I secolari martiri cristiani si dimostrano una impostura millenaria.
Questi i riscontri attinenti a: Giustino martire, il finto "rescritto di Adriano", i martiri di Lione e Vienne, il "miracolo della pioggia", "A Scapula" di Tertulliano, i martiri Scillitani, san Nicola di Bari, san Gennaro di Napoli, l'inganno delle catacombe cristiane primitive.
Giustino martire
Il più importante Padre apologista cristiano del II secolo è considerato dalla Chiesa “san Giustino”. Delle opere accreditate a questo presunto martire le tre più famose ci sono pervenute tramite un unico manoscritto, il “Codex Parisinus Graecus 450”, dell’anno 1364, conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi. In esso risultano redatte: “La prima apologia dei cristiani”, “La seconda apologia dei cristiani” e il fantasioso “Dialogo con Trifone”: un ebreo convertito da Giustino che, come lui, è solo frutto di immaginazione.
Apprestiamoci dunque a verificare la concreta esistenza del Padre apologista “Giustino martire”, la cui reliquia, custodita per i creduloni da oltre 1800 anni, è conservata nella “Chiesa Collegiata di San Silvestro Papa” della cittadina "Fabrica di Roma", risalente all'XI secolo; miseri resti anonimi, replicati e anch'essi destinati alla venerazione di fedeli dolciotti, collocati nella moderna "Chiesa di san Giustino" in Roma.
Da quanto abbiamo appreso negli studi precedenti, lo scopo degli storici cristiani fu di provare l’esistenza di seguaci di Cristo e Suoi successori sin dal Suo “Avvento”, quindi “Giustino” avrebbe dovuto fungere da “testimone” nel 2° secolo, pertanto, nel 4° secolo, il Vescovo Eusebio di Cesarea, nella sua “Historia Ecclesiastica”, lo cita diverse volte qualificandolo come “fonte storica sicura”. Giudizio totalmente falso perché nella “Prima Apologia” (Cap. 26,2) di san Giustino, apparentemente da lui scritta all’Imperatore Antonino Pio ed al Senato romano si attesta:
“Dopo l'ascensione al cielo del Signore, i Demòni istigarono alcuni uomini a proclamarsi Dei, e questi non solo voi non li avete perseguitati, ma li avete persino colmati di onori, a cominciare da Simone Mago, un samaritano del villaggio chiamato Gitthon. Sotto Claudio Cesare, con la complicità dei Demòni egli fece miracoli di magia nella vostra città imperiale di Roma, e fu considerato Dio e come tale da voi onorato con una statua sul fiume Tevere, tra i due ponti, e la seguente iscrizione in latino: Simoni Deo Sancto, che significa: «a Simone Dio santo»".
Una sciocchezza inaudita dal momento che il villaggio di “Gitthon” non è mai esistito, così come nessuna fonte romana storica (extra cristiana) e tanto meno archeologica, come le statue, riferisce di una divinità chiamata “Simoni Deo Sancto”, la quale, fatto di rilevanza primaria, risulta del tutto sconosciuta alle cronache ed alla copiosa letteratura della Roma imperiale risalente a quell’epoca. Infatti, a dimostrazione di quanto testé dichiarato, nella 2^ parte dello studio su Paolo di Tarso, abbiamo provato l’inesistenza del fantasioso “Simone Mago”: ne consegue che gli scribi cristiani, quando inventarono questi personaggi, santi o demòni che fossero, incapparono in abbagli e contraddizioni, al punto di essere irrimediabilmente smentiti.
Secondo la Chiesa, l’apologeta cristiano “Giustino” sarebbe nato il 100 d.C. a “Flavia Neapolis”: città fondata nel 72 dai Romani, a Nord di Gerusalemme, sotto l’Imperatore Flavio Vespasiano, e successivamente chiamata “Nablus” dagli Arabi.
Gli scribi cristiani che idearono “Giustino” gli fecero indirizzare la “Prima apologia” all’Imperatore Antonino Pio ed al Senato Romano, allo scopo di magnificare i principi della religione cristiana e dei suoi adepti ma, talmente lunga che, solo per leggerla, i destinatari avrebbero dovuto relegarsi nella Curia due giorni di seguito: ridicolo.
Nella Prima apologia, il santo inventato accusa i Romani perché, diversamente dai credenti di altre religioni, condannavano a morte solo i cristiani; oltre a ciò, nel suo lungo trattato, Giustino nella Prima Apologia si premurò di denunciare anche una “persecuzione di cristiani” attuata dal rivoluzionario Messia ebreo “Simone, bar Kosiba” detto “Simone Bar Kokhba” (Figlio della Stella) in esecuzione della profezia testamentaria (Numeri 24,17) "Un astro sorge da Giacobbe, e uno scettro si eleva da Israele" :
“Nella recente guerra giudaica (sotto Adriano), Bar Kokbah, il capo della rivolta dei Giudei, fece condannare a terribili supplizi solamente cristiani, se non bestemmiavano e non rinnegavano Gesù Cristo”. (I Apol. XXXI 6)
Gli storici gesuiti, ben sapendo che se fossero veramente esistiti “cristiani” nella Giudea del II secolo, l’ebreo “Simone bar Kokbah”, sedicente “Principe dei Giudei”, una volta conquistato il potere in quella Provincia, avrebbe dovuto sopprimere i fedeli del nuovo Credo, in coerenza a quanto avvenuto per Gesù, come riferito dai vangeli ... ma non dalla Storia.
Infatti, basta scorrere la lunga epitome relativa all’Imperatore Adriano, in “Storia Romana” di Cassio Dione; laddove si parla della guerra contro i Giudei, protrattasi dal 132 al 135 d.C., lo storico romano non fa alcun cenno alla esistenza di “cristiani”. Al contrario, nella “Prima Apologia dei cristiani”, gli amanuensi, inventori di un mai esistito “Giustino” risultano indifferenti, a guerra conclusa, al vero massacro di 580.000 Ebrei solo fra i combattenti, senza contare i morti civili, oltre a quelli schiavizzati e morti per stenti, oppure nei circhi contro gladiatori e belve feroci, come effettivamente scrisse Cassio Dione nella sua imponente opera sopra citata nel LXIX (69) Libro cap. 13,3.
E’ importante evidenziare che un altro storico cristiano, il monaco Giovanni Xifilino, rinomato letterato di Costantinopoli dell'XI secolo, fu incaricato dall’Imperatore bizantino, Michele VII Parapinace, di redigere l’epitome delle cronache relative alla “Storia Romana” di Cassio Dione: il famoso storico e Senatore sotto gli imperatori Commodo e Alessandro Severo.
Durante la stesura dell’opera dionea, il credente Xifilino, in diverse occasioni, come stiamo per verificare nel successivo "miracolo della pioggia", si sentì in “dovere” di inserire arbitrariamente, “manu propria”, informazioni su presunti “cristiani”, a partire dal II secolo d.C., accusando Cassio Dione di non averlo fatto, ma, in questo caso, Xifilino non incolpa Bar Kokhba di alcun eccidio di cristiani … semplicemente perché non gli risultava questo evento, né sapeva dell’apologia di un mai esistito “Giustino” che accusò il condottiero ebreo.
Peraltro, Giovanni Xifilino, nella biografia di Antonino Pio (il destinatario della Prima apologia di Giustino), riferita in “Storia Romana” di Cassio Dione (LXIX 3) - nel brano riportato nell’epitome relativa all’Imperatore Adriano - aggiunge una sua informazione personale sui cristiani non formulata dal famoso storico romano, ed in particolare dichiara:
“Eusebio Panfilio, nella sua Storia Ecclesiastica cita alcune lettere di Adriano nelle quali questi si dimostra profondamente sdegnato con coloro che attaccano o denunciano i Cristiani, e giura in nome di Ercole che costoro verranno puniti”.
Si tratta di una ingenua cantonata presa dal monaco Xifilino il quale, con questa interpolazione, non si rese conto che la vera fonte del “Rescritto di Adriano” non avrebbe potuto essere Eusebio di Cesarea, vissuto nel IV secolo, bensì sarebbe stato direttamente Cassio Dione, il vero autore della “Storia Romana”, scritta due secoli prima della “Storia Ecclesiastica” di Eusebio. Ma, è evidente che a Cassio Dione non risultò il decreto imperiale di Adriano in difesa dei cristiani, altrimenti sarebbe stato suo obbligo citarlo subito, molto tempo prima del Vescovo Eusebio.
Anche la “Seconda apologia sui cristiani” fu ideata dagli amanuensi in nome di “Giustino” ed indirizzata all’Imperatore Marco Aurelio, sotto il quale lo stesso martire sarebbe stato condannato a morte a Roma, quindi decapitato con altri sei compagni di fede, come attestato nei falsi “Acta Martyrium Sancti Iustini et sociorum”. Infatti, tale tragico evento, ancora nell’XI secolo, non risultava a Xifilino, per cui il monaco non lo denunciò nell’epitome da lui scritta sulle gesta di Marco Aurelio, smentendo i suddetti “Atti” sino a dimostrarne l’infondatezza, compreso il “Dialogo con Trifone”, considerato da Eusebio “Il più illustre degli Ebrei del tempo”.
Troviamo riscontro del mancato martirio di san Giustino addirittura in Q. Settimio Fiorente Tertulliano, il famoso Padre della Chiesa dal momento che, nel suo “Apologeticum” (V 6), considerò “Marco Aurelio, Imperatore particolarmente saggio, protettore dei cristiani”. Questo raffronto smentisce categoricamente, non solo il martirio, ma l’esistenza di “Giustino martire” con l’intera sfilza di “màrtiri che Giustino menziona nella sua opera”: così dichiara Eusebio in “Historia Ecclesiastica” (HEc. IV 17).
