Gli Apostoli non sono esistiti


Incipit agli studi

Fra tutti i cronisti della Roma imperiale del primo secolo, le notizie più dettagliate, riguardanti gli eventi della Giudea, ci sono pervenute dalle opere di Giuseppe Flavio; lavori peraltro sottoposti a verifica dagli storici romani ed approvate dagli Imperatori Flavio Vespasiano e suo figlio Tito.
Data l’importanza storica delle testimonianze dello scrittore ebreo, prima di addentrarci negli studi del Cristianesimo primitivo, è essenziale precisarne la vita da lui stilata nella sua “Autobiografia”.

Dalla sua genealogia, riferita nella “Autobiografia” - redatta dallo storico ebreo nel 94 d.C. e trascritta nei Codici dagli amanuensi in appendice alle “Antichità Giudaiche” - risulta che Giuseppe nacque a Gerusalemme nel 37 d.C. (sotto il principato di Gaio Caligola) da genitori di alto lignaggio imparentati, tramite la madre, alla dinastia reale degli Asmonei. Anche il padre di Giuseppe, Mattia, nato il 6 d.C., si distingueva, per la nobiltà della stirpe, quale membro della più elevata aristocrazia sacerdotale e per "la sua appartenenza alla prima delle ventiquattro classi sacerdotali, nonché dalla più illustre delle Tribù". In quanto tale, il padre Mattia, era un componente del Sinedrio della "Città Santa" svariati anni prima che nascesse Giuseppe, suo secondo genito dopo Mattia (stesso nome del padre), il fratello maggiore di Giuseppe.

Giuseppe Flavio è unanimemente riconosciuto il più famoso storico ebreo di sempre. Visse nel I secolo d.C. e le sue cronache giudaiche, perfettamente interconnesse alla Storia di Roma, furono convalidate dagli storici romani prima di essere depositate negli Archivi Imperiali per ordine di Tito e dell’Imperatore Vespasiano, che gli concesse la cittadinanza romana. 
Lo storico giudeo fu quindi protetto dai due figli di Vespasiano, Tito e Domiziano, entrambi Imperatori, e le sue opere furono consultate da Gaio Svetonio Tranquillo, nella veste di Sovrintendente agli Archivi imperiali dell’Imperatore Adriano.
I lavori di Giuseppe Flavio, da lui scritti in aramaico e in greco, sono: “La Guerra Giudaica” (Bellum); “Antichità Giudaiche” (Ant.); “Autobiografia” (Bios); “Contro Apione” (C.A.).

                                                                                                               

Cresciuto in seno ad una famiglia benestante, Giuseppe ebbe così la possibilità economica di formarsi culturalmente e dimostrò subito la sua passione per gli studi al punto che a quattordici anni era già in grado di esprimere pareri, richiesti dai Sommi Sacerdoti, sulla interpretazione della Legge mosaica.
Si dedicò all’apprendimento del greco e del latino; di seguito decise di approfondire la conoscenza diretta dei princìpi filosofici di tre, delle quattro associazioni ebraiche esistenti nel I secolo: Farisei, Sadducei ed Esseni, escludendo quella estremista degli Zeloti. All’età di sedici anni divenne discepolo di un sacerdote eremita esseno, di nome “Banno”, che seguì nel deserto per circa tre anni. A diciannove anni, ormai sacerdote, decise di aderire alla setta dei Farisei e, nel 56 d.C., in virtù della sua discendenza sacerdotale di eccellenza, nonché della sua straordinaria preparazione culturale e linguistica, entrò a far parte del Sinedrio* di Gerusalemme, ovviamente non come “Anziano” bensì in qualità di “Scriba”, nello stesso anno in cui il Re vassallo, Agrippa II, nominò Ismaele, figlio di Fabi, come Sommo Sacerdote del Tempio.
Fu da quella data che ebbe inizio la ambiziosa carriera di “Giuseppe bar Mattia”: un curriculum che lo vedrà scalare i più alti gradi della aristocrazia sacerdotale giudaica.

* Il Sinedrio ebraico era un Consiglio di 71 membri, composto da sacerdoti Anziani, Dottori della Legge (Rabbini) e Scribi. Dall’epoca degli Asmonei (II sec. A.C.) sino alla distruzione di Gerusalemme da Parte di Tito (70 d.C.), era presieduto dal Sommo Sacerdote del Tempio (la massima autorità religiosa giudaica), il quale, dopo aver ascoltato il parere della Assemblea, alla fine decideva nel merito ed il suo giudizio era insindacabile.
A sua volta, come segno di massima autorità e distinzione, il Sommo Sacerdote indossava una ricca Veste Sacra, conforme al dettato di Yahweh, abbellita da tessuti pregiati e ornata con fregi d'oro.
                                                                                                                                                                                                                   
Il Sinedrio di Gerusalemme rappresentava lintera nazione dei Giudei - disseminata nelle Province dell’Impero Romano ed in Mesopotamia, oltre il fiume Eufrate, nel Regno dei Parti - aveva funzioni amministrative e fungeva da massimo Tribunale giudaico, interprete indiscusso della Legge mosaica. Il carisma di questa Assise era talmente elevato fra gli Ebrei che, Erode il Grande prima, e i Romani dopo, per ragioni politiche evidenti, decidevano la nomina del Sommo Sacerdote del Tempio, unico a poter entrare nel "Santo dei Santi": un privilegio divino che gli conferiva una auctoritas spirituale superiore alla potestas dei monarchi, al punto di essere considerato dagli Ebrei come loro unico Capo. Questi, tuttavia, in caso di violazione della Legge mosaica, non aveva il diritto di uccidere l’eventuale reo, potere che gli veniva concesso personalmente dal Governatore romano, in quanto Magistrato imperiale, soltanto dopo aver autorizzato la convocazione del Sinedrio e approvato gli argomenti da trattare.
A partire dal 6 d.C. fino alla guerra giudaica del 66 contro il dominio romano, in sostanza il Sinedrio esercitò come un ordinamento “fantoccio” condizionato dal potere di Roma.
 
Secondo quanto da lui attestato, Giuseppe proseguì la sua carriera come membro sinedrista, assumendo incarichi sempre più prestigiosi all’interno del Sinodo, come stiamo per esporre.
Nel 62 d.C. (Ant. XX 196/203), Giuseppe F. (vedi III studio) presenziò come Scriba del Sinedrio quando era Sommo Sacerdote il suo caro amico (rimpianto dolorosamente alla sua morte in Bellum IV 316/322), "Anano, figlio di Anano", il quale, “col carattere che aveva”, dopo aver convocato il Sinedrio senza lautorizzazione del Procuratore di Roma, decretò la condanna alla lapidazione di Giacomo, fratello del Sommo Sacerdote Gesù, figlio di Damneo, “ed alcuni altri, rei di aver trasgredito la Legge”. Gli accusati vennero arrestati momentaneamente in attesa che giungesse il nuovo Procuratore romano, Lucceio Albino, nominato da Nerone nel 62 d.C. Questi, appena informato dell’iniziativa autonoma del Sommo Sacerdote "Anano", ordinò a Re Agrippa II di sostituirlo con il Sommo Sacerdote, “Gesù, figlio di Damneo”.
                                                                                                                                                                                                                    
Da allora in poi Giuseppe F. proseguì il suo pretenzioso “cursus honorum” allorché, su mandato del Sinedrio, alla fine del 63 d.C. fu inviato come ambasciatore a Roma a perorare, presso Nerone, la liberazione di alcuni sacerdoti giudei fatti arrestare dal precedente Procuratore, Antonio Felice, con “accuse risibili”. Si trattenne nella corte di Roma, ospite di Poppea, sino ad oltre la metà del 65 d.C. La precisa epoca durante la quale avvenne il famoso incendio di Roma del luglio 64 e, secondo la notizia diffusa falsamente da scribi cristiani, l'eccidio di una “ingens multitudo” (ingente moltitudine) di Cristiani, crocifissi come torce ardenti, accusati da Nerone di aver incendiato lUrbe. Episodio la cui cronaca, sia dellincendio che del martirio di un enorme numero di Cristiani, non risulta dalla “Autobiografia” di Giuseppe Flavio da lui scritta nel 94 d.C.

Poiché è impossibile che il rovinoso incendio di Roma, avvenuto nel 64 d.C. e oggi comprovato da precisi reperti archeologici, non appare documentato dal testimone oculare Giuseppe F., pur essendo egli presente in città, è evidente che si tratta di una censura praticata dagli amanuensi nei loro Codici per non far risaltare il nessoincendio-ecatombe di cristiani” ordinato da Nerone, conseguente alla mancata testimonianza di questi màrtiri da parte dello storico ebreo, perché in contrasto con quella accreditata a Tacito nell’XI secolo dagli amanuensi di Montecassino e trascritta nel “Codex Laurentianus Ms 68 II” (oggi conservato nella Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze). 
Da evidenziare che “Autobiografia” fu redatta da Giuseppe F. sotto Domiziano, poi copiata dagli amanuensi nell’appendice di “Antichità Giudaiche”, il cui manoscritto più antico è il “Codex Ambrosianus F 128” datato anch’esso all'XI secolo; tale contemporaneità dei testi spiega la censura, imposta da alti prelati, del devastante incendio (in realtà narrato dallo storico ebreo essendo egli presente, come fece con l'eruzione del Vesuvio del 79 d.C.), praticata dagli scribi ecclesiastici per nascondere la prova di eccellenza costituita dal silenzio di Giuseppe sullo sterminio di massa di cristiani.
                                                                                                                                                                                                                    
Ritornato in patria, agli inizi del 66 d.C., assieme ai sacerdoti liberati da Nerone, Giuseppe vi riscontrò le avvisaglie della rivolta giudaica che si concretizzò nellestate dello stesso anno. In attesa di conoscere gli sviluppi della guerra, si tenne in disparte per qualche mese fino alla disfatta delle legioni romane - condotte dal Legatus Augusti, Cestio Gallo - avvenuta a Bethoron nel Novembre del 66.
La grave sconfitta, subita dall’esercito più potente del mondo, sciolse le riserve di Giuseppe e, nel Dicembre dello stesso anno, nel Tempio di Gerusalemme, all’età di 29 anni, fu insignito, dai maggiorenti sacerdoti, del più alto grado militare giudaico quale Comandante Generale delle due Galilee, con il compito di costituire un esercito capace di combattere contro i Romani, rafforzare le difese delle città sotto il suo controllo e il conseguente potere di nominarne i rispettivi Governatori. E' doveroso evidenziare il grande apprezzamento dello storico ebreo in favore dei Galilei:

"I Galilei sono bellicosi fin da piccoli e sono stati sempre numerosi e, come gli abitanti non hanno mai conosciuto la codardia, così la regione non ha mai conosciuto lo spopolamento"
(Bell. 3,42).

Per quanto concerne il requisito del sacerdozio, obbligatorio per gli Israeliti condottieri di eserciti, era un fatto ben conosciuto da Tacito: "I Giudei assegnavano alla dignità sacerdotale il ruolo di sostenere la propria potenza" (Historiae V 8); ne consegue che, dall'inizio della guerra fino alla sua cattura, Giuseppe Flavio era effettivamente il Generale ebreo più potente impegnato contro le legioni romane. Ma, come riferirà in seguito Giuseppe nelle sue cronache, la reazione di Roma fu spietata concludendosi con l'olocausto di centinaia di migliaia di Ebrei:

"L'intera Galilea si trasformò in un mare di fuoco e sangue, subendo ogni tipo di sofferenza e rovina"
(Bellum III 4,1).
                                                                                                                                                                                                                    
Le armate giudaiche vennero sconfitte dalle legioni del Legatus Augusti pro Praetore, T. Flavio Vespasiano (futuro Imperatore), e Giuseppe - che si comportò come un vile quando i suoi compagni sconfitti si suicidarono - nell’estate del 67 si lasciò catturare a Iotapata, dopo che questa città aveva resistito 47 giorni all’assedio dei Romani.
Da quel momento iniziò a collaborare con i vincitori profetando a Vespasiano l’ascesa al soglio imperiale per lui e suo figlio Tito. Appena divenuto Imperatore, Vespasiano lo liberò dalle catene e gli conferì la “cittadinanza romana”, resa possibile dalla padronanza della lingua latina da parte dell’ebreo (obbligatoria per tutti i neoeletti cittadini romani), concedendogli anche l’onore di adottare come praenomen lo stesso nome del Princeps: Titus Flavius. 
Ad oggi, l’illustre sacerdote ebreo, “Giuseppe bar Mattia”, è ricordato dagli storici con l’appellativo di “Flavio Giuseppe”, mentre i Padri del Cristianesimo, nei loro scritti, lo citano col semplice nome “Giuseppe”.



