zeloti e si ricollega alla necessità di replicare più “Marie”, apparentate come "sorelle" e "cognate" di Maria loro madre, per farli diventare “cugini”... ma in maniera scoordinata e contraddittoria fra gli stessi vangeli. Tale incoerenza, riscontrata nei testi “sacri”, dimostra il tentativo fallito degli autori di inventare nomi falsi poiché impossibilitati a fornire una base storica documentabile.
Gli Apostoli furono una creazione letteraria resasi necessaria, anche, per far apparire che il “cristianesimo”, diffuso da loro, era presente sin dal I secolo al fine di “dimostrare” che Gesù era venuto e si era sacrificato per salvare gli uomini dalla morte.
Come dimostrano anche gli studi seguenti, ad iniziare da Paolo di Tarso, gli Apostoli degli scritti neotestamentari, semplicemente, non sono mai esistiti.
Emilio Salsi
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