A tal fine si fa notare che il "Codex Latinus Parisinus 1623", contenente il più antico "Apologeticum", risale al X secolo, per la precisione un secolo prima di Xifilino; sebbene, sempre secondo la Chiesa, Tertulliano sia nato nel 160 e morto nel 220 d.C., perciò, se questo Padre fosse esistito veramente, sarebbe stato un testimone diretto dell’operato di Marco Aurelio. Da questi dati ne consegue che il primo a dover riferire del martirio di Giustino e dei suoi compagni di fede avrebbe dovuto essere Tertulliano, se l’evento fosse realmente accaduto, sempreché … Tertulliano fosse veramente esistito: fatto che, come in precedenza accertato, non risulta. L’inesistenza di Tertulliano è dimostrata nel V e nell’XI studio riguardanti la vita di “Giovanni apostolo” e la “Natività” di Cristo.
Il fraudolento "Rescritto di Adriano"
Abbiamo fin qui elencato una serie di “testimonianze”, sul “martire Giustino”, tutte incompatibili fra loro, al punto di denunciarlo come un falso protagonista della “tradizione cristiana”, in aggiunta, per dovere di cronaca, diversamente da quanto attestato dagli scribi di “Apologeticum”, è necessario rilevare che Marco Aurelio, seguendo l'esempio dei predecessori Imperatori, Antonino PIo e Adriano, fu un seguace dei “Culti dei Misteri Eleusini”, tutt’altro che un “saggio protettore dei cristiani”.
Rileviamo anche il modus operandi del falso “testimone” Eusebio di Cesarea, il quale, nella sua “Historia Ecclesiastica”, riguardo alla “Prima apologia dei cristiani” scritta da Giustino, per rendere veritiero il martire, giunse a citarlo come fonte diretta, perciò inventò un falso “rescritto di Adriano” che l’Imperatore avrebbe inviato al Governatore Minucio Fundano (Minucius Fundanus), Proconsole della Provincia d’Asia nel 122-123 d.C., in cui si riferisce di una lettera, scritta in favore dei cristiani - inviatagli (così risulta) dal precedente Governatore, “Serenio Graniano” (Serenius Granianus), in carica nel 123-124 d.C. - alla quale, stando alla simulazione di Eusebio (HEc. IV 9,1-3), l’Imperatore avrebbe risposto così:
Rescritto di Adriano:
“A Minucio Fundano. Ho ricevuto una lettera scrittami da Serenio Graniano, uomo chiarissimo, di cui tu sei successore (impossibile! Al contrario, fu Serenio Graniano il successore di Minucio Fundano). Non mi pare giusto lasciare la questione in sospeso, perché gli uomini non si agitino e non si fornisca ai calunniatori un pretesto per la loro malvagità. Perciò, se i provinciali possono sostenere apertamente questa petizione contro i cristiani, in modo che essi possano replicare anche in tribunale, ricorrano a questa sola procedura e non ad opinioni o ad acclamazioni di popolo. Se qualcuno vuole formulare un'accusa, è quindi molto più opportuno che tu istruisca un processo. E se qualcuno li accusa e dimostra che stanno facendo qualcosa di illegale, decidi secondo la gravità del reato. Ma, per Ercole, se uno sporge denuncia per calunnia, determinane la gravità ed abbi cura di punirlo. Così il rescritto di Adriano” ... riferito da Eusebio tre secoli dopo il principato di Adriano.
Ma il decreto dell’Imperatore su inesistenti cristiani risulta sconosciuto a tutti gli storici della Roma imperiale … essendo un falso conclamato. Prova ne è il fatto che il Proconsole d’Asia, in carica nel 122 -123 d.C., era stato “Minucio Fundano”; antecessore di “Serenio Graniano”, in carica dal 123 al 124; quest’ultimo fu successore di Minucio Fundano, e non viceversa, come si attesta nel rescritto.
Con ciò si dimostra che l’evento riferito da Eusebio fu una sua invenzione, o degli amanuensi che, secoli dopo, ne trascrissero la sua opera in altri Codici, perché è impossibile che l’Imperatore Adriano non conoscesse perfettamente la sequenza degli incarichi dei Governatori della Provincia d’Asia che lui stesso aveva scelto.
Nel merito, si sottolinea la necessità che obbligava tutti gli Imperatori a conoscere personalmente i Governatori delle Province romane (ovviamente Magistrati con diritto di uccidere) proprio per il potere militare che i Cesari delegavano agli stessi, i quali tutti, nessuno escluso, dovevano godere della loro massima fiducia al fine di prevenire eventuali colpi di stato, in verità numerosi, avvenuti nella storia dell’Impero Romano.
Tutti i dati storici sopra riferiti, indispensabili per accertare la vera esistenza di “san Giustino martire” ed i màrtiri da lui testimoniati, vengono ignorati nelle “Udienze Generali”, da sempre indette dai Papi in Piazza San Pietro, destinate ai fedeli in forma ufficiale, come nel caso di Benedetto XVI, quando, in data 21 Marzo 2007, trattò del martire Giustino (è in rete). Dati storici che addirittura vengono taciuti dai Docenti (pagati da noi tutti) di “Storia del Cristianesimo”: una disciplina didattica insegnata nei principali Atenei, avente il compito istituzionale di verificare scientificamente se la “tradizione cristiana primitiva” è autentica.
Una nota curiosa: l’attuale “Papa Francesco”, eletto nel Marzo 2013, al contrario di tutti i suoi predecessori, è il primo ed unico a non aver mai tenuto una sola “Udienza Generale” per formalizzare solennemente la biografia e le gesta specifiche inerenti a Gesù Cristo, dalla Natività fino alla Sua sepoltura; lo stesso dicasi per la vita degli Apostoli ed i loro successori. E’ evidente che non ci crede neanche lui ma, soprattutto, sa che verrebbe prontamente smentito con precisi dati di fatto pubblicati nel presente sito web.
I Martiri di Lione e di Vienne
Il feroce martirio collettivo di 10 cristiani ed il loro capo, il Vescovo Potino, avvenuto a Lugdunum (odierna Lione) - secondo il resoconto narrato da Eusebio di Cesarea - sarebbe stato eseguito nel 177 d.C.: “Volgeva il diciassettesimo anno del regno di Marco Aurelio Antonino Vero”.
Viceversa, stando ad altre documentazioni, anch’esse ingannevoli, attestate da scribi cristiani, come i vari “Martirologi” o “Acta Sanctorum”, i martiri di Lione furono addirittura 48: un numero abnormemente gonfiato nel corso dei secoli che contrasta con la testimonianza del Vescovo Eusebio di Cesarea. Ma, soprattutto, è significativa la ignoranza del cruento evento da parte del Vescovo, nato susseguentemente a Eusebio in Lugdunum, “Sidonio Apollinare”, quindi “collega” di Potino e come lui “beatificato”.
In Lugdunum, Sidonio fu allievo del monaco Claudiano Mamerto, scrittore, teologo e, soprattutto, specialista di patristica cristiana, ma, nessuno dei due, sia Mamerto che Sidonio, hanno mai sentito parlare del famoso padre apologista “Giustino martire”, tantomeno di “martiri di Lugdunum”, oggi chiamata Lione.
Eusebio, nella sua “Historia Ecclesiastica” (Libro V 1 e seg.), riferisce ai posteri il contenuto di una lettera - spedita nel 177 d.C. dalle Chiese di Lione e Vienne, in Gallia, a quelle d’Asia e di Frigia - e ricevuta da lui in “copia conforme” un secolo e mezzo dopo.
Ma, come sopra evidenziato per il mancato martirio di san Giustino, il testimone oculare e Padre della Chiesa, Q. Settimio Florente Tertulliano, pur essendo vissuto all’epoca di Marco Aurelio, non conosce la vicenda dei “Martiri di Lione e di Vienne” e del fantasioso, addirittura novantenne, “Vescovo Potino”.
Al contrario, Tertulliano, nel suo “Apologeticum” (V 6) elogia questo Imperatore qualificandolo come “protettore di Cristiani” smentendo quanto scritto da Eusebio riguardo il Decreto omicida di Marco Aurelio Cesare: “Torturare a morte i cristiani, ma, se qualcuno di loro avesse abiurato, di liberarlo” (HEc V 1,47).
Alla pari di Tertulliano, anche il già citato storico cristiano, Giovanni Xifilino (XI secolo), non conosce “l’immensità di questa oppressione” (così riferisce Eusebio) di fantasiosi màrtiri, altrimenti, come negli altri casi che seguono, la avrebbe fatta denunciare da Cassio Dione, tramite interpolazione, nella sua epitome della “Storia Romana”, concernente gli accadimenti reali che interessarono il regno di Marco Aurelio.
In base alle risultanze conseguite e grazie alla rassegna degli eventi narrati da Eusebio, è d’obbligo notare che Giovanni Xifilino, nello stilare l’epitome di “Storia Romana” scritta da Cassio Dione, contemporaneo di tali vicende e predecessore di Eusebio, come abbiamo sopra riferito era a conoscenza della “Storia Ecclesiastica”, di Eusebio di Cesarea, al punto di citarla come “fonte storica”, ma, per quanto appena constatato, il testo letto da Xifilino non documenta la vicenda dei “Martiri di Lione e di Vienne”, ciò si spiega solo in un modo: quel martirio fu inventato dagli amanuensi che trascrissero la “Storia Ecclesiastica” di Eusebio in un Codice redatto posteriormente a Xifilino (XI secolo), non più originale, nel quale hanno aggiunto il frutto delle loro fantasie psicopatiche. Non ci vuole molto a capire che la “Storia Ecclesiastica” di Eusebio, giunta sino a noi, è un archètipo artefatto, ricavato dalla lettura di svariati Codici*, trascritti nei secoli ma in contrasto fra loro, quindi epurati da quelle contraddizioni che ne denunciavano palesemente le falsità. Questo è sempre stato il modo di operare dei “Ministri di Dio” … pur di indottrinare gli sprovveduti incantandoli con “prove” costruite solo ad esclusivo interesse del Clero privilegiato.