Storia

Dopo la morte di Costantino il Grande, i Cristiani avviarono una progressiva e sistematica opera di abbattimento di Templi e altari politeisti. Nel 361 d.C., al fine di arrestare il processo persecutorio contro i pagani e le rispettive divinità, appena acclamato Imperatore dai suoi legionari, Flavio Claudio Giuliano, passato alla storia come "l'Apostata", promulgò l"Editto della Tolleranza" sanzionando per legge il rispetto reciproco fra tutti i culti praticati nell'Impero.
Di tutt'altro avviso, nel 380 d.C., gli Imperatori Augusti, Flavio Teodosio, Flavio Graziano e Flavio Valentiniano, in nome di Dio, emanarono l"Editto di Tessalonica" con il quale imposero il Cattolicesimo come dottrina unica da professarsi nelle Province dell'Impero, mentre, il capo religioso assoluto, con il titolo di "Potefice Massimo" (sino allora spettante unicamente agli Imperatori), fu assegnato al violento ed ambizioso Papa Damaso I, in seguito proclamato "santo" dalla Chiesa.
Pertanto, la prima volta dalla sua fondazione, l'Impero Romano stabilì che tutte le fedi pagane, come le cristiane eretiche, venissero dichiarate illegittime. L'anno seguente, in coerenza con l'Editto di Tessalonica, convocati i Vescovi nel "Concilio di Costantinopoli" del 381 d.C., fu confermato il precedente Credo niceno del 325 ma ne venne forzato l'assioma fino a comprendere la Santa Trinità e "Maria Vergine madre di Gesù Cristo unigenito".
Nel settembre del 394 d.C., presso l'attuale fiume Isonzo (Friuli), venne ingaggiata la conclusiva "battaglia del Frigido" che vide l'esercito pagano sconfitto dalle armate cristiane di Teodosio I il Grande: fu così sancito il definitivo trionfo del Cattolicesimo.   
                                                                                                                                                                                                                    
Ancora prima che Teodosio I il Grande si insediasse come Signore unico dell'Impero Cattolico Romano - in ottemperanza agli ultimi postulati della dottrina cristiana decretati nel Concilio di Costantinopoli - l'Alto Clero, per volontà del Pontefice Massimo Damaso I, redasse i nuovi codici biblici, intenzionalmente corredati dei riscontri storici del I secolo (ricavati dai rotoli giacenti nella biblioteca di Roma, definitiva sede papale) al fine di comprovare la "sequela christi" iniziata con l'Avvento del "Salvatore" e i suoi successori (Mt 19,21). Alcuni anni dopo, a spese dello Stato, furono inviati i Clerici nelle Province dell'Impero a diffondere la "buona novella", manoscritta nei testi nuovi.
Al contempo i Vescovi avviarono la distruzione di tutte le biblioteche private e provinciali, tranne quella imperiale e quella di Roma, quest'ultima assegnata in proprietà alla "Chiesa di Pietro". Non è un caso, quindi, che la datazione dei Codici più antichi a noi pervenuti, come il Vaticanus e il Sinaiticus, sia oggi stimata al IV secolo con un metodo paleografico approssimativo; quest'ultimo molto meno preciso rispetto alle evidenze storiografiche ed ecclesiatiche trasmesse con la patrologia.

Dalla comparazione della Storia con il Credo pervengono un insieme di dati che evidenziano l'evoluzione adattativa della dottrina cattolica vincente, diversa dalle precedenti cristiane nella rappresentazione teologica del "Salvatore Universale". Dottrine cristiane antesignane oggi classificate come "apocrife", "gnostiche" e "pseudo". Infatti, per uniformare la sostanza e la raffigurazione della nuova divinità si rese obbligatorio convocare, nel corso del IV secolo, numerosi Concili, sempre cruenti per le feroci vendette consumate ai danni degli Episcopi cristiani perdenti.
Nel VI studio riportiamo la dimostrazione che i vangeli attuali furono trascritti ex novo in esecuzione del Credo cattolico, definito nel Concilio di Costantinopoli del 381 d.C. Una dottrina alla quale venne aggiunto, per volontà di Damaso I, il "Primato di Pietro apostolo" e la "Natività" di Gesù, nei vangeli di Luca e Matteo, allo scopo di fornire la documentazione teologica utile ai Vescovi per decretare, nel successivo Concilio di Efeso del 431 d.C., l'ultimo dogma che conclamò la SS. Vergine Maria "Madre di Dio".

Ma gli storici cristiani, diversamente dai loro condottieri militari, si dimostrarono incapaci di consultare i rotoli dei cronisti imperiali del I secolo. La superficialità con la quale gli scribi di Dio lessero le passate vicende, utili a prelevare in quei volumi i dati e i nomi dei personaggi famosi che dovevano interagire con gli eroi del cristianesimo primitivo, costerà molto cara al futuro potere ecclesiastico. Un potere assoluto che continuò anche dopo la disgregazione dell'Impero Romano... fino ad oggi. Un potere che, alla fine, dovrà fare i conti con il giudizio inappellabile della Storia: la stessa alla quale gli scrivani di Dio affidarono la "Verità" di Gesù Cristo.
Storia, archeologia, epigrafia, filologia, numismatica, geotopografia, sono le discipline cardine della scienza razionale che ha iniziato a demolire l'oscurantismo superstizioso del Cristianesimo, come di ogni altro Credo, ad iniziare da quelli fondati sul monoteismo assoluto. Ma, dal Concilio di Costantinopoli del 381 d.C., dovranno passare molti secoli prima che si potesse avviare il processo conclusivo in grado di emettere il verdetto irrevocabile della Storia contro ogni idolatria.

Nel XIX secolo, Alfred Loisy, sacerdote cattolico francese (1857-1940), teologo esegeta di fama internazionale, docente di ebraico e Antico Testamento, propugnava la critica storica scientifica, applicata agli scritti neotestamentari, come primo metodo da seguire per ricercare le origini del Cristianesimo. Con i suoi studi il biblista contestò la storicità della "Passione e Resurrezione di Cristo" dimostrando, inoltre, che Gesù non volle essere il fondatore di una nuova religione, tanto meno di alcuna Chiesa. L'esegeta cattolico, previa una corretta analisi filologica, si spinse ad affermare che Gesù Cristo, storicamente, fu un "Nazireo", non un "Nazareno" e ancor meno "Nazaretano", in quanto appartenente alla setta dei "Nazirei", i consacrati a Dio che fecero voto di mantenere capelli e barba intonsi e astenersi dal bere bevande inebrianti (lo stesso voto di Sansone e, per i vangeli, di Giovanni Battista); pertanto l'identificazione intesa come "abitante di Nazareth" non era valida.
In base agli scritti di
Giuseppe Flavio, lo storico ebreo vissuto all'epoca di Cristo e degli Apostoli, i Nazirei erano una setta di Giudei integralisti nazionalisti, avversari della dominazione pagana sulla terra d'Israele e, come tali, perseguitati sia dalla aristocrazia sacerdotale opportunista ebraica che dai Governatori romani o regnanti Erodiani.
L' 8 aprile 1546, il Concilio di Trento (a conferma dell'Editto di Tessalonica) decretò: «Il sacrosanto concilio tridentino ... accoglie e venera tutti i libri, sia dell'Antico che del Nuovo Testamento, essendo Dio autore di entrambi».
Gli Scritti Sacri di Dio non potevano essere messi in discussione da nessuno, pertanto, come prevedibile, nel 1908 Loisy venne scomunicato dalla Chiesa Cattolica ... e ad oggi
nulla è cambiato: Dio non può sbagliare ... secondo i credenti.


Gli Apostoli non sono esistiti. Verifica storica

Un biblista non deve limitarsi a comparare la documentazione evangelica con le testimonianze dei Padri della Chiesa per scoprire le numerose contraddizioni riscontrate nei testi dottrinali ad oggi pervenuti, ma il metodo più proficuo, ai fini dell’accertamento delle verità o delle falsificazioni, è quello di confrontare tali scritti e verificarne la corrispondenza attraverso analisi critiche più avanzate. Avvalendoci di informazioni comprovate contenute nella storiografia, escludiamo, inderogabilmente, l'utilizzo di qualunque congettura o ipotesi per cercare di "spiegare" determinate vicende descritte nei vangeli. Solo un presuntuoso sprovveduto può biasimare i documenti neotestamentari, fondamento della dottrina cristiana da oltre 1700 anni, limitandosi ad inventare teorie paradossali su cui costruire futili "veritas" invece di basare le sue analisi su precise constatazioni di fatti realmente accaduti.

Per contro, anziché disquisire su cosa fecero o dissero Gesù, Apostoli e Maria Vergine - trattandosi di protagonisti oggetto di culto e descritti come autori di gesta, tanto mirabolanti quanto impossibili - primo dovere dei docenti di Storia del Cristianesimo è quello di accertare che siano esistiti realmente indagando sui personaggi noti dell'epoca che, secondo i vangeli e la patrologia, risultano aver interagito con i "prodigiosi" Santi. Personaggi potenti e famosi, uomini veri, pertanto rintracciabili nelle fonti trascritte, supportate da archeologia, filologia, epigrafi, numismatica.
La ricerca critica testuale può verificare se la narrazione dei rapporti, intercorsi fra i sacri interpreti della mitologia cristiana con le persone celebri di allora, si dimostra autentica, falsa o manomessa volutamente.
Tacito, Svetonio, Giuseppe Flavio, Cassio Dione, Plinio il Giovane, Esseni e Zeloti dei rotoli del Mar Morto, gli scribi patristici e molti altri, quando riportarono le cronache di allora, inconsapevolmente, hanno tramandato testimonianze, tali, che oggi permettono di ricostruire gli avvenimenti giudaici di duemila anni addietro e far luce sul vero messianismo (cristianesimo) primitivo del I secolo che dette origine, in epoca successiva, al mito di "Gesù Cristo".

Al fine di garantire la verificabilità, sarà quindi nostro compito fondamentale approfondire le indagini storiche basandoci unicamente sulle risultanze testuali delle citazioni neotestamentarie ed ecclesiatiche di provenienza diretta, nonché sulle constatazioni archeologiche, evitando le espressioni superflue ma preoccupandoci più della chiarezza che dell'eleganza, pur sapendo in anticipo che il nostro lavoro sarà incompleto ma già di per sé con esiti tali da essere attaccato dalla critica dogmatica con incessante violenza. Studi che, pur non essendo difficoltosi, tuttavia richiedono l'impegno necessario per essere assimilati compiutamente.
Previa l'esclusione di una enorme, quanto superflua, bibliografia celebrativa cristiana, la conoscenza diretta degli eventi lontani - tramite le fonti originali dellepoca e la consultazione degli antichi Codici elaborati dagli amanuensi nel corso dei secoli - ci consente di procedere nella ricerca "dentro" un autentico apparato critico sino al punto di accertare la falsificazione di tutti gliAtti del Sinedriodi Gerusalemme (il Supremo Tribunale Giudaico) riportati nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli” (le gesta di "Gesù", “san Pietro”, “san Paolo”, “santo Stefano”, ecc.).
Ma l'analisi storiologica va oltre, essendo in grado di
scoprire il movente delle mistificazioni, permettendoci di comprendere perché l’unico “Atto del Sinedrio” - a noi fatto pervenire nelle opere dello storico Giuseppe Flavio dalla morte di Erode il Grande sino al 66 d.C. - risulta essere solo quello di “Giacomo fratello di Gesù detto Cristo” ... rivelatosi manomesso dagli scribi cristiani, come proveremo negli studi seguenti.

Ancora, dagli “Atti” di un vero Sinedrio ebraico, mentre era in corso il “Processo a Gesù”, non sarebbe mai risultato che i Giudei scagliassero, contro se stessi e i propri figli, la maledizione eterna riportata nei Vangeli (Mt 27,25):

“E tutto il popolo rispose: il suo sangue (di Gesù) ricada sopra di noi e i nostri figli”.

Una cronaca descritta da amanuensi talmente catechizzati al punto da far decadere la veridicità del "processo a Gesù" ancor prima che potesse iniziarsi. Infatti, un eminente sacerdote ebreo come Giuseppe, discendente dai Re Asmonei per parte di madre e da Sommi Sacerdoti in linea paterna, così come tutti i Giudei di allora e di oggi, non avrebbe mai potuto riconoscere verosimile questo paradosso: gli Ebrei, dopo averlo osannato, fanno crocefiggere il proprio “Messia” divino e nel contempo si maledicono per l’eternità. L'evento, se per assurdo fosse accaduto, sarebbe stato di una tale gravità che lo storico sacerdote, ligio al proprio credo, l'avrebbe riferito nelle sue cronache, poiché, poco prima della distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C. ad opera del condottiero romano Tito (figlio dell'Imperatore Vespasiano), fu da lui autorizzato a recuperare gli Atti del Sinedrio e tutti i documenti conservati negli Archivi Pubblici (fatto che dimostreremo più avanti).

La mancata citazione di ulteriori Atti del Sinedrio, da parte dello storico, ci porta ad indagare sugli “Atti degli Apostoli” e sui Vangeli perché quanto viene riferito in questi manoscritti, in ultima analisi, avremmo dovuto trovarlo negli Atti di un vero Sinedrio e riportati dall'ebreo nel XVIII Libro delle sue “Antichità Giudaiche”: l'epoca di Gesù.
E’ grazie alla Storia che possiamo dimostrare l’insussistenza degli Apostoli, pertanto, apriamo il sacro testo, redatto dall’evangelista Luca che ne descrive le imprese miracolose, e diamo inizio al confronto tra il mito teologale della "Salvezza per la Vita Eterna" con ... il razionalismo storico.


Parte I

                                                                          Atti degli Apostoli


Dopo l’ascensione in cielo di Gesù, gli Apostoli, rimasti nella Città Santa, danno inizio alla diffusione della dottrina predicata da Cristo. Sotto il portico di Salomone e nelle piazze, emulando il loro “Maestro”, si esibiscono in guarigioni straordinarie, esaltano il popolo e attirano le folle delle città vicine “che accorrevano, portando malati e persone tormentate da spiriti immondi e tutti venivano guariti. Il Sommo Sacerdote e i Sadducei, “pieni di livore”, li fanno arrestare con l’accusa di “aver predicato in nome di costui (Gesù Cristo) e, convocato il Sinedrio di Gerusalemme, il massimo Tribunale giudaico, avviano l’atto processuale minacciando di “metterli a morte” (At 5,12-33):

“Si alzò allora nel Sinedrio un fariseo, di nome Gamalièle, Dottore della legge, stimato presso tutto il popolo. Dato ordine di far uscire per un momento gli accusati, disse: «Uomini di Israele, badate bene a ciò che state per fare contro questi uomini (gli Apostoli). Qualche tempo fa venne Theudas, dicendo di essere qualcuno, e a lui si aggregarono circa quattrocento uomini. Ma fu ucciso, e quanti s’erano lasciati persuadere da lui si dispersero e finirono nel nulla. Dopo di lui sorse Giuda il Galileo, al tempo del censimento, e indusse molta gente a seguirlo, ma anchegli perì e quanti s’erano lasciati persuadere da lui furono dispersi. Per quanto riguarda il caso presente, ecco ciò che vi dico: Non occupatevi di questi uomini e lasciateli andare. Se infatti questa teoria o attività (Cristianesimo) è di origine umana, verrà distrutta (come avvenuto a Theudas e Giuda il Galileo); ma se essa viene da Dio, non riuscirete a sconfiggerli; non vi accada di trovarvi a combattere contro Dio!». Seguirono il suo parere e li rimisero in libertà” (At 5,34-40).

Tutti i personaggi descritti nel brano sono realmente esistiti all’epoca, anche il sacerdote Gamalièle, il cui figlio diverrà Sommo Sacerdote del Tempio nel 63 d.C. (Ant. XX 213); ma, dopo attento esame, la prima considerazione da fare è che questo evento, se fosse veramente accaduto, si è verificato quando il Re dei Giudei, Erode Agrippa I, era ancora vivo nella sua reggia in Gerusalemme. Accertiamo dunque i fatti.
Precisamente, al momento del sermone di Gamalièle sono vivi tutti gli Apostoli e fra questi, oltre a Simone Pietro, anche Giacomo il Maggiore il quale, secondo l’evangelista (At 12,1), verrà ucciso dallo stesso Re Agrippa (che regnò sulla Giudea dal 41 al 44 d.C.) prima di essere eliminato, a sua volta, (nel 44 d.C.) da un "angelo del Signore" (At 12,23). Seguiamo ora gli eventi accaduti in Giudea, poco dopo la presunta "passione" di Gesù, e descritti da Giuseppe Flavio nei resoconti storici del Libro XX diAntichità Giudaiche” (versi 97/102):

97. “Durante il periodo in cui Fado era Procuratore della Giudea (44-46 d.C.), un certo sobillatore di nome Theudas persuase la maggior parte della folla a prendere le proprie sostanze e a seguirlo fino al fiume Giordano. Affermava di essere un Profeta al cui comando il fiume si sarebbe diviso aprendo loro un facile transito. Con questa affermazione ingannò molti.
98. Fado però non permise loro di raccogliere il frutto della loro follia e inviò contro di essi uno squadrone di cavalleria che piombò inaspettatamente contro di essi uccidendone molti e facendone altri prigionieri; lo stesso Theudas fu catturato, gli mozzarono la testa e la portarono a Gerusalemme.
99. Questi furono gli eventi che accaddero ai Giudei nel periodo in cui era Procuratore Cuspio Fado
(44 – 46 d.C.).
100. Il successore di Fado fu Tiberio Alessandro
(Procuratore dal 46 al 48 d.C.), figlio di quell’Alessandro che era stato Alabarca in Alessandria.
101. Fu sotto l’amministrazione di Tiberio Alessandro che in Giudea avvenne una grave carestia durante la quale la Regina Elena comprò grano dall’Egitto con una grande quantità di denaro e lo distribuì ai bisognosi, come ho detto sopra.
102. Oltre a ciò, Giacomo e Simone, figli di Giuda Galileo, furono sottoposti a processo e per ordine di Alessandro vennero crocefissi; questi era il Giuda che - come ho spiegato sopra - aveva aizzato il popolo alla rivolta contro i Romani, mentre Quirinio faceva il censimento in Giudea”
.

Tali avvenimenti, separati fra loro da due o tre anni, sono la prova che il sacerdote Gamalièle non ha mai potuto pronunciare nel Sinedrio il discorso a difesa degli Apostoli perché in quello stesso momento il ProfetaTheudasera vivo. Infatti, facendo attenzione alle date, seguiamo la storia di Giuseppe Flavio:
- nel 44 d.C. muore Re Erode Agrippa I ma, essendo il figlio troppo giovane per governare un Protettorato romano, l’Imperatore Claudio decide di ricostituire la Provincia di Giudea, Samaria, Idumea, Galilea e Perea; pertanto …
- nel 44 d.C. fa subentrare ad Erode Agrippa, come Governatore della Provincia, il Procuratore Cuspio Fado che (dopo il Re defunto) durante il suo incarico (44-46 d.C.) fa uccidere “Theudas”, la cui testa viene portata ed esibita in Gerusalemme come monito rivolto a chiunque volesse seguire il suo esempio (Ant. XX 97-98);
- nel 46 d.C. il Procuratore Tiberio Alessandro sostituisce Cuspio Fado e, nel corso del suo mandato (46/48 d.C.), dopo un processo, dà l’ordine di crocifiggere Giacomo e Simone (Ant. XX 102), due figli di "Giuda il Galileo", quest'ultimo fondatore, il 6 d.C., e capo del Movimento Nazionalista Giudaico anti romano.

Pertanto, all’interno del Sinedrio convocato in seduta deliberante per decidere sulla sorte dei “dodici Apostoli”, da quanto abbiamo letto in “Atti”, come ha potuto l’evangelista Luca far dire a Gamalièle che “Theudas era già morto quando Erode Agrippa era ancora vivo ... e Cuspio Fado (che avrebbe poi ucciso Theudas), non era ancora subentrato ad Agrippa?
Noi abbiamo constatato, semplicemente, che quel d
iscorso era falso: Gamalièle non poté farlo perché Re Erode Agrippa eTheudas erano ancora vivi entrambi. Fu scritto, in epoca successiva ai fatti reali, da uno scriba cristiano con lo pseudonimo “Luca” che lo mise in bocca a Gamalièle, importante membro del Sinedrio vissuto realmente, per discolpare, in un processo del Tribunale giudaico, gli Apostoli arrestati (fra cui Simone e Giacomo), dall’accusa di istigazione uguale a quella di Theudas, Giuda il Galileo e i suoi figli Giacomo e Simone; accusa che comportava la pena di morte da parte dei Romani. Ma, poiché il discorso era (ed è) una assurdità è evidente che non fu fatto, pertanto era falso sia larresto che lassoluzione, perciò, a quella data, nessuno degli Apostoli era stato arrestato.
Al contrario, al verso 102, come sopra
abbiamo letto in “Antichità”, sia Giacomo che Simone, figli di Giuda il Galileo, vennero catturati per essere “sottoposti a processo” e poi giustiziati: dunque furono giudicati colpevoli e non più latitanti (nel 46/48 d.C., dopo la morte di Re Erode Agrippa).
                                                                                                                                                                                                                    Diversamente a quanto evidenziavano le vicende concrete, il vero scopo di san Luca era far apparire ai posteri che il Sinedrio aveva assolto gli “Apostoli”, fra cui Giacomo e Simone, dall’accusa, così come articolata in ipotesi dal sinedrista Gamalièle, di essere equiparati ai Profeti rivoluzionari quali, Giuda il Galileo, i suoi figli Giacomo e Simone, e il Profeta Theudas. Imputazione, come abbiamo visto, fatta "smontare" da un ignaro Gamalièle il quale, nella realtà, non avrebbe potuto prevedere la morte improvvisa di Re Agrippa I, né l'incarico del Procuratore Cuspio Fado, né che questi avrebbe poi ucciso Theudas.  
Tale “Atto del Sinedrio”, inventato e riportato in “Atti degli Apostoli”, convocato mentre Erode Agrippa era ancora vivo, è una falsificazione mirata a fugare ogni dubbio sulla condotta zelota degli “Apostoli”, dissociandoli dai sobillatori Theudas e Giuda il Galileo, e ad introdurre l’altra menzogna correlata alla persecuzione dei successori di Cristo da parte di Agrippa: la “fuga” dal carcere di Simone Pietro per l'intervento di un angelo di Dio (sic! At 12,7) nonché l’uccisione di Giacomo, falsamente addebitata al Re da “l’evangelista” impostore.

Risultato: un falso Atto del Sinedrio non poteva che essere nullo, pertanto la sua datazione e il suo scopo erano e sono nulli. Ne consegue che introdurre inAtti degli Apostoli un finto Atto del Sinedrio di Gerusalemme, il Supremo Consiglio del Sommo Sacerdote del Tempio, con funzioni giudiziarie e amministrative (pur se asservito al potere imperiale di Roma), operante nel I secolo, è un reato di cui si deve rispondere davanti alla storia.

Luca non si sbagliò ma si vide costretto ad inventare questo "Atto del Sinedrio" perché voleva impedire la identificazione di un apostolo con lo stesso nome di uno dei fratelli di Gesù. Inoltre doveva nascondere la relazione che intercorreva fra gli altri apostoli (con l'identico appellativo dei restanti fratelli di Cristo) e Giuda il Galileo, un famoso capo della rivolta popolare giudaica iniziatasi il 6 d.C. contro la dominazione di Roma. A tale scopo citò Gamalièle, un noto fariseo Dottore della Legge (ricordato più volte da Giuseppe Flavio ma defunto molte generazioni prima dello scriba "lucano"), per fargli testimoniare il falso sia su Theudas che su Giuda il Galileo, facendo risultare che quest'ultimo morì prima del Profeta - grazie all'affermazione riferita nel brano descritto "dopo di lui (Theudas) sorse Giuda" - col preciso intento di impedire a chiunque di sapere che il Profeta era uno dei figli rivoluzionari di Giuda, il capo degli Zeloti ormai morto da tempo, e infine comprendere il vincolo parentale, con il dirompente nesso, derivante dalla corrispondenza tra i nomi dei fratelli di Gesù e quelli dei figli del Capo degli Zeloti.

Oltre a fungere da "testimonianza", fu spacciato per vero un "giudizio" di assoluzione emesso nel corso di un "processo", istruito appositamente nell'ambito del Sinedrio, poichè lo scriba redattore di "Atti" aveva letto "Antichità Giudaiche" di Giuseppe Flavio ed al verso 102, come abbiamo visto sopra, é riferito che "Giacomo e Simone, figli di Giuda il Galileo, furono sottoposti a processo".
Pertanto, l'astuto evangelista celebrò un finto "contro processo" apposta per diversificare gli eventi ed impedirne la sovrapposizione grazie alla "assoluzione" degli apostoli Giacomo e Simone; in contrasto agli omonimi Zeloti, Giacomo e Simone, i quali, viceversa, furono condannati alla crocefissione. Lo scriba cristiano, infatti, sapeva che entrambi gli apostoli erano anch'essi "Zeloti" ... e fra poco lo verificheremo anche noi. 

Uno studioso che, seguendo la narrazione dello storico ebreo, giunge ai paragrafi dal 97 al 102 del XX Libro di “Antichità”, laddove si parla di Theudas e di Giacomo e Simone, i due figli di Giuda il Galileo, capisce che sono versi manomessi e il 101 addirittura interpolato per intero, ossia “incollato” in quel punto del Libro.
Esso si richiama ad una gravissima, luttuosa, carestia che afflisse i Giudei, già descritta dettagliatamente dall’ebreo qualche capitolo prima, la cui datazione era vitale per la dottrina cristiana: avrebbe permesso di individuare lanno in cui fu giustiziatoGesù”, le cause e il contesto storico che provocò l'evento.
Nell'argomento X dimostriamo la falsificazione della carestia riportata anche in "Atti degli Apostoli" e nella "Historia Ecclesiastica", scritta nel IV secolo, dallo storico Vescovo cristiano, Eusebio di Cesarea.