* Per capire questa conclusione è necessario consultare i manoscritti che narrano le rispettive opere e verificare le datazioni in cui gli scribi di Dio le hanno redatte; dopodiché notiamo che "Historia Ecclesiastica" di Eusebio è stata trascritta dagli amanuensi in due famiglie distinte di Codici, datati fra il X ed il XIII secolo.
La prima è composta dai Codici: B = Parisinus 1431 (sec. XII); D = Parisinus 1433 (sec. XII); M = Marcianus (sec. XII); la seconda è composta dai Codici: A = Parisinus 1430 (sec XI); Laurentianus 70,20 (sec X); Laurentianus 70,7 (sec XI); Mosquensis 50 (sec XII).
A questi manoscritti si aggiungono una versione Siriaca ed una Armena, entrambe contrassegnate con "Σ", ed una versione latina "L", fatta risalire artatamente a Rufino di Aquileia; versioni che vengono datate "probabilmente" al V secolo: una datazione basata su un "probabilmente" destinato ai credenti, ma non alla Storia. Infatti, non è un caso che - nonostante sarebbe stato doveroso procurare una informazione precisa - non furono mai autorizzate pubblicazioni delle singole versioni, al contrario, la Chiesa ha concesso la divulgazione di un solo archètipo, congetturato dopo avere censurato i contrasti contenuti nei vari Codici, ma senza riuscire ad eliminarli tutti.
Un’altra conferma della clemenza, adottata come regola di vita dallo stoico Marco Aurelio, la troviamo leggendo le cronache della “Storia Augusta” di Giulio Capitolino, laddove, nella lunga biografia dedicata a questo Imperatore, non risulta il minimo accenno alla semplice presenza di “cristiani” … col risultato che la Storia smentisce anche gli amanuensi del X secolo quando stilarono il "Codex Latinus Parisinus 1623" dell’Apologeticum a nome di un Tertulliano mai esistito, facendogli dichiarare questa falsità: “Marco Aurelio, Imperatore particolarmente saggio, protettore dei cristiani”.
Il “Miracolo della pioggia”
In Roma, a “Piazza Colonna”, possiamo ammirare l’imponente Colonna Aureliana, dedicata alla celebrazione delle vittorie riportate dall’Imperatore Marco Aurelio sulla frontiera danubiana contro le popolazioni germaniche dei Marcomanni, Quadi e Sarmati; scultura che verrà poi ultimata, dopo la sua morte, dal figlio Commodo.
Come ovvio, sulla sommità del monumento svettava la originale statua bronzea di Marco Aurelio, al posto della quale è stata collocata quella di san Paolo, come stabilì, nel 1589, Papa Sisto V.
La colonna di marmo è posizionata sopra un grande basamento al centro della Piazza, di fronte a Palazzo Chigi, e, in cima alla sua mole, ancora oggi, troneggia la presenza aliena della statua di san Paolo, impiantata all’altezza di 42 metri, che sovrasta la sede del Governo della Repubblica Italiana. Quindi, nonostante si tratti di una evidente forzatura ideologica della propria dottrina, voluta da un papa risalente quattro secoli fa, resta il fatto che il nostro Stato non è mai intervenuto per ristabilire la corretta destinazione del monumento, ubicato nella sede territoriale nazionale, nel rispetto della sua originalità. Inevitabilmente, diviene spontaneo considerare la statua religiosa di san Paolo come simbolo del condizionamento politico esercitato dallo Stato del Vaticano nei confronti della sovranità dello Stato Nazionale Italiano, e addirittura in contrasto alla Storia Universale.
Nel merito a simile controsenso, è doveroso chiarire che il compito istituzionale, devoluto al “Ministero per i beni culturali” ed alla “Soprintendenza per i beni archeologici”, impone ai funzionari di questi Enti abolire l’assurdo connubio fra storia e religione causato da una imposizione che falsifica lo scopo di un monumento, in verità consacrato all’Imperatore e non a san Paolo. Una volontà errata pregressa, subita con opportunismo omertoso, tanto più incoerente nella finalità per il fatto che, mentre Marco Aurelio è vissuto realmente - peraltro divenuto famoso per le sue gesta comprovate da Storia ed Archeologia - al contrario, la statua di san Paolo è solo il vuoto simulacro di un personaggio mai esistito e inventato di sana pianta per esigenze teologiche: un dato di fatto ormai definitivamente provato dalla “Storia del Cristianesimo” e addirittura dalla stessa archeologia (vedi II studio).
Analogo problema lo riscontriamo nella altrettanto imponente “Colonna Traiana”, alta quaranta metri compreso il basamento, eretta nel 113 d.C. dall’Imperatore Traiano (Marcus Ulpius Traianus) per celebrare la vittoriosa guerra da lui condotta contro la Dacia. Oggi il monumento è ubicato nei Fori Imperiali, ma, nel 1588, lo stesso Papa Sisto V, al posto di quella bronzea di Traiano, posizionò sulla sua sommità la statua di san Pietro: altro simulacro di un personaggio mitologico cristiano, in realtà mai esistito (vedi I studio). Anche in questo caso le autorità preposte tacciono sul continuo perpetrarsi della mistificazione archeologica.
Il condizionamento della Storia da parte dell’alto Clero cristiano risale al lontano IV secolo d.C., quando il Cattolicesimo trionfò su tutte le altre religioni, sia quelle pagane che quelle cristiane dissidenti.
Fu in quell’epoca che lo storico Vescovo, Eusebio di Cesarea, seppe del contenuto delle rappresentazioni scolpite nella stupenda colonna aureliana, fra le quali risulta immortalato “Il miracolo della pioggia” unitamente a “Il miracolo del fulmine”. Si trattava di un fenomeno naturale, attribuito da tutti gli storici imperiali a Marco Aurelio, avvenuto nel corso delle guerre sarmatiche condotte dall’Imperatore fra il 171 ed il 174 d.C.
Allora, il potente Eusebio, Vescovo delle corte di Costantino il Grande, decise di reinterpretare gli avvenimenti reali in funzione della ipocrita agiografia cristiana, praticata usualmente ed arricchita con dovizia di particolari fantasiosi, facendo i nomi di falsi testimoni, apparentemente vissuti e collocati nell’epoca di Marco Aurelio, quindi narrati nella sua “Historia Ecclesiastica” (HEc. V 5):
“Si racconta che Marco Aurelio Cesare, mentre si preparava alla battaglia contro Germani e Sarmati si trovò in difficoltà a causa della sete che attanagliava il suo esercito. Allora i soldati della cosiddetta legione Melitene, con la fede che li ha sostenuti da quel tempo sino ad oggi nelle battaglie contro il nemico, piegarono il ginocchio a terra, come noi siamo soliti fare nella preghiera, e rivolsero suppliche a Dio. E tale spettacolo parve sorprendente ai nemici, ma si narra che subito un altro fatto ancora più strabiliante li sorprese, perché un temporale scatenatosi all'improvviso mise in fuga e disperse i nemici, mentre sull'esercito di coloro che avevano invocato la divinità cadde un acquazzone che lo ristorò quando era quasi sul punto di morire di sete. L'episodio è riportato anche dagli autori lontani dalla nostra dottrina che descrissero l'epoca degli imperatori suddetti, ed è noto pure ai nostri. Ma presso gli storici pagani, giacché sono estranei alla fede, il prodigio è riferito senza riconoscere che si verificò per effetto delle nostre preghiere; presso i nostri, invece, giacché essi amano la verità (sic!),il fatto è stato tramandato in modo puro e semplice. Tra questi ultimi vi è anche Apollinare (dato come Vescovo di Gerapoli in Frigia, apologista del II secolo, mai esistito come il suo coevo “Ireneo di Lione” vedi studio V), che narra come la legione che compì il prodigio con la sua preghiera ricevette dall'imperatore un nome corrispondente all'avvenimento, e venne chiamata in latino “Fulminatrice”. Testimone sicuro di tali fatti è anche Tertulliano (anche questi mai esistito, vedi studio V), che in una apologia della fede indirizzata in latino al Senato e da noi già citata, conferma il racconto con una prova più valida e convincente. Scrive infatti che esistevano ancora ai suoi giorni lettere (nientepopodimeno) di Marco, imperatore assennatissimo, in cui egli testimonia di persona che il suo esercito, sul punto di morir di sete in Germania, fu salvato dalle preghiere dei Cristiani; dice inoltre che l'imperatore comminò la morte a quanti tentavano di accusarci”.
Tertulliano, “Apologeticum” (cap. V 6):
“Se la lettera si ricerca di Marco Aurelio, imperatore particolarmente saggio, nella quale attesta
come quella famosa sete di Germania fu dissipata in seguito a una
pioggia impetrata dalle preghiere di soldati per avventura Cristiani”.
Preso visione della somma di sciocchezze descritte dai falsi apologeti, considerati dai credenti gli “amanuensi di Dio”, verifichiamo adesso … Come la Storia riferisce il "Miracolo della Pioggia".