Ma procediamo per gradi e ritorniamo al testo di Giuseppe Flavio sopra riportato di (Ant. XX 97/102) sottoponendolo ad una analisi filologica. Notiamo che "Giacomo e Simone, figli di Giuda il Galileo", erano due veri appellativi giudaici completi del patronimico, obbligatorio secondo l'usanza di quel popolo, mentre "Theudasnon era un nome bensì un attributo che nel greco antico (koiné) voleva dire “Luce di Dio”.
Esso rende l’idea di una traduzione corretta dall'aramaico (Giuseppe scrisse le sue opere in tale idioma poi ne curò la versione in greco) ma non è accompagnato dal nome proprio né da quello del padre quindi non identificabile come dato storico da tramandare ai posteri; pur essendo evidente che si trattava di una persona importantissima se i Romani portarono la sua testa, nientemeno, dal fiume Giordano sino a Gerusalemme per esibirla alla popolazione come mònito. Lanomalia di questo attributo senza nome e senza patronimico è condivisa sia in “Atti degli Apostoli” (lo abbiamo visto col discorso di Gamalièle) che dal Vescovo Eusebio di Cesarea (IV sec. d.C.), il quale, unico storico oltre all'ebreo, riporta l'episodio esattamente come lo abbiamo letto sopra nella sua “Historia Ecclesiastica” (Libro II 11, 1-3) identificando il Theudas di "Atti" con quello di "Antichità"; e questo importante dato, già da solo, ci consente di accertare chi fu il primo falsario cristiano a capire quanto fosse dirompente per la sua dottrina il vero nome di Theudas.
                                                                                                                                                                                                                  Grazie alla carica di rilievo e all’influenza che esercitò sull’Imperatore Costantino e la sua Corte, Eusebio fu il primo cristiano ad aver la possibilità di accedere agli Archivi Imperiali e visionare gli scritti di Giuseppe Flavio reinterpretandoli nella sua "Historia" allo scopo di impedire l'identificazione dei veri protagonisti evangelici.

Fra le centinaia di appellativi giudaici dell'epoca, con il patronimico aggiunto obbligatoriamente al nome proprio per identificare le persone, l'unico da eliminarsi era quello di Giuda il Galileo. Qualsiasi altro sarebbe stato lasciato nella cronaca ... tranne quello del fondatore, il 6 d.C., della "quarta filosofia zelota" (così la chiamò lo storico), nazionalista rivoluzionaria, che propugnava l'uso della forza per liberare la terra d'Israele dall'occupazione romana ed eliminare le caste sacerdotali, opportuniste corrotte, così come quelle dei ricchi privilegiati ebrei.
I copisti amanuensi cristiani non potevano lasciare intatte, in un documento storico, descrizioni di vicende che, una dopo l'altra, vedevano come protagonisti tre uomini, giustiziati dai Governatori imperiali, con i nomi corrispondenti a quelli di tre fratelli di Gesù (stiamo per verificarlo), per di più risultanti figli di colui che fu Capo degli Zeloti; ergo fecero passare il titolo "Theudas" come se fosse un nome, dopo aver cancellato quello vero, ma, senza rendersene conto, firmarono la contraffazione con le proprie mani quando scrissero "sobillatore di nome Theudas"* nel testo originale greco
. Basta rileggere i brani storici su riportati per verificare che l'ebreo Giuseppe Flavio ha citato i diversi protagonisti direttamente col rispettivo appellativo, senza mai specificare "di nome": sarebbe stato superfluo in quanto già "nomi". La necessità di evidenziare una qualifica come "nome" dipese proprio dal fatto che non lo era.

* Il lemma originale giudaico, che Giuseppe Flavio tradusse in greco con "Luce di Dio", era scritto "Uriel"
יאֵ
אוּרִל

Nessun giudeo dell'epoca si chiamava così perché nella mitologia ebraica (cfr Bellum V 388) era l'angelo che, con la spada fiammeggiante di Dio, fece strage (185.000 uomini) di Assiri: l'intero esercito di Re Sennacherib il quale, dopo aver invaso il Regno di Giuda, tenne sotto assedio Gerusalemme. Non fu un caso se il sedicente profeta Giuda "Theudas" adottò come soprannome un titolo divino che per quella gente personificava la suprema giustizia vendicativa di Yahweh contro gli aggressori della Terra Promessa al Suo popolo. La santa qualifica calzava perfettamente con gli intenti degli Zeloti ... ma Cuspio Fado non era un seguace del Credo israelita e, abbiamo letto, "Uriel" non lo impressionò affatto. 
Del resto, la leggenda semita è un adattamento in chiave religiosa di un verosimile episodio bellico, accaduto nel 701 a.C., testimoniato da una tavoletta d'argilla trovata nel palazzo reale di Ninive e conservata presso il British Museum di Londra. In essa si riporta, più realisticamente, che "i capi dei Giudei pagarono 30 talenti d'oro e 800 d'argento oltre un immenso bottino" al Re Sennacherib per togliere l'assedio a Gerusalemme. Va da sè che le gesta dei "santi" eroi dell'Antico Testamento sono semplici leggende alla pari degli altri miti. 
                                                                                                                                                                                                                  
Riguardo a Giacomo e Simone rileviamo che manca la motivazione per cui, una volta processati, furono condannati alla crocefissione; non era infatti sufficiente la semplice discendenza da Giuda il Galileo, come imputazione, perché si sarebbe violata la legge romana (innanzitutto) e quella ebraica. Tanto più la prassi voluta dal diritto romano imponeva l'iscrizione del reato su di un cartello appeso al collo del giustiziato e l'evento successe quando Giuseppe Flavio aveva dieci anni. Inoltre, dal modo estemporaneo con il quale viene introdotto il par. 102 (basta rileggerlo) risulta chiaro che lo storico ebreo ha già parlato in un precedente passo delle gesta di entrambi gli Zeloti poiché vengono citati come fossero già conosciuti. 
La motivazione della discendenza, peraltro, sarebbe valsa subito anche per "Menahem", il cui vero nome, lo dimostreremo nel XV studio, era Giuseppe, ultimo figlio di Giuda e fratello minore di Gesù "Yeshùa", il quale morirà molto tempo dopo in circostanze precise ma non a causa della discendenza dal fondatore dello zelotismo. Giuseppe non poteva risultare fra gli "Apostoli" perché, all'epoca di "Gesù" adulto, era troppo giovane per essere riconosciuto capo carismatico in grado, con le sue profezie, di trascinare uomini disposti a rischiare la vita per un ideale nazional religioso.
                                                                            
Lo stesso vale anche per Theudas: il semplice fatto che “sobillasse” i suoi seguaci ad attraversare il Giordano per i Romani non aveva alcuna rilevanza, perciò anche questo dimostra che la notizia originale è stata successivamente mutilata da scribi copisti, come l'altra riguardante Giacomo e Simone. Ma perché “l’evangelista Luca” era talmente interessato a lui al punto di farlo dichiarare morto, da Gamalièle, anteriormente a Giuda il Galileo? Semplice: conosceva chi fosse realmente perché aveva letto “Antichità Giudaiche” prima che venissero censurate dagli amanuensi e, così come vi trovò scritto che i seguaci del Profeta erano quattrocento*, al contempo seppe che era figlio di Giuda il Galileo, ma, facendo risultare che muore prima di lui, egli non potrà mai essere identificato come suo figlio.

* Lo scriba falsario commise l'ingenuità di riportare questo dato storico preciso in "Atti degli Apostoli", pur essendo destinato ad essere modificato in "Antichità". Uno "squadrone di cavalleria" romana consisteva di 120 cavalieri, i quali, ben addestrati ed equipaggiati con armamento pesante, piombarono sugli Zeloti ed il suo capo massacrandoli agevolmente.   
                                                                                                                                                                                                                   
La lettura comparata fra i vangeli con le fonti storiografiche dell'epoca ci consentirà, procedendo nello studio, di individuare nel famoso Capo Zelota il reale padre di "Yeshùa". Ma non basta, la verità é definitivamente venuta a galla con la scoperta di Gàmala, la città di Giuda il Galileo, un potente Dottore della Legge (Rabbino) che rivendicava il diritto a divenire Re dei Giudei, come riferito da Giuseppe Flavio (Ant. XVII 272).
Le analisi appena fatte vengono confermate dalla realtà archeologica nonché dalla descrizione di Gàmala dello storico ebreo la quale corrisponde esattamente alla narrazione dettagliata di Nazaret che ritroviamo in tutti i vangeli; al contrario, la città attuale di Nazaret non ha nulla che coincida con la sua esposizione riferita in tali documenti.
Si può prendere visione della dimostrazione pubblicata nel successivo VII studio.


Parte II
 
Grazie a questi studi si sta evidenziando una realtà storica in contrasto con la nuova teologia, il cristianesimo come lo conosciamo oggi, evolutosi da una dottrina primitiva filo giudaica zelota che postulava una figura diversa di Messia ... e i primi ad esserne consapevoli, ovviamente, furono gli stessi "Padri" creatori della religione riformata.

Ecco perchè l’evangelista sapeva che il nome delProfeta Theudas eraGiuda”, ma in “Atti” lo chiamò “qualcuno” per evitare che l’attributo “Profeta” potesse essere collegato ad “Apostolo”. Allora diamo un’occhiata agli “Apostoli”.

                                                                                                                                                                                                                  

 Nominativi e qualifiche degli Apostoli nei vangeli canonici





* Il vangelo di Giovanni, come concorda la maggioranza dei biblisti, era già concluso al verso 30 del 20° capitolo, e in esso non risultano mai i due apostoli Giovanni e Giacomo. Soltanto nel 21° e ultimo cap. (Gv 21,2), aggiunto in epoca posteriore, dopo la resurrezione di Cristo leggiamo: "...i figli di Zebedèo..." e basta. L'apostolo "Giovanni" non compare mai nel vangelo di Giovanni col risultato che "Giovanni" non conosce se stesso, neanche come apostolo, da qui la necessità di aggiungere un secondo finale, al verso 25 del cap. 21, ottenendo un doppione del precedente. Come dimostreremo con le prossime analisi, il nome "Giovanni" non appare perché é Lui il Messia, "coperto" da un avatar inventato, lasciato senza nome, con l'intento di farlo sopravvivere alla sua morte: "il discepolo che Gesù amava".

Nella tabella constatiamo che l'apostolo Taddeo, "Taddaios" (in greco) "Thaddaeus" (in latino), è presente solo nei vangeli di Marco e Matteo ma, nelle rispettive lingue, era un nome inesistente nel I secolo; inoltre la loro similitudine poteva costituire una guida utile agli storici nel ricercare una corrispondenza con "Theudas" e, dopo averla intuita, sovrapporre il Profeta giudeo all'apostolo cristiano. Consapevole del rischio, nella tabella osserviamo che Luca ignora di proposito la scelta dei “Dodici” voluta da Cristo, secondo Matteo e Marco, e chiama Thaddaeus (Theudas) col suo vero nome:Giuda di Giacomo  

Giuda di Giacomo. Tutti erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i suoi fratelli(At 1,13-14).

Il brano lucano, riferito a "Giuda di Giacomo", non indica relazione di parentela, sebbene, nella "Lettera di Giuda" (1,1) lo stesso apostolo si definisca "fratello di Giacomo". E' questa "fratellanza", inaccettabile dalla propria dottrina, il vero motivo per cui la Chiesa oggi "dubita della sua autenticità", accampando ragioni diverse ma pretestuose, seppure in "Atti" si parli di più fratelli di "Gesù" sempre vivi dopo la sua crocefissione. Essa ha scelto recentemente, fra i tanti codici manoscritti in Suo possesso, quelli che riportano "Giuda figlio di Giacomo", fingendo di ignorare che altri amanuensi "testimoniarono" sul Codice Sinaitico "Giuda fratello di Giacomo" e, al contempo, fratello di "Gesù", stando al vangelo (in seguito epurato), letto nel IV secolo dal Vescovo Eusebio di Cesarea, in base al quale il prelato dichiarò nella sua "Historia Ecclesiastica" (3,19-20): "Giuda, che era fratello carnale del Salvatore ... fratello del Signore secondo la carne", confermato nel 392 d.C. da san Girolamo in "De viris illustribus" al cap. IV dedicato a Giuda apostolo. Testimonianze significative - ma pericolose per "l'Immacolata Concezione" unigenita della Madonna, Madre di Dio* - da smentire con forzature tipo quella del vangelo di Giovanni (Gv 6,71), ove spunta fuori un "Giuda, figlio di Simone Iscariota" col risultato che anche suo fratello Giacomo sarebbe figlio di Simone Iscariota, contraddicendo così la diversa paternità di due "Giacomo" apostoli, riportata dagli altri evangelisti: Giacomo il Minore, figlio di Alfeo (Lc 6,15) e Giacomo il Maggiore, figlio di Zebedeo (Mc 4,21).
Fra poco capiremo bene il movente che indusse i copisti cristiani a manomettere l'identità di questi "Giuda".
 
* La "Vergine Maria", sarà considerata "Madre di Dio" (Theotòkos - Lc 1,43) nel Concilio di Efeso del 431 d.C. con delibera imposta da san Cirillo; un secolo dopo la morte di Eusebio di Cesarea e undici anni dopo la morte di san Girolamo.
                                                                                                                                                                                                                   
Alcuni codici anziché "Taddaios" (Taddeo) riportano "Lebbaios" (Lebbeo), altri fondono, senza alcun senso in quanto diverse, le due designazioni in "Lebbeo soprannominato Taddeo", o viceversa. Fin qui si dimostra solo l'esigenza di modificare "san Taddeo" allontanadolo da un "Thaddaeus" troppo simile al vero "Theudas".
Ma la ricerca chiarisce definitivamente queste manomissioni quando in manoscritti vetero latini, a loro volta ripresi da vangeli greci arcaici, leggiamo che "Thaddaeus" è chiamato "Giuda Zelota", come risulta nei Codici contrassegnati secondo l'ordine dello "Apparato Biblico" nelle versioni vetus latinae "a,b,g,h,q": a= vercellensis; b= veronensis; g= sangermanensis (Paris); h= claromontanus (Clermont); q= monacensis (Monaco).
Quello che oggi viene definito come "Apparato Critico Biblico" consisteva di un elevato numero di vangeli, modificati ripetutamente sin dall'inizio, tradotti molti secoli addietro dal greco e trascritti in latino per essere diffusi in Europa, durante e in seguito la disgregazione dell'Impero Romano, allo scopo di soppiantare le credenze religiose autòctone illudendo quei popoli con la promessa della resurrezione dopo morti.
                                                                                                                                                                                                                    Stabilito che "Thaddaeus" nella realtà era "Theudas" - dal significato "Luce di Dio", un titolo riconosciuto ad un sedicente Profeta di nome Giuda - ritornando al "Giacomo" su richiamato, notiamo che Luca in "Atti degli Apostoli" non sente il dovere di specificare a quale “Giacomo” si riferisce, dei due che nomina in tale documento, e ciò significa che in origine c’era un solo Giacomo.
Infatti in "Atti degli Apostoli" non vediamo mai questi due "Giacomo" interagire affiancati e, fatto gravissimo, non viene riportato il "martirio" di Giacomo il Minore (il secondo): ne accertiamo la causa tramite apposita successiva indagine in cui si dimostra l’inesistenza di Giacomo detto “il Minore” o “il Giusto”. Infine, cadendo nel banale, come abbiamo appena visto con Giuda, i vangeli accreditano anche questo “Giacomo” di troppe paternità (Alfeo, Clopa, Zebedeo e Cleofa) per poter essere giustificato storicamente come persona reale.
Procediamo con l'analisi testuale evidenziando che Taddeo, ovvero Taddaios in greco e Thaddaeus in latino, erano nomi inesistenti in quelle lingue nel I secolo (verificare consultando i rispettivi vocabolari); furono traslazioni volutamente errate da un idioma all’altro per impedire l’identificazione dell'apostolo "Thaddaeus" col "Profeta Theudas" di nome Giuda, fratello di Giacomo, a sua volta fratello di Giovanni e di Simone, chiamati anche Boanerghès.
O meglio, se leggiamo l’insieme dei fratelli, riportati nei Vangeli, risulta: 

" Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, Ioses (Giuseppe), di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui con noi?” (Mc 6,3);
“Non è forse il figlio del carpentiere? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte fra noi?” (Mt 13,55-56).

Sono tutti nomi di stretta tradizione giudaica ai quali mancaGiovanni” (uno dei "Boanerghès"), indicato concostui” perché, come stiamo per rilevare, è lui il soggetto di cui parlano i Giudei. Se fosse stato un qualsiasi ebreo di nome “Gesù” (Yeshùa) lo avrebbero chiamato in questo modo, senza problemi, come per i suoi fratelli; inoltre, violazione gravissima al costume giudaico, non viene identificato con il patronimico bensì col nome della madre: è evidente che, oltre il Suo, non doveva risultare neanche il nome del padre. Se i passi di “Marco” e “Matteo” li avesse scritti un vero testimone ebreo avrebbe riferito così:

“Non è Gesùfiglio di (bar) Giuseppe il carpentiere, il fratello di GiacomoGiuseppe, di Giuda e di Simone?”.

Come sopra abbiamo visto, Giuda il Galileo era padre di Simone e Giacomo ma, essendo quest'ultimo fratello di Giuda Thaddaeus (vedi tabella), ovvero Giuda Theudas, ciò significa che Giuda il Galileo era anche suo padre.
Poiché Giuda il Galileo fu capo degli Zeloti, il movimento ebraico estremista violento, gli evangelisti hanno dovuto individuare i fratelli di Gesù con il matronimico anziché col vero nome del genitore.

Lo scriba cristiano, altrònde, non poteva far nominare “Gesù” ai Giudei in quanto "Yeshùa" (Colui che salva) è inteso nei vangeli come "Salvatore Divino" voluto da Dio (Mt 1,21), quindi non riconosciuto da Ebrei ancora in "Attesa" del loro Messia Salvatore, al contrario degli evangelisti che hanno creduto nel Suo "Avvento" in epoca storica successiva. Invero, se fosse stato il "Gesù Cristo" mirabile, come ci è stato inculcato oggi, i suoi paesani non l'avrebbero certo indicato come un semplice "carpentiere". Infine, il primo a non chiamarsi mai "Gesù" fu proprio Lui: in nessun vangelo Cristo afferma di chiamarsi "Gesù", ecco perchè non poteva essere il Suo vero nome (la analisi sul doppio significato del nome "Gesù" è pubblicata nel XIII argomento).
E' doveroso evidenziare che nel "Novum Testamentum Graece et Latine", A. Merk - Roma - Pontificio Istituto Biblico, anno 1933, in una nota a fondo pagina, il curatore, sacerdote gesuita Agostino Merk, riferì che alcuni codici latini - classificati, D R (Epm E Q) ed altri greci classificati, S D 565 1424 1207 MUss 472 280 Ass V
, risalenti al IX secolo - nel brano ora citato di Matteo (Mt 13,55-56) tra i fratelli, figli di Maria, è presente anche "Iohannes" "Iωαννης" (Giovanni). Tali codici, da secoli utilizzati per indottrinare i popoli europei, sono stati contrassegnati con un asterisco (*) a significare che "non sono attendibili". Ecco perché.

I lettori si saranno già resi conto del motivo per cui gli ecclesiatici, vere eminenze grigie nascoste, furono costretti a fare una cernita fra i manoscritti per eliminare quelli che includevano Giovanni dall'insieme dei figli di Maria. Gli esegeti avevano scoperto che bastava sottrarre dal totale dei figli di Maria, (5 più Gesù) riferito nei codici "non attendibili" di Matteo, l'insieme dei fratelli (4 più Gesù) citati nel vangelo di Marco (che indica "Gesù" con "costui"), per capire che "Gesù" era in soprannumero. Gli scribi cristiani del vangelo di Matteo sapevano che Giovanni era uno dei figli di Maria in base alla lettura del vangelo di Giovanni:

"Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che Egli amava (Giovanni), disse alla madre: «donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo:«Ecco tua madre!»...” (Gv 19,26).

Al fine di impedire l'identificazione di Giovanni con "Gesù", gli amanuensi decisero di depistare i credenti dando alla madre di Giovanni il nome composto "Maria Salome", laddove "Salome" è derivato dall'ebraico "Shalom" che significa "pace"; a questo punto non restava che assegnare a Giovanni un nuovo padre chiamato "Zebedeo" ed un solo fratello: Giacomo. Così facendo gli scribi separarono volutamente il significativo e pericoloso insieme dei fratelli ma, di "Giacomo", fra gli apostoli, ve ne sono due: Giacomo il Maggiore e Giacomo il Minore.
Il problemaancora irrisolto per la Chiesa, riguarda la fine di Giacomo il Minore, il martirio del quale non è riportato in "Atti"; un aspetto gravissimo che depone a sfavore delle testimonianze di tutti gli evangelisti i quali avrebbero dovuto distinguerli ... se fossero esistiti due "Giacomo".

Come attestato da Eusebio di Cesarea, il vangelo originale di Matteo era scritto in aramaico e, fra i tanti vangeli di "Matteo" tradotti in greco, la decisione di scartare quelli che, ancora oggi, contengono l'informazione completa sulla totalità dei fratelli - figli di Maria e moglie di un "carpentiere" non identificabile - fu ed è un'azione mirata ad impedire la conoscenza di fatti realmente accaduti che vedevano Zeloti, con i medesimi nomi dei fratelli di "Gesù", agire nella stessa epoca contro il dominio pagano di Roma sulla terra di Israele.
Bisognava evitare il rischio che qualche storico curioso facesse ricerche pervenendo a risultati definitivi tanto veritieri quanto pericolosi per la dottrina cristiana, derivata da quella giudeo messianica riformata, poiché gli esegeti del Clero sapevano, e sanno, quali erano le testimonianze riferite nella storia: le stesse che, ancora oggi, siamo in grado di rinvenire progredendo negli studi avvalendoci della stessa metodologia applicata a Theudas.

                                                                                                                                                                                                                   
Parte III

Si tratta di testimonianze riguardanti la vita e la morte di cinque uomini, con i nomi dei fratelli di "Gesù", uguali a quelli dei figli di Giuda il Galileo. Uomini che lottarono, sino al martirio, per l'ideale in cui credettero. 
Questi fratelli furono separati, in altri brani evangelici, volutamente - ma in modo talmente scoordinato al punto da dimostrarne le manomissioni - ed assegnati a padri inesistenti sposati a svariate "Marie", fra cui una è addirittura citata come "sorella della madre di Gesù", col suo stesso nome "Maria moglie di Cleofa":
 
"Presso la croce di Gesù stavano sua madre (Maria)la sorella di sua madre, Maria di Cleofa, e Maria di Màgdala" (Gv 19,25).
 
Tranne la "Maddalena", queste "Marie" (sono 6 nei Vangeli e in "Atti") risultano avere tutte figli con nomi (quelli di stretta osservanza giudaica) uguali fra loro, e uguali a quelli dei figli di Giuda, il potente "Dottore della Legge", Signore di Gàmala ... e fra poco lo accerteremo.

Per quanto concerne il mancato patronimico di (san) "Giuseppe", questi non esisteva nei vangeli primitivi ma lo troviamo solo nella finta "Natività" e nel brano di Luca "... non é figlio di Giuseppe?" (Lc 4,22): un interrogativo sciocco posto da paesani che avrebbero sicuramente saputo chi fosse il padre di "Gesù" dal momento che ne conoscevano la madre; infatti l'amanuense non fece rispondere "Gesù" a questa domanda per evitarGli di mentire. 
Gli scribi cristiani erano consapevoli che rivelando il vero padre di "Gesù", Giuda il Galileo, fondatore del movimento nazionalista rivoluzionario degli Zeloti, non avrebbero potuto giustificare la dottrina della salvezza dell'Agnus Dei.
Il mito del condottiero davidico, Salvatore del popolo di Israele dal dominio pagano, si evolse, dopo l'olocausto ebraico perpetrato nel 135 d.C. sotto Adriano, in un Messia universale estraneo all'integralismo giudaico violento, e fu proposto come docile "Agnello di Dio" da sacrificarsi a modo di una "Hostia" pagana, offerta - tramite il "prodigio" della transunstanziazionecreato in una frazione di pane - quale pasto teofagico per la "vita eterna" degli adepti fra gli stessi "Gentili" convertiti. In contrasto con la nuova dottrina cristiana riguardante le gesta dei reali protagonisti, Ebrei zeloti martirizzati ... quel mito doveva essere modificato.

* Secondo i Cattolici e buona parte degli Ortodossi, cioè quasi tutta la cristianità: conversione della "Hostia" latina "vittima sacrificata alla divinità", nel corpo e nel sangue di Gesù Cristo presente nell'Eucaristia. Dai Cattolici è contenuto in un sottile disco di farina impastata, per gli Ortodossi in una frazione di pane intriso di vino.

Il rituale eucaristico con l'offerta del proprio corpo e sangue fu istituito da Cristo nell'ultima cena. Ma, a nessun Profeta dell'Antico Testamento, Dio "Yahweh" aveva mai "rivelato" l'Avvento di un Messia che si sarebbe fatto sacrificare e dividere in tante particole da far inghiottire ai "beati poveri di spirito" per la loro "salvezza eterna". Siamo di fronte all'innesto di un rituale pagano nella religione ebraica tramite la riforma del leggendario, ancestrale, Messia davidico.
Ormai in contrasto con la nuova dottrina cristiana in conseguenza delle gesta dei veri protagonisti, màrtiri zeloti per la causa giudaica, quel mito doveva essere modificato.
Infatti, come si può dimostrare col dettagliato esame pubblicato più avanti, anche le difformi "Natività di Gesù" furono riprese dalle "Immacolate Concezioni" politeiste dei Semidei orientali - inventando così "san Giuseppe, Maria Vergine e Gesù bambino" - ed aggiunte nei soli vangeli di Luca e Matteo in un periodo successivo.