Iniziamo da “Storia Romana”, la grande opera scritta, nel III secolo d.C., da Cassio Dione, già Senatore sotto l’Imperatore Commodo (l’artefice della Colonna dedicata al padre, Marco Aurelio). Genitore di Dione è stato Cassio Aproniano, anche lui Senatore sotto lo stesso Marco Aurelio. Ne consegue che Dione Cassio è una fonte diretta, bene informata sugli eventi dell’Impero a lui contemporanei, con diritto di consultare gli “Atti del Senato”, un privilegio che vale anche per suo padre. Sappiamo pure che le cronache dionee sono a noi pervenute in epitomi (compendi) curati da Giovanni Xifilino, un monaco dell’XI secolo, nipote del Patriarca di Costantinopoli, dunque un cristiano convinto e, come abbiamo già constatato, anche un apologista della sua fede, talmente ostinato da cadere in errori plateali. Infatti, seguendo le gesta di Marco Aurelio - in “Storia Romana” Libro LXXI 8/10 - leggiamo:
Così Marco soggiogò i Marcomanni e gli Iazigi a prezzo di molti combattimenti e grandi pericoli; ma scoppiò una grande guerra anche contro quelli che venivano chiamati Quadi, e fu ottenuta una vittoria insperata, giunta quasi per divino favore. Infatti, fu una divinità a salvare in modo del tutto straordinario i Romani che versavano nel pericolo durante la battaglia. Dopo che i Quadi li avevano circondati in luoghi a loro favorevoli, e poiché i Romani, stretti i ranghi, combattevano coraggiosamente, i barbari interruppero la battaglia, aspettandosi di prenderli facilmente a causa del caldo e della sete; inoltre, dato che erano in numero nettamente superiore, chiusero, fortificandoli, tutti i luoghi lì intorno in modo che non potessero approvvigionarsi d’acqua. Mentre i Romani si trovavano in gran difficoltà a causa della fatica, delle ferite, del sole e della sete, senza potere, per queste ragioni, né combattere né ritirarsi altrove, disidratati com’erano, lì nei luoghi e nella posizione in cui si trovavano, improvvisamente si condensarono molte nuvole e, non senza intervento divino, cadde moltissima pioggia. Si narra, infatti, che un certo Arnufi, un mago egizio che era al seguito di Marco, avesse invocato con delle arti magiche diverse divinità, in particolare Mercurio etereo, e che grazie ad esse avesse attirato la pioggia”.
Dato i precedenti, sarebbe stato impossibile che il monaco Xifilino non intervenisse anche sul “miracolo della pioggia”, pertanto, da zelante apologeta, si sentì in dovere di correggere, tramite la sua epitome, la appena richiamata cronaca di Cassio Dione ... prendendo la solita cantonata:
“Questo è quanto narra Dione intorno a quei fatti, ma ha evidentemente riferito il falso, volontariamente o meno, sebbene io sia più propenso a credere che l’abbia fatto intenzionalmente. Come potrebbe essere altrimenti? Egli, infatti, non ignorava l’esistenza della divisione di soldati che, con un nome particolare, veniva chiamata “Fulminata”* (egli [Dione],infatti, nell’elenco delle legioni menziona anche questa), nome che le venne dato per nessun’altra ragione - dato che non ne vengono riportate altre - se non per quello che accadde nel corso della guerra. Fu proprio questo evento che in quell’occasione costituì la salvezza per i Romani e la rovina per i barbari, e non, invece, il mago Arnufi*, anche perché non si fece mai menzione che Marco apprezzasse la compagnia dei maghi e si dilettasse di stregoneria. Ed ecco l’evento cui alludo: Marco aveva una legione di soldati proveniente da Melitene, i quali erano tutti seguaci di Cristo. Ebbene, si dice che in questa battaglia, quando Marco non seppe più quale decisione prendere ed ebbe timore per tutto l’esercito, gli si avvicinò il Prefetto e gli disse che quelli che venivano chiamati Cristiani con le loro preghiere potevano ottenere qualsiasi cosa. Appena sentì ciò, Marco chiese loro che levassero preghiere al loro Dio; e dopo che essi ebbero pregato, Dio li esaudì all’istante colpendo i nemici con un fulmine e confortando i Romani con la pioggia. Marco, grandemente colpito da quel fatto, onorò i Cristiani con un pubblico editto e diede alla legione il nome di “Fulminata”.
Si dice che esista anche una lettera di Marco che parla di questo avvenimento. Tuttavia i Greci, sebbene sappiano che la legione si chiamasse “Fulminata” e ne diano essi stessi testimonianza, non riportano affatto la ragione di quell’appellativo. Dione aggiunge che al cader della pioggia, dapprima tutti guardarono verso l’alto e bevvero l’acqua a bocca aperta, poi protendendo gli scudi, altri gli elmi, la tracannarono avidamente e la diedero da bere anche ai cavalli; inoltre, quando i barbari piombarono loro addosso, essi bevevano e contemporaneamente combattevano, mentre alcuni, che erano rimasti feriti, insieme all’acqua sorbivano anche il sangue che scorreva negli elmi”.
* Xifilino si riferisce alla XII^ legione, ma non sa che fu costituita il I secolo a.C. da Giulio Cesare e da lui chiamata subito “Fulminata”; come accertato da numerose iscrizioni riguardanti i titoli militari romani, fra cui “ILS, 8864”. Stabilito ciò si dimostra la falsità della cronaca riferita da Eusebio di Cesarea sul “Miracolo della pioggia”, così come la inesistenza delle sue “fonti” fasulle riguardo la errata testimonianza sul nome della “Legione Fulminata”, fatta citare da un “Vescovo Apollinare” mai esistito insieme alle sue presunte opere. Lo stesso dicasi dell’altro falso “testimone” citato da Eusebio: Tertulliano, inesistente anche lui come abbiamo specificato sopra. In merito alla legione XII^ Fulminata, questa militò in Siria fino al 70 d.C., quando fu trasferita in Cappadocia dal generale Tito, figlio di Vespasiano, dopo la trionfale vittoria sui Giudei, e da allora rimase acquartierata a Melitene, nell’odierna Turchia orientale, quindi impiegata da Marco Aurelio nelle guerre sul confine danubiano.
* Del mago “Arnufi”, il cui vero nome era “Harnouphis”, risulta un’iscrizione di Aquileia in cui si qualifica come “sacro scriba d’Egitto”. Mentre, secondo la “Storia Augusta” (XIX) di Giulio Capitolino, Marco Aurelio faceva effettivamente ricorso ai maghi Caldei, quindi nulla di strano che Cassio Dione riferisca un intervento così come venne ufficializzato nelle cronache del suo tempo. Sebbene, la stessa opera (XXIV) si limiti ad affermare “Marco, con le preghiere, ottenne che un fulmine distruggesse le macchine da guerra nemiche, mentre la pioggia cadeva a ristorare i soldati assetati”. In ultima analisi possiamo essere certi che, da quanto risulta, per le armate romane si trattò di un fortunata casualità a salvarle da una sicura sconfitta.
Ma vale la pena riprendere la narrazione dell’evento che, è fin troppo evidente, non risulta scritto da Cassio Dione ma da uno Xifilino, talmente invasato (fino a cadere nel ridicolo) nel descrivere la battaglia “condotta” direttamente da Dio, “sceso in campo” contro i disgraziati barbari, in ottemperanza alle preghiere dei cristiani:
"Nello stesso luogo si potevano vedere acqua e fuoco riversarsi contemporaneamente dal cielo, tanto che mentre alcuni venivano bagnati e bevevano, altri (i barbari) erano bruciati e morivano; e il fuoco non toccava i Romani, ma se anche li lambiva da qualche parte, subito si spegneva, né l’acqua portava giovamento ai barbari, ma, come se fosse olio, alimentava ancor più le fiamme, tanto che, sebbene fossero bagnati, continuavano a cercare acqua. Alcuni si inflissero delle ferite nel tentativo di spegnere il fuoco col proprio sangue”.
Questa è la "testimonianza" cristiana del “Miracolo della Pioggia”, un evento che, pur essendo rappresentato in un documento storico ufficiale, quale “Storia Romana” di Cassio Dione, da uno scriba affetto da disturbi mentali come Xifilino, viene giudicato veritiero dagli esegeti “sgranarosari” ed i loro discepoli, indifferenti tutti alle ingenue contraddizioni evidenziate, grazie alla lettura comparata dei testi che riferiscono le antiche vicende.
Inoltre Xifilino - avendo avuto l'incarico di riprodurre l'epitome del Senatore Cassio Dione, lo storico testimone diretto delle vicende inerenti Marco Aurelio e suo figlio Commodo, Imperatore e successore del padre - non si fece sfuggire l'occasione per "dimostrare" l'esistenza di Cristiani, anche sotto Commodo, facendoli "testimoniare" dallo storico Cassio Dione. Fu così che Xifilino battezzò come cristiana una certa "Marcia", ma senza badare ai veri dettagli scritti da Cassio Dione ... da cui risulta che Marcia era stata la concubina, prima di Quadrato, cugino di Commodo, poi dello stesso Imperatore, quindi aveva continui rapporti sessuali con i potenti e "grazie alla grande influeza (sic!) che godeva presso Commodo, si fosse prodigata molto a favore dei Cristiani e che li avesse beneficati molto" (Storia Romana LXXII 4-5, parola santa di Xifilino). Ancora, la "praticante cristiana" Marcia complottò per uccidere Commodo e lo avvelenò personalmente, tuttavia, poiché la forte tempra dell'Imperatore stava per avere la meglio sul veleno, la "misericordiosa cristiana" Marcia fece intervenire il campione di lotta "Narcisso" che lo strangolò definitivamente: fatti ultimi, ovviamente non commentati da Giovanni Xilfilino.
Qualora non bastasse la analisi dei fatti a dimostrare che Marcia non sia mai stata cristiana, né che sotto Commodo si operasse in favore dei Cristiani, noi evidenziamo l'esatto contrario sottoscritto dagli stessi chiesastici: se fossero esistiti seguaci di Cristo durante il regno di Commodo questo Imperatore li avrebbe massacrati, esattamente come fatto testimoniare con la strage dei "Martiri Scillitani" avvenuta il 17 luglio del 180 d.C., sotto l’Imperatore Commodo ... una contraddizione clamorosa che sconfessa l'invenzione di tutti i martiri creati dalle fantasiose penne di amanuensi cristiani, infatti, se Giovanni Xifilino fosse stato consapevole dei "martiri scillitani", non sarebbe mai incappato in simile errore.