I nomi dei fratelli corrispondono a quelli di alcuniapostoli” ai quali manca “Giuseppe” poiché, ripetiamo, ultimo di loro era ancora troppo giovane all’epoca di “Gesù” per essere riconosciuto, come Profeta condottiero, da uomini pronti a dare la vita per una causa nazionalista. Giuseppe, soprannominato Menhaem, nel 66 d.C., a capo degli Zeloti attaccherà i Romani riuscendo a conquistare il potere ed insediarsi sul trono come Re dei Giudei.

"Fu allora che un certo Menhaem, figlio di Giuda detto il Galileo, un Dottore (della Legge) assai pericoloso che già ai tempi di Quirinio aveva rimproverato ai Giudei di riconoscere la Signoria dei Romani quando già avevano Dio come Signore ..."
(La Guerra Giudaica II 433).

Per inciso, nel XV studio, la dimostrazione che "Menhaem" corrisponde al fratello minore di
Yeshùa, nei vangeli chiamato Giuseppe, in realtà l'ultimo dei figli di Giuda il Galileo, sarà semplice come "l'uovo di Colombo".

Apostoli con qualifiche aggiunte come: “Zelota” o “Cananeo”, “Iscariota”, “Barionà” e "Boanerghès", che significano “fanatico nazionalista”, “sicario”, “latitante, ricercato” e "figli dell'ira".
Simone Pietro e lo stesso “Gesù” vengono accusati di essere Galilei nel vangelo di Matteo (Mt 26,69) "Anche tu (Simone Pietro) eri con Gesù il Galileo", pur sapendo che san Pietro era nativo di Betsàida (Gv 1,44) in Gaulanite, non in Galilea. Lo storico giudeo Giuseppe attesta che i "Galilei" erano gli ebrei più focosi e nazionalisti, pronti a ribellarsi; inoltre è importante sottolineare che "Galileo" era la qualifica che distingueva "Giuda il Galileo", il quale, anche lui, non era nativo della Galilea ma della città di Gàmala (sempre in Gaulanite) le cui rovine, ribadiamo, sono conformi alla Nazaret descritta nei vangeli. Pertanto "Galileo", oltre indicare la regione di appartenenza era considerato anche sinonimo di "estremista ebreo".
                                                                                                                                                                                                                    
I Galilei erano famosi per il coraggio con cui affrontavano la morte e il filosofo stoico Epitteto di Ierapoli, alla fine del I secolo così li rappresenta: "Anche per follia uno può resistere a quelle cose (i supplizi), o per tradizione, come i Galilei " da "Dissertazioni del discepolo Arriano" (Digestae IV 6,6). Lo stesso discepolo di Epitteto, Lucio Flavio Arriano (95-175 d.C.), in "Digestae II 9,19-21" precisa che si tratta di "Giudei".
Gli storici genuflessi odierni, ben coordinati fra loro per dare maggior peso alle menzogne, dichiarano sfrontatamente che Epittèto per "galilei" intendeva "cristiani seguaci di Gesù". Dunque, in virtù della "fede", i loro occhi stravedono e traducono "Γαλιλαιοι" (Galilei) e "Ιουδαιοι" (Giudei) con "Cristiani gesuiti", pertanto considerano Epittèto una "sicura fonte extra cristiana". E Wikipedia gli fà opportuna "eco" promuovendo una capillare "opera di apostolato".
      
Il movimento zelota fondato da Giuda il "Galileo" viene descritto da Giuseppe Flavio ancor più efficacemente:

"Ad essi poco importa affrontare forme di morte non comuni...la maggioranza del popolo ha visto la tenacia della loro risoluzione in tali circostanze che non ho timore che qualsiasi cosa riferisca a loro riguardo sia considerata incredibile. Il pericolo, anzi, sta piuttosto nel fatto che la mia esposizione possa minimizzare l'indifferenza con la quale accettano la lacerante sofferenza delle pene" (Ant. XVIII 24).

Comprendiamo che i Romani, dal loro punto di vista, avevano forti motivi per catturare e uccidere gli Zeloti in quanto "fanatici nazionalisti" si opponevano al dominio pagano, e questo valeva anche per i "fratelli di Gesù" i quali, come stiamo per verificare, corrispondono tutti ai figli di Giuda il Galileo. Inoltre, sempre osservando la tabella degli “Apostoli”, si capisce che il Simone, qualificato come zelota, cananeo e sicario, é replicato. E’ lo stesso Simone Pietro detto Kefaz in lingua semita, (evangelizzato in Cefa) che vuol dire “pietra”, indicato altresì come Barionà che, sempre in aramaico, significa “latitante ricercato”: un sicario Zelota, una volta individuato, non poteva che darsi alla màcchia per non essere catturato e ucciso dai Romani.

L'unico "apoistolo" col nome di autentica tradizione giudaica, non appartenente alla cerchia dei fratelli, è Matteo. Esso viene chiamato anche Levi, con un impossibile doppio nome ebreo, indicato come “Pubblicano” e designato a testimoniare dal vero le vicende di Cristo sin dalla nascita. Ma nella tabella notiamo che "Matteo Levi" non esiste nel vangelo di Giovanni: é impossibile, non ha senso. Se fosse stato uno dei “dodici apostoli” avrebbe dovuto riferirlo anche "Giovanni", a maggior ragione poiché gli scribi cristiani li fanno apparire entrambi "colleghi" redattori di vangeli. 
Nel vangelo di Matteo (lui stesso) si dichiara “Pubblicano”: altra assurdità. I Pubblicani erano gli esattori che riscuotevano i tributi dovuti all’Imperatore previa effettuazione di un censimento, pertanto, gli altri “apostoli” Zeloti e sicari, aderenti alla quarta filosofia zelota contro la tassazione di Roma lo avrebbero ucciso senza ripensamenti essendo un nemico ideologico da eliminare, come postulato dallo stesso Giuda il Galileo quando capeggiò la guerra contro il censimento decretato da Cesare Augusto:

Giuda si gettò nel partito della ribellione gridando che «questo censimento mirava a mettere in totale servitù» e incitava la Nazione ad un tentativo di indipendenza. I fanatici nazionalisti (gli Zeloti) «...non indietreggeranno di fronte allo spargimento di sangue che potrà essere necessario, e la Divinità (Yahweh) ne avrebbe favorito l'impresa fino al successo»” (Ant. XVIII 5,6).
                                                                                                                                                                                                                   

Matteo è un falso protagonista. L'evangelista cristiano che ideò quel nome, molto tempo dopo i fatti descritti, operò al solo scopo di rendere più credibile la propria "testimonianza" facendolo apparire un attore ebreo di quelle vicende.
Gli esegeti cristiani lo hanno fatto nascere a Cafàrnao (vedi "Udienza Generale" del 30 agosto 2006 di Benedetto XVI) ma, inconsapevoli delle risultanze storiche, hanno commesso il grave errore di insediare in quel villaggio l'apostolo "Matteo Levi" come Pubblicano, esattore incaricato per la riscossione dei tributi per conto di Roma, mentre, in realtà, la responsabilità di tale incombenza era delegata direttamente ad Erode Antipa il quale, essendo la sua Tetrarchia considerata un Protettorato romano, operava in piena autonomia come suo padre Erode il Grande. Antipa era tenuto a versare all'Imperatore Tiberio un tributo annuo fisso di duecento talenti d'oro (Ant. Giu. XVII 318), mentre l'apparato amministrativo delle riscossioni risiedeva nella capitale della Galilea: Tiberiade.
In realtà, il redattore di questo vangelo in greco, ripreso da un vangelo primitivo originale che fu tradotto, non poteva essere un giudeo, padrone dell’aramaico, perché non comprese il significato di “cananeo” e lo trascrisse in forma ellenizzata riferito a “Simone” ("qanana" in aramaico). L’accostamento prospettico, nella tabella, con "Simone Zelota" del vangelo di Luca non lascia dubbi.

Il vangelo di “Giovanni” riporta “Iscariota”, ma Giuseppe Flavio, in “Guerra Giudaica” riferisce, approfonditamente, nel cap. 8° del VII libro (par. 253/255), attraverso un ricordo lontano nel tempo, che i Sicari erano il braccio armato degli Zeloti, i seguaci della “quarta filosofia” fondata da Giuda il Galileo, ed agivano contro i propri connazionali filo romani a partire dal 6 d.C.

Che lo scriba evangelista con lo pseudonimo “Matteo” non sia stato un ebreo, né mai vissuto in Giudea, è dimostrato in altri molteplici passaggi del suo Vangelo, ad iniziare da quello riguardante l’insieme dei fratelli di “Gesù” indicati col nome della madre anziché col patronimico,come imponeva l'usanza giudaica; inoltre, sulla “Natività” (come verifichiamo nel successivo studio), dimostra di non conoscere i luoghi, la storia giudaica dell’epoca di Cristo e l’Antico Testamento, cadendo, peraltro, in contraddizione grave con la sua qualifica di funzionario esattore “Pubblicano”. Ad esempio, in riferimento al suicidio di Giuda il traditore, riportiamo il grave errore commesso da un impossibile testimone ebreo "Matteo":

“Perciò quel campo fu chiamato «Campo di sangue» fino al giorno d'oggi. Allora si adempì quanto era stato detto dal profeta Geremia: e presero trenta denari d’argento, il prezzo del venduto, che i figli d’Israele avevano mercanteggiato, e li diedero per il campo del vasaio, come mi aveva ordinato il Signore” (Mt 27,9).

Un vero ebreo non avrebbe mai citato l'adempimento di un vaticinio che il Profeta Geremia non ha mai espresso.

Giuda detto Theudas era un Profeta “sobillatore” (rivoluzionario), fratello di Giacomo, a sua volta fratello di Simone il quale, insieme a Giovanni e Giuseppe (l’ultimo), costituiscono la cerchia di fratelli evangelici tutti con nomi di tradizione giudaica. Solo questi nomi, autenticamente ebraici - dalla lettura del “Novum Testamentum” A. Merk S.I., Roma, Pontificio Ist. Biblico, Anno 1933; e, “Novum Testamentum” H. Kaine, Paris, Edit. Ambrogio F. Didot, Anno 1861 – risultano accompagnati da qualifiche e attributi, quindi da atti, conformi allo stesso Profeta “sobillatore” Giuda Theudas ucciso da Cuspio Fado nel 45 d.C.:
Zeloti” che, dall’interpretazione in greco di Giuseppe Flavio, indica i “fanatici nazionalisti”; “barionà”, in aramaico, vuol dire “latitante fuorilegge”; “Iskarioth” forma omofona grecizzata del latino "sicarius" da cui "sicariota", l'attentatore armato di "sica", un lungo pugnale ricurvo in uso all'epoca e in coerenza con l'ebraico "ekariot" che sta per "sicario"; “boanerghès*, significa “figli dell'ira” o “figli della collera”; “cananeo” da “qanana” in aramaico, equivalente a “zelota”, e “galilei”, come “fuorilegge”.
Erano tutti figli di Giuda, ideatore dello zelotismo antiromano, detto “il Galileo”.

* L’amanuense cristiano, con lo pseudonimo di “Giovanni detto anche Marco” - che trascrisse in greco un vangelo aramaico primitivo - nel versetto (Mc 3,17) riportò il vocabolo βοανῆργε” (leggi “Boanerghès”) e lo tradusse con la espressione Υἱòι βροντῆς" (leggi “Uiòi Brontés”) che vuol dire “Figli del Tuono”. Egli intese, volutamente, documentare la voce come se quel concetto fosse testimoniato da un cittadino ellenico dell’epoca.
E’ oggi accertato che nessun greco di allora avrebbe mai detto o scritto βοανῆργε'ς (Boanerghès) per significare “Figli del Tuono” ma si sarebbe limitato a dire o scrivere Υἱòι βροντῆς (
“Uiòi Brontés”).

Infatti, in tutta la letteratura greca classica, βοανῆργε'ς, citato nel vangelo, è lunico caso ove ricorre tale vocabolo; ne consegue che la parola non può avvalersi di alcuna etimologia, pur se scritta in tale lingua, ed è quanto risulta nei vocabolari.
In realtà la fonetica è di origine ebraica, non greca, e il suo etimo lo ritroviamo in due sezioni del lemma: il primo, “boan e”, un modo di “bèn e” che significa “figli di”; il secondo, “rghès” la cui radice semitica indica “ira”.
In ebraico antico, la lingua usata dai Dottori della Legge (Rabbini),
בנירגש "benerghèsh" significa "figli dell'ira". Pertanto
βοανῆργε'ς(“Boanerghès”) vuol dire Figli dellira. L'unica "ira" cui richiamarsi nella società teocratica israelita, con la Terra Santa profanata dai pagani, era "L'Ira di Yahweh", il Padre (Abba) del "popolo eletto" i cui figli prediletti, discendenti di Davide, non potevano che essere gli Zeloti.  
Dunque la proposizione “Figli del Tuono”, secondo il progetto dello scriba cristiano che lo riferì, esprime un concetto riduttivo e fuorviante rispetto all’originale vocabolo ebraico il quale, effettivamente, rivela il medesimo intento ribelle nazionalista degli altri fratelli Zeloti.
Troviamo infine conferma, al brano di Marco appena citato, nel vangelo di Luca (Lc 9,53) ove Giovanni e Giacomo, i fratelli apostoli “Boanerghés”, intendono incendiare un villaggio della Samaria ma … vengono fermati da “Gesù”; nel contempo la storia ci insegna che i Giudei erano nemici dei Samaritani e in guerra tra loro, all’epoca di Cristo.
                                                                                                                                                                                                                   

E’ d’obbligo evidenziare che tali qualifiche rivoluzionarie sono riferite solo adapostoli fratelli che hanno lo stesso nome, di stretta osservanza giudaica, dei fratelli di "Gesù". Al contrario, gli apostoli con nomi greci, senza alcuna designazione ribelle, vengono tutti cancellati dalla storia come dimostriamo ad iniziare da "Filippo" nello studio successivo su "Paolo di Tarso": entrambi inventati.
Gli appellativi escogitati successivamente, tutt'oggi in uso, sono serviti, attraverso contraffazioni delle traduzioni nelle varie lingue e la manipolazione dei termini originali, sia a celare le vere identità dei fratelli Zeloti dietro "santi apostoli", sia a "replicarli" fino a raggiungere il numero, significativo giudaico, di "Dodici", come fecero dichiarare a Cristo nel vangelo:

"Siederete anche voi (gli apostoli) su dodici troni a giudicare le dodici tribù d'Israele" (Mt 19,28).

In particolare troviamo replicati: Simone detto "Pietro il Galileo" con Simone lo Zelota o il Cananeo (alcuni manoscritti riportano "Cananite"); Giacomo il Maggiore con Giacomo il Minore (quest'ultimo, alter ego del primo, viene cancellato dalla storia come provato nel successivo studio); Giuda detto Thaddaeus (traduzione latina volutamente fuorviante di Theudas) con Giuda detto Thomà (san Tommaso) e con Giuda Iskarioth (sicariota), qualifica grecizzata del latino attentatore assassino "sicarius". A questo punto i lettori si saranno accorti che la sovrapposizione di "Giuda Iscariota" con "Giuda non Iscariota" cancella il famoso "bacio di Giuda", divenuto simbolo infamante dell'inganno più abbiètto nel mondo cristiano.
Oltre a quanto sopra rilevato (dopo la tabella) sulle contradditorie parentele di Giuda, leggiamo cosa dicono i vangeli in merito all'apostolo rinnegato dopo che questi aveva tradito "Nostro Signore Gesù" per trenta denari.

In Atti (1,18) il "testimone oculare" san Pietro riferisce un episodio raccapricciante:

"Giuda comprò un pezzo di terra con i proventi del suo delitto poi, precipitando in avanti, si squarciò in mezzo e si sparsero fuori tutte le viscere".
L'altro apostolo, "testimone oculare" anche lui, Matteo, invece, così la racconta:
"Giuda, gettate le monete d'argento nel Tempio, si allontanò ed andò ad impiccarsi" (Mt 27,5).
Mentre san Paolo, nella I Lettera ai Corinzi (15,4-5), ci informa che:
"Cristo fu sepolto e resuscitato, il terzo giorno apparve a Cefa (Kefaz, san Pietro) e ai dodici apostoli".
Essendo "dodici" vuol dire che fra essi era presente anche Giuda "
il traditore" sempre vivo, infatti, questo apostolo, all'evangelista Giovanni non risulta che si sia suicidato.
                                                                                                                                                                                                                   
E' evidente che tali incompatibili deposizioni non hanno alcun valore probatorio se non dimostrare la montatura di un "apostolo", sfruttata, peraltro, con fini ideologici legati a un nome che identificava l'odiata etnia giudaica accusata di aver ucciso "Gesù" senza averlo riconosciuto come proprio Messia Salvatore.
Alcuni esegeti clericali, consapevoli di questa assurdità evangelica, provano a rimediare ricorrendo a ipotetiche, personali, "rivelazioni divine" per tentare di giustificare le contraddizioni connesse a questa morte immaginaria (destino macabro teatrale o semplice suicidio?; proprietario terriero o nullatenente?) ... sino a reinterpretare le "Sacre Scritture", modificandole di fatto.  
In realtà, come già dimostrato sopra, il vero Giuda, autentico zelota sicario, fu ucciso da Cuspio Fado.
                                                                                                                                                                                                                   
Escludendo gli apostoli replicati, i nomi di stretta osservanza ebraica, riportati come fratelli, sono:
Giovanni, Giuda, Simone, Giacomo, e Giuseppe. Ad iniziare da Giovanni, uno dopo l'altro furono giustiziati dai Romani come martiri irredentisti, tranne l'ultimo, Giuseppe, troppo giovane all'epoca per militare come capo Zelota sicario.
  
In contrasto furono aggiunti apostoli con appellativi derivati da aggettivi come san "Bartolomeo", nome inesistente in greco e latino nel I secolo, il quale, separato dall'usueto "bar" aramaico biblico, diventa "bar tolomeo" che vuol dire "figlio di Tolomeo". Poichè Tolomeo era un nome greco che significava "Valoroso", adottato da alcuni sovrani egizi ellenizzati, quindi "Bartolomeo" significa "Figlio del Valoroso", ma ... un apostolo che non viene testimoniato nel vangelo del suo "collega apostolo" Giovanni è un vuoto, talmente vistoso e banale, più che sufficiente a dimostrarne l'inesistenza.
Altro apostolo, semplice aggettivo - citato in "Atti degli Apostoli" ma poi dimenticato e lasciato senza gesta che ne attestino l'esistenza - è Andrea, dall'epiteto greco "andreas" che vuol dire "vigoroso", una caratteristica di Simone a lui "affratellata" così: "vigoroso, fratello di Simone"; o, ancora, san Tommaso, dall'aramaico "thomà" che significa "gemello", o dal greco "didymos" anch'esso equivalente a "gemello", sino al punto di escogitare uno strano sostantivo composto da due aggettivi in due lingue diverse con le iniziali maiuscole "Tommaso detto anche Didimo" (Gv 11,16) che vuol dire "Gemello detto anche Gemello", privo di significato e ... molto buffo. Un nome così insensato non poteva appartenere a nessuno sulla faccia della terra; è solo un errore commesso da uno stupido scriba intento a manipolare la traduzione in greco di un testo senza essere padrone dell'aramaico e, non essendo egli neanche giudeo, non poteva sapere che nessun ebreo della Palestina adottava come nome "thomà" essendo un aggettivo qualificativo. Oltre a ciò, questo "apostolo" fuoriesce dalla storia anche perché, dal vangelo letto da Eusebio di Cesarea risulta che Giuda e Tommaso ("Thomà" in aramaico) sono la stessa persona:

"«Dopo l'ascensione di Gesù, Giuda, detto anche Tomaso, mandò ad Abgar l'Apostolo Thaddaeus»" (HEc. I 13,11).

Poiché la sovrapposizione Giuda-Tommaso cancella un apostolo, nella tabella ne rimarrebbero undici: fatto assurdo. Questa è la prova evidente che i vangeli furono ulteriormente modificati dopo Eusebio di Cesarea, ma noi abbiamo dimostrato sopra che Thaddaeus, in realtà, era Giuda Theudas. Si trattava di un sedicente Profeta zelota con due titoli aggiunti ("Profeta" e "Luce di Dio") al vero appellativo semita: Giuda. La dottrina cristiana non poteva ammettere la violenta genesi zelota ebraica dei fratelli di Cristo senza coinvolgere anche Lui, pertanto questi furono celati nel "mucchio" di "Dodici Apostoli" dei quali alcuni nomi risultano consueti attributi aramaici traslati scorrettamente in lingua greca. Semplici aggettivi che, col trascorrere dei secoli, grazie all'ignoranza dei fedeli sul vero significato originario, furono accettati e adottati come nomi di persone.

Nella tabella degli apostoli, il solo vangelo di Giovanni, riporta "Natanaele" che in semitico "celestiale" voleva dire "Dono di Dio": non era un appellativo usato dal popolo ebraico nel I secolo. Era un antico attributo biblico fatto passare per nome, a conferma, come già riferito, che gli scribi cristiani redattori dei vangeli non erano Giudei.
Ovviamente, l'inesistente Natanaele viene ignorato dagli altri evangelisti mentre "Giovanni" riferisce che Natanaele riceve l'annuncio dell'Avvento di Gesù Cristo da parte di Filippo (Gv 1,45) ... ma, nello studio successivo su "Paolo di Tarso", dimostriamo, storia alla mano, che l'apostolo Filippo non è mai esistitodi conseguenza anche Natanaele è una finzione...come gli altri "Apostoli".  
Una invenzione scollegata fra gli stessi evangelisti ed estremamente imbarazzante per la Chiesa al punto che, senza alcuna base o riferimento storico, evangelico, filologico, i Suoi esegeti azzardano che "Natanaele (Dono di Dio) viene comunemente identificato con san Bartolomeo (Figlio del Valoroso)". Solo un visionario mistico può intravedere una correlazione fra i nomi
* "Dono di Dio" e "Figlio del Valoroso", affinché possano essere accomunati; pertanto ogni ulteriore commento diventa superfluo.
* Il più famoso biblista ed esegeta esistente, il sacerdote John Paul Meir, docente presso le Università Cattoliche in Italia e negli U.S.A., nella sua ponderosa opera "A Marginal Jew: Rethinking the Historical Jesus", vol. 3, pagg. 199/200, rigetta categoricamente la "identificazione", quindi la sovrapposizione di "Natanaele" con "Bartolomeo".
A maggior ragione perché anche lo storico Vescovo, Eusebio di Cesarea (morto nel 340 d.C.), nella sua "Historia Ecclesiastica", scritta entro il 325 d.C., pur riferendo le gesta degli Apostoli, non conosce "Natanaele". Ciò significa che questo "apostolo" è stato inserito nei vangeli dopo il Concilio di Costantinopoli del 381 d.C. 

Ma torniamo ancora sulla interazione Natanaele-Filippo: il primo riceve l'annuncio dell'Avvento di Gesù "testimoniato" da un inesistente Filippo e della "rivelazione" del "Figlio di Dio" tutt'uno con il "Padre", come stabilito nel "Credo" dai Vescovi cristiani nei Concili indetti nel corso del IV secolo (tre secoli dopo Cristo).

"Filippo, da tanto tempo sono con voi e ancora non mi conosci? Credetimi, io sono nel Padre e il Padre è in me"
(Gv 14,9-11).
"...questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea ..." (Gv 12,21).                                                                                                                                                                                                                     Gli amanuensi che "incollarono" in modo posticcio questo "Filippo" nei loro vangeli non avevano la reale conoscenza dei luoghi in cui decisero far muovere i loro fantasiosi personaggi al punto di ubicare Betsàida in Galilea anzichè in Gaulanite dove essa era edificata e successivamente ingrandita, dopo la morte di Erode il Grande, da suo figlio il Tetrarca Erode Filippo, appartenendo al territorio da lui ereditato (Ant. XVIII 28). 

Lo stesso problema investe anche gli apostoli Andrea, Giacomo il Maggiore, Giovanni e san Pietro, tutti indicati dalla Chiesa come nativi a Betsàida in Galilea. Così il vangelo: "Filippo era di Betsàida, la città di Andrea e Simone Pietro" (Gv 1,44). In Galilea, quindi "Galilei" come il personaggio "Gesù", evidenziando, di fatto, le concrete gèsta dei nazionalisti integralisti "Galilei". Infatti, nei vangeli di Matteo e Luca, a noi pervenuti, si afferma che Simone Pietro e "Gesù" furono accusati di essere "Galilei": "Anche tu, Simone, eri con Gesù, il Galileo" (Mt 26,69); "«In verità, anche questo (Simone Pietro) era con Lui (Gesù): è anche lui (Simone) un Galileo!»" (Lc 22,59); quando sappiamo tutti che Gesù era nativo di Betlemme e visse a Nazaret.
                                                                                                                                                                                                                   
Non potendo riconoscere il significato zelota di "Galileo" attribuito a Gesù e a Pietro, di fronte alla contraddizione geografica di una Betsàida erroneamente indicata in Galilea dall'evangelista, alcuni esegeti clericali odierni azzardano l'ipotesi di una seconda Betsàida sita in Galilea; altri si limitano, timidamente, a dichiararne l'ubicazione incerta, fingendo di ignorare la collocazione precisa indicata da Giuseppe Flavio. L'errore geografico attinente a Betsàida, commesso dallo scriba cristiano, dimostra il rimaneggiamento dei vangeli originali al fine di sviare il significato del lemma "Galileo", inteso come "ribelle", per farlo sembrare "abitante nativo della Galilea". 
Poiché in quella regione era concentrato il maggior numero di Ebrei integralisti, lo abbiamo provato appena sopra, con il generico termine di "Galilei" gli storici indicavano tutti i Giudei fanatici nazionalisti, in lotta contro il dominio romano, votati al martirio e costretti a pene strazianti una volta individuati e catturati.
 