L'argomento "martiri Scillitani" lo approfondiremo poco avanti.
“A Scapula” di Tertulliano
Nel V e XI studio abbiamo definitivamente accertato l’inesistenza del grande Padre apologista “Quinto Settimio Fiorente Tertulliano”, secondo i chiesastici un cartaginese (155-235 d.C.) pagano, convertito al cristianesimo ultra quarantenne, poi, una volta divenuto prete ed essersi sposato, avrebbe scritto più di 40 trattati agiografici sulla superiorità della fede cristiana, sotto il profilo morale, legale del diritto romano, filosofico, storico, nonché “testimone” diretto di accadimenti (inventati), come anche di gesta da lui accreditate a personalità della sua epoca. Ciononostante, Tertulliano, unitamente alle sue numerose opere, risulta sconosciuto da tutti i Padri, Papi e Vescovi, esistiti, secondo la Chiesa, dal II al IV secolo, cioè fin quando, per la prima volta, viene menzionato da Eusebio di Cesarea, ma ancora non identificato da questi come seguace dell’eresia di Montano, in contrasto a quanto risulta oggi dalla sua “biografia”, ovviamente architettata in epoca successiva.
Una volta accortasi della contraddizione derivata dal fatto che, pur trattandosi di un Padre apologista, “Tertulliano” (vedi V studio al cap. "Le sviste degli scribi tertullianei") era sconosciuto da tutti i cristiani della sua epoca … la Chiesa corse ai ripari inventando un “testimone”, da collocarsi nella Provincia d’Africa, laddove, subito dopo la fine di Tertulliano (come d’obbligo), sarebbe nato il 250 d.C. e morto nel 320. Fu così che gli amanuensi falsari inventarono un altro apologeta chiamandolo “Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio” ma, per dimostrare che era vissuto realmente, gli "scribi di Dio" commisero la sciocchezza di farlo interagire con Diocleziano, e addirittura a Nicomedia, la nuova sede imperiale in sostituzione di Roma. Fu una cantonata, presa da quegli autori, secoli dopo la presunta esistenza di Lattanzio, perché essi dimenticarono di farlo citare da Eusebio di Cesarea, suo contemporaneo e, solo qualche anno dopo, anche lui presente nella Reggia di Nicomedia.
Poiché è impossibile che Eusebio di Cesarea, biografo di Costantino il Grande, non avesse conosciuto Lattanzio, né di lui riferito nella sua “Historia Ecclesiastica”*, pur risultando entrambi contemporanei e addirittura il secondo qualificato come "Precettore" di Crispo, il figlio di Costantino e futuro Imperatore ... la mancata cronaca eusebiana di un personaggio così famoso, quale risulta "Lattanzio", dimostra che fu ideato da amanuensi cristiani in epoca successiva. Ciò stabilito, si evidenzia un'altra contraddizione.
Per l'esattezza, sapendo che Eusebio di Cesarea è stato la fonte di san Girolamo Sofronio, come si spiega il fatto che quest'ultimo citi "Lattanzio", mentre Eusebio no? La risposta è una sola: il "De viris illustribus" di Girolamo, a noi pervenuto, dove si richiama Lattanzio, è contenuto in alcuni codici tardivi redatti dagli amanuensi posteriormente ai manoscritti (a noi pervenuti) della "Historia Ecclesiastica" di Eusebio risalenti al X e XI secolo. Logicamente tali risultanze dimostrano che "Lattanzio" è stato inventato dopo l'XI secolo, e ovviamente dopo la morte di Girolamo. Questi, nella realtà, diversamente dai suoi futuri trascrittori, non poteva sapere di un "Lattanzio" architettato secoli dopo, perciò l'originale manoscritto di Girolamo non poteva contenere alcun riferimento a Lattanzio e la controprova alla mancata testimonianza geronimiana sul famoso apologeta "Lattanzio" ci è stata fornita proprio dagli amanuensi di Dio perché si videro costretti a distruggere il vero documento autografo di Girolamo ... assente di Lattanzio e non solo. Infatti, come abbiamo provato nel XIV studio al capitolo dedicato a "Costantino il Grande, imperatore pagano", oltre Lattanzio, nell'originale "De viris illustribus" mancavano Tertulliano e san Babila.
* E’ di fondamentale importanza evidenziare che la "Historia Ecclesiastica" di Eusebio contiene l'impianto storiografico (ideato dal Vescovo, sotto l'Imperatore Costantino, a fondamento della 'tradizione cristiana') che attesta la struttura dei Padri della Chiesa, ad iniziare dai successori di Gesù, apostoli, evangelizzatori e padri apologisti (Lattanzio, secoli dopo Eusebio fu designato come un famoso apologeta), quindi corredata da una sfilza di màrtiri. Una lunga serie di Capi spirituali di molteplici Ecclèsiae, descritti con dovizia di particolari, regolarmente registrati con tanto di dati anagrafici e doverosamente votati al martirio. Procedendo dai primi tre Vescovi di Gerusalemme "legati al Signore da vincoli di carne" (vedi IV studio), tutte le Chiese successive dovevano conoscere la propria storia sin dall'inizio, i cui interpreti vennero spesso richiamati durante i Concili che si susseguirono nei secoli a venire. Un organico di Santi pressoché ininterrotto, a partire da Cristo sino al IV secolo, antico di oltre duemila anni, tale che nessuno Stato al mondo può vantare una ricostruzione del proprio passato così minuziosa ... con un particolare da evidenziare: la storia della “Santa Sede” dei primi tre secoli è basata sulla fantasia di Eusebio e degli evangelisti.
Secondo quanto attestato dagli scribi cristiani, Tertulliano risulta nativo di Cartagine, capitale dell’Africa Proconsolare dall’epoca di Cesare Augusto, quindi appare logico che, in quanto “Padre apologista cristiano”, gli amanuensi assegnassero a lui il compito di “operare” in quella regione, facendolo relazionare con famose personalità, in località reali, al fine di provare l’esistenza di Cristiani in loco, e con essi la loro superiorità morale e religiosa, messa a confronto con quella dei Pagani e le rispettive divinità.
Per verificare se i cronisti gesuiti sono riusciti nel loro intento, seguiamo l’evento narrato concernente i cristiani dell’intera Africa Proconsolare, in procinto di essere martirizzati in massa da un Governatore romano col generico nome “Scapula”* in carica nel 212-213 d.C., senza che gli ideatori dell’episodio, evidentemente per non cadere in errore, specificassero quale dei due Proconsoli citati si sarebbe candidato a fare sterminio di tutti i cristiani residenti nell’intera Provincia.
* Gli ex Consoli, potenziali martirizzatori di cristiani, sarebbero stati:
"Publius Iulius Scapula Tertullus Priscus" oppure un suo parente "Gaius Iulius Scapula Lepidus Tertullus", ma l'identificazione del personaggio “Scapula” è tutt'oggi oggetto di discussione fra gli storici. In particolare non esiste prova documentata che accerti l’incarico dei due in qualità di Proconsole d'Africa negli anni 212 e 213 d.C., fatto che, già a se stante, implica una svista dell'amanuense tertullianeo che, nel XV secolo, si avvalse di questo, non meglio definito, nome “Scapula”.
In ogni caso, per risolvere la questione, leggiamo la cronaca della vicenda narrata personalmente dallo stesso Tertulliano, autore di una lunga “lettera aperta”, pubblicata non si sa dove e come, comunque indirizzata al Proconsole, lettera di cui non si conosce la risposta, e non poteva essere diversamente perché gli scribi inventori sapevano che se fosse stata vera la missiva, visto il tono usato da Tertulliano, questi sarebbe stato martirizzato “ipso facto” da qualsiasi Proconsole romano esistente.
Infatti il documento inizia con un'apologia in favore dei cristiani e della loro fede ma, per contro, ostenta un linguaggio offensivo avverso le divinità pagane di Scapula, descritte come “demoniache”, così anche nei confronti dei loro blasfemi seguaci.
Ecco i passi più rilevanti della lettera che ci consentono di denunciarne la mistificazione ed il movente:
“Ad Scapulam”
"In cambio della nostra fede nel Dio vivente (Gesù Cristo) noi siamo messi al rogo … Noi (cristiani) ci comportiamo in conformità alla legge di Dio, potete averne prova evidente dal fatto che, pur essendo una grande massa di gente e costituendo ormai la maggioranza di ogni città, noi viviamo in silenzio senza attentare all'ordine pubblico". Di seguito, Tertulliano avverte perentoriamente Scapula …"Non sfidare Dio, ecco il mio monito (sic) … quanti Governatori, anche più crudeli di te, hanno chiuso un occhio nei processi contro i Cristiani". "Severo (Imperatore Settimio Severo, morto l'anno prima nel 211 d.C.) era al corrente che uomini e donne dell'alta aristocrazia aderivano al Cristianesimo; non soltanto non ne colpì il prestigio, ma li fregiò dei segni della sua stima". "La vostra crudeltà è la nostra gloria … Che farai di migliaia di persone, uomini e donne, di ogni età e condizione sociale, che si presentassero al tuo tribunale? Di quanti roghi, e spade a non finire, avrai bisogno? Che cosa mai dovrà subire Cartagine, se vorrai decimarla, allorché ognuno potrà vedere tra i cristiani anche uomini e matrone del tuo rango sociale, tutte le persone più importanti e parenti o amici dei tuoi amici? Se poi tale prospettiva non ti preoccupa, risparmia Cartagine e la Provincia d'Africa".
Questa "perla di testimonianza" è falsa come i suoi autori: gli amanuensi del Clero. Essi la misero nel calamo di un mai esistito apologeta gesuita, di nome "Tertulliano", allo scopo di comprovare, sin dall'inizio, la enorme diffusione del Cristianesimo nell'Impero Romano, Africa Proconsolare compresa. La macchinazione degli eventi narrati si evidenzia già dal fatto che i Codici, "garanti" della lettera tertullianea, sono 15 e tutti redatti nel XV secolo, vale a dire oltre 1200 anni dopo l'immaginario autore "Tertulliano".
Vediamo perché i contenuti di questo documento sono estemporanei ed aberranti insieme, sia storicamente che sotto il profilo archeologico.
La storia insegna che nel 212 d.C. l'Imperatore Antonino Caracalla, emanò la “Constitutio Antoniniana” che estese la cittadinanza romana a tutti gli abitanti liberi dell’Impero, dopodiché "una grande massa di Cristiani, la maggioranza di ogni città… e tutte le persone altolocate", pur essendo divenuti tutti "cittadini romani" in virtù dell'editto imperiale, ciononostante un Proconsole romano impazzito decide di giustiziarli con la semplice accusa di essere "cristiani". Un atto di una gravità tale che, se per assurdo lo si ammettesse, non sarebbe bastato l'intervento dell'intera flotta imperiale romana per trasportare a Roma davanti all’unico Tribunale competente tutti i cittadini romani "rei cristiani”, "la maggioranza di ogni città" degli abitanti dell'Africa Proconsolare, per essere sottoposti a processo nella Capitale, come previsto dal Diritto Romano che il Governatore “Scapula” era tenuto ad applicare ai “cittadini romani” ... e fra questi presunti màrtiri "tutte le personalità altolocate di ogni città" dell'intera Provincia d'Africa. Siamo al culmine della demenza psicopatica apologetica … indotta da millenaria manipolazione della psiche umana.
Infatti, in contrasto alla testimonianza tramandata dagli scribi gesuiti in nome di un fittizio “Tertulliano”, dell'intera Africa Proconsolare tutt’oggi si possono ammirare le vestigia delle due più importanti e stupende città romane: Cartagine e Leptis Magna. Ma in nessuna delle due è rimasto il benché minimo reperto archeologico che confermi l'esistenza di una ingente e capillare diffusione di cristiani: la maggioranza assoluta dell'intera Provincia, comprese le massime autorità ed i patrizi, secondo quanto narrato dagli amanuensi falsari.
Leptis Magna, in particolare, era la città natale dell'Imperatore Settimio Severo, e da lui personalmente abbellita con monumenti spettacolari. Il Cesare è citato direttamente da Tertulliano: "Severo, era al corrente che uomini e donne dell'alta aristocrazia aderivano al cristianesimo". Ma, fra le stupende vestigia di Leptis Magna, nulla risulta che confermi l'esistenza di cristiani in quel territorio, come in tutta la Provincia, due secoli dopo la “resurrezione di Cristo”; al contrario, i resti di un antico cimitero, scoperti nella località di Gammarth, presso Cartagine, sono esclusivamente ebraici, mentre non risulta alcun ritrovamento di aree sepolcrali cristiane nell’intera Africa Proconsolare.
Così come - all'infuori della "Historia Ecclesiastica", redatta nel IV secolo da Eusebio di Cesarea, ma a noi pervenuta corretta in codici trascritti nel X e XI secolo, dopo che furono distrutti i testi originali - nessun Padre apostolico, Padre apologista, o Vescovo, antecedente ad Eusebio, ha mai sentito parlare di "Tertulliano".
A questo punto non resta che chiederci quale sia stato il movente che indusse gli amanuensi ad inventare, nel XV secolo, la più breve e tardiva opera tertullianea: "Ad Scapulam".
La riposta la troviamo nella mancanza di prove extra cristiane, concernenti il martirio di cristiani dei primi tre secoli, poiché non risultano nei rispettivi documenti dei cronisti della Roma imperiale di quell'epoca. Un vuoto che la Chiesa decise di colmare con finte "testimonianze cristiane", dopo aver valutato che sarebbe aumentata la conoscenza degli eventi reali della storia romana antica a seguito della diffusione dei libri, resa possibile dall'economia della stampa a caratteri mobili iniziata da Johannes Gutenberg.
In particolare, i 15 Codici (ne risparmiamo l'elenco ai lettori) concernenti “Ad Scapulam”, opportunamente voluti dall’alto Clero, vennero stilati dagli amanuensi nel XV secolo, in contemporanea del "Codex Vaticanus Gr 145" e del “Codex Parisinus Coislinianus 320”, entrambi del XV secolo. In tali documenti erano contenuti i libri dal 78 all’80, nei quali lo storico Cassio Dione descrisse le vicende imperiali avvenute dal 96 al 229 d.C.: l’epoca in cui, secondo i falsari scribi della fantasiosa “tradizione cristiana”, avrebbero operato i “Padri apostolici”, ed i “Padri apologisti”, quasi tutti martirizzati o dichiarati testimoni di inesistenti màrtiri cristiani, eliminati, con modalità strazianti assurde, dai famosi Governatori delle Province, o addirittura dagli stessi Imperatori.
Dalla lettura di "Storia Romana" di Cassio Dione, la cui epitome, ricordiamo, fu redatta dal monaco Giovanni Xifilino, un religioso dell’XI secolo più che interessato ad attestare l'esistenza di màrtiri, al punto di interpolare personalmente gli eventi storici, come abbiamo visto sopra. Ciononostante, nella vera epitome di Xifilino, poiché non risultava alcuna presenza di cristiani, tantomeno martirizzati dai Governatori provinciali dell'Impero Romano sino al 229 d.C., il monaco falsario ha deciso di farli risultare storicamente più volte, ma, come abbiamo dimostrato sopra prendendo una cantonata dopo l'altra. Pertanto, valutate le gravi conseguenze derivate dalla inconsistenza di cristiani fino a tale data, gli specialisti del Vaticano si prodigarono per far risultare veritieri i “testimoni” dei mitologici personaggi narrati nei vangeli, come Cristo, apostoli, e, dopo di loro, gli inevitabili “continuatori” Vescovi, così come l’intera “cristianità” ed i dovuti màrtiri “accessoriati” con tanto di reliquie prelevate da antiche Catacombe.
Fu la mancata conferma della Storia sull’esistenza di cristiani nei primi tre secoli che spinse l’alto Clero ad inventarli, come nel caso del fantasioso Tertulliano, ideato come “spettatore” presente nell’Africa Proconsolare romana.
Con la stessa motivazione vennero immaginati anche …
I martiri scillitani
Nella cosiddetta “tradizione cristiana” - in questo caso molto tardiva rispetto all’evento narrato in alcuni manoscritti (il più antico datato a fine IX secolo, “apparso” 700 anni dopo i fatti esposti) intitolati “Atti dei Martiri Scillitani” (Passio Sanctorum Scilitanorum) - viene riferito il resoconto ufficiale di un processo pubblico, ambientato in Cartagine all’epoca di Tertulliano, al termine del quale furono condannati e decapitati 12 disgraziati, originari di una ignota località chiamata “Scilli”, rei di essere “cristiani”.
Prima di entrare nel merito dei dati utili riferiti nel documento, è necessario annotare che i “testimoni” dei martiri scillitani sono rappresentati dai seguenti manoscritti:
Il "Codex Ms Lat. 11880", conservato nel British Museum, datato a fine IX secolo; il manoscritto "Ms Lat. Vienna 377" datato all'XI secolo, conservato nella Hof-Bibliothek di Vienna; il "Codex Évreux 37 Ms Lat. foglio 55" datato al XIII secolo, conservato nella Biblioteca di Stato di Évreux; il “Codex Latinus Parisinus 2179” del XIII secolo; il “Codex Latinus Parisinus 5306”; infine un testo greco, non meglio specificato, pubblicato a Bonn nel 1881.
Precisiamo subito che le “datazioni” suindicate sono basate su stime paleografiche di massima, troppo spesso fatte passare come certe per confondere i non specialisti, ma da noi sconfessate molte volte grazie ad analisi, storiche, archeologiche, epigrafiche, toponomastica antica, filologia, comparazioni di antichi Codici, e tutti i dati scientifici indispensabili per accertare le passate vicende. Ed è quanto stiamo per fare.
Dalla lettura dei manoscritti citati - contrariamente al testo trasmesso in rete (basta cliccare) in cui risultano precisati, datazione, nomi dei Consoli e località - in realtà queste specifiche non risultano. Al contrario, si tratta soltanto di speculazioni astratte fatte da studiosi credenti col fine di “provare”, tramite futili ipotesi, l’evento narrato, ma incappando nell’errore di scartare aprioristicamente la ricerca critica. Ovvero l’atto fondamentale per accertare l’autenticità della vicenda, da ricercarsi sotto il profilo storico, tramite la comparazione dei “Codici scillitani” con altri Codici antecedenti, riguardanti l’opera omnia che, fin dall’inizio, ha costituito e tramandato la intera “tradizione cristiana”.
Per farsi un’idea della confusione in cui sono incappati gli studiosi fideisti pur di congetturare il martirio, e le forzature usate allo scopo di rabberciare le contraddizioni contenute nei Codici scillitani, basta cliccare e leggere:
The Manuscripts of the"Acts of the Scillitan Martyrs"
Evidenziamo, ad esempio, lo sciocco “candore” dimostrato dagli “esperti” citati nel documento (così come tutti i loro epigoni) quando dichiarano come fonte “Ad Scapulam” di Tertulliano al fine di “battezzare” il nome del Proconsole “Vigellio Saturnino”, senza capire che la “fonte ad Scapulam” la troviamo in Codici redatti nel XV secolo, vale a dire almeno due secoli dopo i Codici dei fantasiosi “Martiri Scillitani”; questi ultimi sono Codici di cui, procedendo nella ricerca, potremo dimostrare il "preconfezionamento” in attesa di essere completati da nomi e dati utili per rendere storicamente credibile, pur essendo inventata, una vicenda avvenuta nel passato remoto.