La accezione comune del vocabolo "Galileo", lo stesso attribuito a Giuda il Galileo (nativo di Gàmala in Gaulanite, non in Galilea), ovviamente, valeva anche per i suoi veri figli: "Gesù" e "Simone Pietro", entrambi accusati nei vangeli di essere "Galilei" sovversivi. Per una migliore comprensione dei protagonisti evangelici, a riprova che in realtà erano capi ebrei Zeloti, si rende necessario rimarcare, ulteriormente, che la descrizione di Gàmala (la città di Giuda il Galileo), equivale alla rappresentazione della Nazaret riferita nei vangeli. Viceversa, come dimostriamo nell'apposito studio VII, la Nazaret odierna non ha niente in comune con la città di Cristo.
Pertanto la patria di Gesù e dei suoi fratelli era Gàmala, la roccaforte degli Zeloti, unica città a non essersi mai sottomessa al dominio romano sino agli inizi del 68 d.C., quando fu costretta a capitolare dopo tredici mesi di assedio da parte dell'esercito di Re Agrippa II cui si aggiunsero tre legioni romane di Vespasiano e Tito che la rasero al suolo.
                                                                                                                                                                                                                  

Parte IV
 
Non semplici sviste ma errori gravi si riscontrano in continuazione nei testi sacri durante il corso evolutivo di un mito, inizialmente diverso, le cui varianti hanno richiesto secoli per celare le vicende sanguinose imposte dal fondamentalismo nazionalista giudaico in guerra contro la dominazione romana della terra d'Israele.

Gli attributi e le qualifiche dei protagonisti teologali, ripresi dai vangeli originali primitivi, richiesero un intervento “correttivo” da parte degli scribi cristiani quando la Chiesa ne comprese il vero significato.
Un esempio di come sia stata eseguita la falsificazione di “Simone”, per trasformarlo in “Pietro figlio di Giona” (san Pietro), lo troviamo nei due “Novum Testamentum Graece et Latine” su riferiti, di cui riproduciamo copia:

                                                                                                                                                                                                                   


dove possiamo notare, nel testo centrale in greco a destra (Mt 16,17), il vocabolo “Barionà” riferito a Simone - un aggettivo qualificativo che in aramaico significa “latitante, ricercato” - in greco non viene tradotto ma traslato con la lettera maiuscola in modo da farlo apparire un nome di persona: “Simon Barionà”. “Barionà”, come nome proprio di persona, nell’aramaico antico non è mai esistito, tanto meno in greco o latino, e la falsificazione diventa addirittura ridicola attraverso la comparazione delle traduzioni.
Infatti, a sinistra, nella versione latina fu diviso in “Bar Iona” con l'accento tolto sulla "a" finale; pertanto "Barionà" (latitante) diventa: Bar (“figlio di” in aramaico) Iona … filius Iona … figlio di Giona. βαριωνα' (il "latitante" aramaico diventa Βαρ Ιωνα “figlio di”), quindi Bar Iona; lemma che, l'amanuense, per non modificare ulteriormente il vocabolo originale, trascrive in latino indeclinato errato: "filius Iona" (anziché Ionae), tradotto in italiano "figlio di Giona".
                         

Se “Iona” fosse stato veramente il nome di una persona avremmo dovuto trovarlo, sin dallinizio, sempre separato da “bar” minuscolo, come per “filius” latino o “uios” ύιος greco; vocaboli usati spesso e senza problemi nei Vangeli … tranne in questo caso. Nel testo del 1861, in basso a destra in latino, “Pietro” non esiste: solo Simon Bar-Jona; e a sinistra, in greco, riporta Bar staccato. Nelle lingue latina e greca “Bar” e Βαρ non sussistono; allora sia nel testo latino che in quello greco Bar - Βαρ, come in aramaico, vorrebbero apparire “figlio”, ma, essendo traduzioni a suo tempo destinate a fedeli di lingua greca o latina, è assurdo tentare di farli passare come tali sapendo che in latino si dicono filiuse in greco ύιος (ùios).

In alto a destra, nel testo (Ioh= Gv 1,42), poiché il vocabolo “Cephas” in latino non esiste, si dice che deve (sic!) essere “interpretato Pietro; anche nel greco antico, in alto a sinistra, “Kefaz” (Κηφας) non può ricorrere in tale idioma: è aramaico (sasso, pietra), ma ci viene imposto che ... “significa Pietro”. In latino pietra = lapis, saxum; in greco = lithos, petra (minuscolo e maikefaz”). Le tre parole originali in aramaico erano Simon, kefaz, barionà, che tradotte vogliono dire: Simone detto Kefaz (pietra, nel senso di “duro, massiccio”), latitante ricercato. Nella realtà Simone era uno dei fratelli zeloti già ricercato dai Romani sin da quando “Gesù” era ancora in vita e la sua identificazione era facilitata dalla vistosa corporatura massiccia. Fu un capo zelota e, come tale, consapevole di condurre una lotta integralista sino alla estrema conseguenza del martirio; di fatto avvenuto assieme al fratello Giacomo, tramite crocifissione, dopo la cattura per opera del Procuratore Tiberio Alessandro nel 46 d.C.
La mescolanza delle lingue e la manipolazione dei vocaboli tradotti furono, nel tempo, sfruttati volutamente, dopo averne travisato il senso, da scribi professionisti consapevoli di trattare con ingenui credenti.

Queste “tecniche” di traduzione sono soltanto uno dei modi con cui si può falsare il significato della vita di una persona e, se la Chiesa ha fatto "carte false" per trasformare "barionà" sino a farlo sparire nei Vangeli moderni, ciò sta a dimostrare che il significato di "latitante ricercato", espresso dal testo originale, è reale, pertanto Essa lo considera veramente pericoloso e in contrasto alla nuova dottrina evolutasi nei secoli futuri da quella giudaica originale.
Pertanto, nella consapevolezza che "Simone detto Kefaz" ci consente di scoprire in "san Simone Pietro" il capo zelota ricercato dai Romani, nessun prete, durante la messa, osa narrare dal pulpito la illuminante parabola della "regola" cui si atteneva il successore di Cristo dopo la Sua crocefissione,
riferita in "Atti degli Apostoli":

“Un uomo di nome Ananìa con la moglie Saffira vendette un suo podere e, tenuta per se una parte dell’importo d’accordo con la moglie, consegnò l’altra parte deponendola ai piedi degli apostoli. Ma Pietro gli disse:«Ananìa, perché mai Satana si è così impossessato del tuo cuore che hai mentito allo Spirito Santo e ti sei trattenuto parte del prezzo del terreno? Prima di venderlo, non era forse tua proprietà e, anche venduto, non era sempre a tua disposizione? Perché hai pensato in cuor tuo a questa azione? Tu non hai mentito agli uomini, ma a Dio». All’udire queste parole, Ananìa cadde a terra e spirò. E un timore grande prese tutti quelli che ascoltavano.
Si alzarono allora i più giovani e, avvoltolo in un lenzuolo, lo portarono fuori e lo seppellirono. Avvenne poi che, circa tre ore più tardi, entrò sua moglie, ignara dell’accaduto. Pietro le chiese: «Dimmi: avete venduto il campo a tal prezzo?». Ed essa: «Si, a tanto». Allora Pietro le disse: «Perché vi siete accordati per tentare lo Spirito del Signore? Ecco qui alla porta i passi di coloro che hanno seppellito tuo marito e porteranno via anche te». D’improvviso cadde ai piedi di Pietro e spirò. Quando i giovani entrarono, la trovarono morta e, portatala fuori, la seppellirono accanto a suo marito. E un grande timore si diffuse in tutta la Chiesa e in quanti venivano a sapere queste cose”
(At 5,1/11).


Gli Zeloti erano Farisei rivoluzionari fuori legge, di conseguenza i sacerdoti appartenenti al Movimento di Liberazione Nazionale (lo stesso valeva per gli Esseni) non avevano la possibilità di riscuotere le decime dei raccolti (Ant. XX 181) spettanti per diritto ai sacerdoti Sadducei e Farisei conservatori filoromani.
La scelta ideologica di condurre una lotta armata contro Roma indusse gli Zeloti, per finanziarsi, ad imporre tributi agli Ebrei possidenti adottando metodi persuasivi violenti. Alla guerriglia contro i "kittim" invasori, la maggioranza degli Esseni privilegiò la propaganda religiosa avvalendosi delle Profezie della Legge ancestrale per incitare le masse, mentre, per il loro sostentamento, si erano organizzati in comunità produttive, soprattutto agricole.

La Chiesa è sempre stata consapevole delle qualifiche rivoluzionarie di alcuni apostoli (quelli con nomi giudaici) e, ovviamente, ha tentato di reinterpretare il loro significato come ha fatto con i "boanerghès" Giovanni e Giacomo i quali, lo abbiamo visto sopra, da "figli dell'ira" (di Dio) sono stati declassati a "figli del tuono". Nel merito, leggiamo come ha commentato il pontefice "teologo", Benedetto XVI, ai fedeli, durante la Udienza Generale in Piazza San Pietro dell’11 Ottobre 2006, riguardo l’apostolo Simone:

“Luca lo definisce zelota … è ben possibile che Simone, se non appartenne propriamente al movimento nazionalista degli Zeloti, fosse almeno caratterizzato da un ardente zelo per l’identità giudaica, quindi per Dio, per il suo popolo e per la Legge divina ...".

Qudeste frasi, sibilline e incerte, rappresentano tutt'oggi la posizione ufficiale della Chiesa: una “testimonianza” reticente in antitesi con la verità storica e con gli stessi vangeli. Una sorta di "alibi" che può essere supportato solo dalla “buona fede” e dall’ignoranza di credenti - tenuti appositamente all’oscuro sui fatti realmente accaduti - ai quali viene detto, in sostanza, che Simone zelota, non era uno zelota … nonostante sui vangeli è scritto “zelota”. Infatti, basta scorrere l'Antico Testamento per accertarsi che "la Legge divina", rammentata dal Papa, consisteva nella "Ira di Dio" che comandava la strage di qualsiasi pagano, donne e bambini compresi, avesse osato calpestare la Terra Promessa da Yahweh al suo popolo. Ma, dal 6 d.C., data di fondazione del Movimento Nazionalista degli Zeloti, per loro mano la "Ira di Dio" si scagliò anche contro gli stessi connazionali. Questa "Legge divina" veniva imposta, come regola cruenta e con "ardente zelo", da Simone Pietro agli adepti della sua comunità per finanziare la guerriglia zelota, anche vendendo la propria terra.

La prima finalità della Chiesa di creare gli “Apostoli” fu dettata dalla necessità, messa in atto da ignoranti in storia e cultura giudaica, di nascondere nel “mucchio” i cinque fratelli zeloti e si ricollega alla necessità di replicare più “Marie”, apparentate come "sorelle" e "cognate" di Maria loro madre, per farli diventare “cugini”... ma in maniera scoordinata e contraddittoria fra gli stessi vangeli. Tale incoerenza, riscontrata nei testi “sacri”, dimostra il tentativo fallito degli autori di inventare nomi falsi poiché impossibilitati a fornire una base storica documentabile.
Gli Apostoli furono una creazione letteraria resasi necessaria, anche, per far apparire che il “cristianesimo”, diffuso da loro, era presente sin dal I secolo al fine di “dimostrare” che Gesù era venuto e si era sacrificato per salvare gli uomini dalla morte. 

"Chiamati a sé i dodici apostoli, Gesù diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattia e di infermità" (Mt 10,1).

Secondo quanto riferito in “Atti” di Luca, i seguaci della dottrina cristiana, in soli tre decenni, si erano moltiplicati e diffusi, prima nelle province mediterranee dell’Impero poi ancora oltre, grazie alle dimostrazioni di miracoli straordinari fatti dagli “Apostoli”… dei cui nomi, come delle meravigliose sovrumane gesta ad essi accreditate, non esiste traccia in alcun documento degli storici depoca.
Se questa spropositata divulgazione, così come viene attestata in "Atti" - riconfermata ed ulteriormente esagerata da Eusebio di Cesarea "La dottrina di Cristo si diffuse nel mondo intero in breve tempo" (HEc. II 3) - fosse veramente avvenuta ... proprio in virtù delle mirabolanti imprese ostentate pubblicamente dagli Apostoli come una sbalorditiva "grazia divina", tutti gli scribi dell'epoca ne avrebbero riportato le cronache.
In realtà la “documentazione” sull’esistenza degli “Apostoli” proviene solo da asceti cristiani, Padri Fondatori della Fede da essi propugnata, e da Episcopi Venerabilissimi, tutti “testimoni” della “veridicità” della propria dottrina, i cui manoscritti sono copie edite secoli dopo di loro, pertanto, anch'esse epurate ideologicamente.

Come dimostrano anche gli studi seguenti, ad iniziare da Paolo di Tarso, gli Apostoli degli scritti neotestamentari, semplicemente, non sono mai esistiti.
                                                                                                                                                                                                                  

Emilio Salsi

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