Una documentazione posteriore che non verrà mai completata ed inserita nei Codici scillitani per le dovute motivazioni logiche, chiaramente individuate dagli esegeti del Clero, il cui unico torto è stato quello di non eliminare definitivamente tutti i manoscritti dei “Martiri Scillitani”, impedendo così che tale assurdo evento sarebbe giunto a discreditare tutti gli “Atti dei Martiri”: un grave errore che obbligherà i futuri storici indottrinati ad ipotizzare, nomi, località e date, arrampicandosi sullo specchio della Storia con le ventose della fede.
In merito al sopra citato “Publius Vigellius Saturninus”, come Proconsole romano d’Africa, richiamato in “Ad Scapulam”, questi viene attestato dalla epigrafia in “Supplementum Epigraphicum Graecum” nell’iscrizione “SEG 42-1232”, laddove risulta che la carica onoraria di “P. Vigellius Saturninus” avvenne negli anni che vanno dal 159 al 162 d.C., quindi sotto gli Imperatori Antonino Pio e Marco Aurelio, cioè circa venti anni prima del presunto evento dei martiri scillitani, datato dai chiesastici il 17 luglio del 180 d.C., sotto l’Imperatore Commodo.
Mentre gli altri due Consoli “Presente” e “Claudiano”, inseriti arbitrariamente in un testo latino dagli studiosi spiritualisti moderni, riguardano due nomi romani incompleti che, diversamente dal primo, sono frutto di ipotesi fantasiose non suffragate da alcuna prova.
Oltre a ciò, come abbiamo dimostrato sopra, l'erudito monaco Giovanni Xifilino, incaricato nell'XI secolo dall'Imperatore bizantino, Michele VII Parapinace, a redigere l'epitome di "Storia Romana" di Cassio Dione, non sapendo nulla dei "martiri scillitani", ha preso una cantonata inventandosi una "cristiana" di nome Marcia; una concubina che aveva rapporti sessuali con tutti i potenti, ad iniziare dall'Imperatore Commodo ... ma non si fece alcuno scrupolo ad avvelenarlo.
Questi - pur se con ragioni ovviamente non manifestate - furono i moventi che impedirono all’alto Clero di perfezionare i Codici originali sopra elencati degli “Atti dei Martiri Scillitani”. Ciononostante, gli storici “amanti del Paradiso”, di là da venire, si prodigheranno per renderli veritieri, anche a costo di … finire all’Inferno.
Accertiamo adesso gli ulteriori aspetti sostanziali che dimostrano gli impossibili “Atti dei martiri Scillitani”.
Innanzitutto, se il processo fosse avvenuto veramente, il primo a riferire l’avvenuto martirio di cristiani sarebbe stato il Padre apologista Tertulliano, presente a Cartagine all’epoca dell’esecuzione. Un atto dovuto e immediato che avrebbe consentito agli altri Padri di conoscere la sequela dei Vescovi e di tutti gli storici cristiani, a partire dalla fine del II secolo d.C. in poi.
Ma nessuno di questi “testimoni” ha mai denunciato la passione dei màrtiri scillitani: in particolare non la conosce lo storico Vescovo (cronista specializzato in falsi cristiani suppliziati) Eusebio di Cesarea del IV secolo, come non la conosce lo storico Dottore della Chiesa, san Girolamo, beato del V secolo e, alla pari di lui, non sapevano dei martiri scillitani gli scribi che, alla fine del IX secolo, trascrissero i Codici della sua opera “De viris illustribus”, anch’essa documentata con tanto di date dei cristiani giustiziati… ma senza “martiri scillitani”.
Peraltro, non avrebbero potuto essere documentati gli Atti di un procedimento penale a Cartagine, se Tertulliano, il primo potenziale testimone, da quanto annotato nel suo “Apologeticum cap. I,1” (è in rete), dichiara che tutti i Governatori delle Province romane non potevano celebrare processi pubblici contro i cristiani:
"Se a voi, Magistrati dell'Impero Romano, che al sommo delle città presiedete ai giudizi, non è permesso investigare ed esaminare, dinanzi a tutti, che cosa chiaramente nella causa dei Cristiani si contenga".
Atti di un processo penale che, stando ai Codici relativi ai "martiri scillitani", addirittura omettono l’identificazione dei Magistrati Proconsoli e la formulazione dei capi di accusa avverso gli imputati.
Da questa ultima notizia appena letta in “Apologeticum”, data la contraddizione evidente, per capire come sia potuta avvenire è sufficiente sapere che il "Codex Latinus Parisinus 1623" concernente "Apologeticum" risale al X secolo, una data che dimostra come, sino allora, agli amanuensi tertullianei (alla pari di tutti gli altri scribi) non risultavano martiri in Africa Proconsolare, ma, per colmare il grave “vuoto” nel martirologio cristiano, scrissero, a nome di un Tertulliano mai esistito, che non potevano risultare per colpa dei Governatori romani d’Africa i quali (solo loro di tutte le Province: assurdo) secretavano gli Atti dei processi ai cristiani.
Queste furono le prime constatazioni che impedirono all’alto Clero di completare i Codici scillitani “preconfezionati”, arricchendoli con dati storicamente credibili come: i nomi ufficiali dei Magistrati fautori del processo pubblico, la precisa datazione, la lista esatta dei màrtiri ed il loro numero. Infatti, poiché in alcune recensioni risultano attestati sei accusati, mentre in altre il numero sale a dodici, diventa ovvio che il martirio collettivo perde di credibilità sin dall’inizio. Tuttavia, per superare questa contraddizione, i chiesastici fanno apparire un fantasioso processo celebrato in due tempi con una assurda sospensione di trenta giorni, creata artatamente per aggiungere altri sei màrtiri agli iniziali.
Dopo l’esposizione degli errori riguardanti, la datazione del veritiero Proconsole d’Africa, Vigellio Saturnino, ma collocato in un’epoca errata, come le mancate testimonianze degli storici cristiani, a questo punto anche una persona inesperta si rende conto che il martirio dei “cristiani scillitani” è frutto di pura fantasia.
La Chiesa odierna dichiara che le loro reliquie vennero trasferite dall’Africa in Francia nel IX secolo: un evento che si dimostra una bufala, perché, alla fine del IX secolo, gli amanuensi che trascrissero i Codici di san Girolamo (De Viris Illustribus") non conoscevano l’esistenza dei martiri scillitani; esattamente come il Codice di "Apologeticum" (di Tertulliano) del X secolo; lo stesso dicasi del monaco Giovanni Xifilino dell’XI secolo; vale a dire che tali datazioni sconfessano quelle accreditate ai “Codici Scillitani”.
Oscure reliquie che, dalla Francia, furono poi trasferite a Roma nella “Basilica dei SS. Giovanni e Paolo”, laddove tuttora giacciono conservate le ossa di dodici fra uomini e donne: miseri resti anonimi spacciati come “I Martiri Scillitani”. Una pratica macabra, ideata da maniaci, che la Chiesa adottò sin dalla antichità, grazie all’indottrinamento del popolino sottomesso (lat. “missus”), illuso dai preti sui falsi poteri miracolosi di pietosi resti umani.
San Nicola, l’inverosimile Vescovo di Myra, patrono di Bari
San Nicola è oggetto di culto da parte di quasi tutta la cristianità e, in Italia, specificamente dagli abitanti di Bari, città capoluogo della Regione Puglia.
Secondo la Chiesa Cattolica (vedi sito web Cathopedia, Enciclopedia Cattolica), san Nicola sarebbe probabilmente nato a Pàtara di Licia, odierna Turchia, fra il 260 ed il 280 d.C. e, in quanto figlio di ricchi cristiani ne divenne erede dopo la loro morte, quindi, manco a dirlo, avrebbe impiegato il considerevole patrimonio in favore dei bisognosi.
Le narrazioni biografiche delle sue gesta, diffuse dai suoi inventori, riferiscono che san Nicola si distinse subito con svariati atti di fede mirabolanti in favore del prossimo (che risparmiamo ai lettori), grazie ai quali il popolo di Myra lo acclamò unanimemete Vescovo di quella città.
Il santo Vescovo raggiunse l’apice del suo cursus miraculorum “facendo resuscitare tre bambini, uccisi e messi sotto sale da un macellaio malvagio per venderne la carne” (Cathopedia, Enciclopedia Cattolica).
In seguito, nella sua veste di Vescovo, Nicola forse avrebbe partecipato al Concilio di Nicea del 325 d.C. sotto Costantino il Grande e, “in un momento d’impeto avrebbe preso a schiaffi Ario”, il capo degli eretici. Nicola sarebbe poi morto di vecchiaia nel 343 d.C. all’età di 73 anni (cfr Cathopedia).
Tutto ciò premesso, visti i numerosi condizionali biografici, ci sentiamo in dovere di verificare l’esistenza del presunto santo avvalendoci delle antiche fonti storiche dirette.
Era dall’epopea degli Apostoli che non avvenivano più risurrezioni, pertanto, una volta conseguito simile curriculum vitae “San Nicola, Vescovo di Myra in Licia, celebre per la sua santità e la sua intercessione presso il trono della grazia divina” (Martirologio Romano), il nostro “Nicola”, immancabilmente, avrebbe dovuto essere conosciuto dal principale cronista cristiano di tutti i tempi: Eusebio di Cesarea, con sede in Nicomédia di Bitinia, nella corte di Costantino il Grande, e autore della "Historia Ecclesiastica": il primo e più antico documento storico riguardante le biografie di tutti i Vescovi ed i màrtiri beatificati, dall'epoca apostolica sino al 325 d.C.
A maggior ragione in quanto sia Nicola che Eusebio erano entrambi coevi e “colleghi spirituali” di Diocesi vicine comprese nella attuale Turchia (Lycia et Bithynia). Ma il Vescovo Eusebio di Cesarea non ha mai sentito parlare di alcun “Vescovo Nicola”, né delle sue mirabilia celestiali, tantomeno che abbia malmenato l'eresiarca Ario.
Come non conoscevano “san Nicola Vescovo di Myra” gli scribi redattori degli ultimi due manoscritti della “Historia Ecclesiastica” di Eusebio, risalenti al tardo medio evo - il “Codex Parisinus 1431” (sec. XII) ed il “Codex Parisinus 1433” (sec. XII) - i quali, se avessero saputo del plurisecolare avvento del santo Vescovo Nicola, "resuscitatore di bambini in salamoia”, ne avrebbero trascritto le gesta.
Così come, è altrettanto vero, neppure lo storico cristiano e Dottore della Chiesa, san Girolamo Sofronio, segretario del Pontefice Massimo, Papa Damaso I, mezzo secolo dopo Eusebio, aveva mai sentito nominare “san Nicola, il Vescovo resuscitatore di bambini sotto sale”, degno di essere commemorato fra “Gli uomini illustri” (De viris illustribus), opera principale di Girolamo (dopo la traduzione della Bibbia “Vulgata” latina), a testimonianza dell’esistenza della “sequela Christi” concernente tutti gli eroi, protagonisti della intera cristianità, sin dalla risalita in cielo di Cristo Salvatore.
Addirittura, non conoscevano “san Nicola” neanche gli amanuensi che, a fine IX secolo, trascrissero i primi Codici del “De viris illustribus” di Girolamo. Riguardo questi Codici approfondire nel V studio al cap. "Le sviste degli scribi tertullianei".
Ma allora, poiché sino a tutto il XII secolo nessuno aveva mai sentito parlare di san Nicola, a quando risale il primo manoscritto che ne attesti l’invenzione, peraltro tanto ingenua quanto inverosimile? La Chiesa esibisca un autentico manoscritto antico che dimostri da chi e quando le presunte “spoglie” - miseri anonimi resti umani battezzati come “reliquie” - vennero prelevate. E da quale antica catacomba, risalente al 343 d.C. (anno della morte del màrtire), furono asportate per essere deposte, secoli dopo, in un sarcofago - all’interno di un comune edificio (non Chiesa) di Myra datato all’VIII secolo - e successivamente traslate a Bari nell’XI secolo, poco prima che iniziassero le Crociate.
Rispondano alla domanda d’obbligo le sottili menti vaticane! A quale data risale il più antico documento capace di informare l'intera cristianità di tale sequela di vicende, dalla natività del santo Nicola sino all'ultima traslazione della salma a Bari? Eventi sconosciuti da tutti gli storici cristiani fino al XII secolo!
E' oltremodo evidente che stiamo parlando di una leggenda, inventata in epoca posteriore da ipocriti prelati cristiani, ad iniziare dall’altro grande popolare “reporter”, inventore di miti e miracoli falsamente accreditati agli apostoli ed ai loro successori: Jacopo da Varazze, autore della famosa “Legenda Aurea”, risalente a fine XIII secolo, riguardante le “fanta biografie” di 243 santi protagonisti dell’Epopea Cristiana, dagli apostoli fino al tardo medio evo.
Dunque, il Vescovo Jacopo da Varazze, morto a Genova il 1298, fu il primo a citare “san Nicola, Vescovo e resuscitatore di bambini in salamoia”, tantomeno del macchinoso iter delle sue spoglie, forzosamente inventato dai soliti ignoti che citarono falsi protagonisti al punto di coinvolgere le città di Bari e Venezia, i cui abitanti - stando a quanto ci si vuol far credere - ambivano la salma del santo.
"Una spedizione barese di 62 marinai, tra i quali i sacerdoti Lupo e Grimoldo, partita con tre navi di proprietà degli armatori Dottula, raggiunse Myra e si impadronì delle spoglie di Nicola che giunsero a Bari il 9 maggio 1087".
Così recitano i tardivi inventori del mito di san Nicola, narrati da Cathopedia, del quale ne evidenzia la grande diffusione:
"Tale tradizione si consolidò ulteriormente nel tempo, anche per il gran numero di eventi prodigiosi a lui imputati e che si diffusero ampiamente in Oriente, a Roma e nell'Italia meridionale".
Ma in tal caso, se queste narrazioni prodigiose fossero basate su autentiche vicende, inevitabilmente tali fatti avrebbero dimostrato la popolare conoscenza del santo, sia in Oriente che in Occidente ... molti secoli prima di Jacopo da Varazze: un insieme di riscontri che smentiscono l’esistenza di san Nicola e la insensata “odissea” delle sue oscure spoglie.
E' doveroso evidenziare che nel XVII secolo i padri gesuiti chiamati "Bollandisti" eseguirono più accurate verifiche storiografiche col risultato che l'intero genere dei leggendari santi medievali fu screditato e con essi anche la Legenda Aurea di Jacopo da Varazze venne dimenticata.
Stabilto ciò, ci dicano pure, adesso, gli opportunisti chiesastici: quando e chi iniziò a identificare il mai esistito “san Nicola” con “Babbo Natale”? Infatti - stando alle favole escogitate dagli attuali falsari ecclesiastici che evitano di citare le fonti dirette - per i moderni cristiani “san Nicola” equivale al femminile “santa Claus”… con tanto di barbone bianco.
Ignorando le comprovate risultanze storiche, basate su precise fonti dirette, il Prof. Alessandro Barbero, bravo medievista ma inetto in “Storia del Cristianesimo”, allo scopo di ingraziarsi il potente Vaticano, in data 25 dicembre 2017 ore 21,10, “scende in campo” su Rai Storia introducendo, quindi garantendone la vericidità, lo pseudo documentario “Il vero volto di Babbo Natale”.
Di fatto assistiamo alla “ricostruzione scientifica”, operata da un gruppo di ricercatori, impegnati a ricostruire il volto di miseri resti anonimi nella convinzione, loro indotta, che siano quelli reali di “san Nicola”.
Una inutile rappresentazione, oltretutto ridicola per il fine palesemente errato dato il suo falso presupposto, secondo la quale risulta che l'impossibile santo avesse il naso fratturato, fatto che, secondo gli "illuminati" scienziati animisti “rende il volto più realistico”. Questo è un enunciato buono come barzelletta, tenuto conto che, dalla rabberciata biografia ecclesiastica riguardante san Nicola, "il risuscitatore di bambini in salamoia", non risulta alcun evento che giustifichi tale violenta fatalità. Semmai, al contrario, la frattura porta ad escludere un “Babbo Natale” col naso rotto: un inaspettato “incidente archeologico” falsamente reinterpretato dagli scienziati amanti dell'Aldilà nella convinzione che il mondo sia pieno di sprovveduti e, in quanto tali, inconsapevoli del fatto che tutte le icone dedicate a san Nicola lo rappresentano col naso dritto.
E’ come se un dottore pretendesse di curare un paziente avvalendosi di una radiografia riguardante un altro malato ... il tutto sotto la sovrintendenza del “Primario” Prof. Alessandro Barbero.
Risultato: grazie agli opportunisti "studiosi chiesastici", il secolare lavaggio del cervello religioso è stato capace di piegare la scienza al proprio fine rendendola complice di una spettacolare contraffazione, utile al possente Clero per indottrinare le ignare masse al Credo della salvezza eterna … contrapposto al Ricatto delle fiamme dell’inferno.
Epilogo: è doveroso informare i lettori che la pubblicazione del presente studio, relativo alla inesistenza di san Nicola, ha causato il seguente scambio epistolare con il prof. Alessandro Barbero.
Egregio Alessandro Barbero - Professore di UNIUPO
email: alessandro.barbero@uniupo.it
Oggetto: Inadempienza al dovere istituzionale di docente
Io sottoscritto, Emilio Salsi, in data 1 gennaio 2018, Le inviai uno studio che dimostrava l'inesistenza del Vescovo san Nicola di Myra, analisi alla quale non si è degnato di rispondere.
Successivamente, in data 1 febbraio, sono stato informato che oltre 50 studiosi di Storia del Cristianesimo Le hanno evidenziato l'importanza di tale indagine storica, ulteriormente approfondita e pubblicata nel web, con l'esplicito richiamo indirizzato alla Sua persona per il metodo negligente adottato come ricercatore nella materia specifica. Ecco il link da copiare:
http://www.cristo-unmitoinventato.eu/approfondimento.asp?ID=53
Questa volta ha scelto di replicare ai numerosi sottoscrittori riguardo alla effettiva esistenza di san Nicola di Myra, formulando il testuale concetto "non si può escludere che un vescovo di Mira chiamato Nicola sia davvero esistito".
Evidentemente, Prof. Barbero, non ha capito che tale indagine accerta - con dati di fatto ricavati dalla lettura dei Codici, dovutamente richiamati, scritti dagli amanuensi cristiani nel corso dei secoli - che la Storia della Chiesa esclude l'esistenza del Vescovo san Nicola di Myra sino a tutto il XIII secolo.
Quindi, solo dopo tale epoca gli scribi ecclesiastici hanno ideato il mito di san Nicola Vescovo, retrodatandolo alla fine del III secolo e facendolo morire il 343 d.C., ma cadendo, scioccamente, in contraddizione con la cronotassi dei Vescovi testimoniata dagli storici cristiani di quel periodo e di tutti i successivi.
Nella suddetta replica ai richiedenti ha dichiarato inoltre "Che moltissimi santi cristiani delle origini siano personaggi leggendari, è cosa perfettamente nota a tutti". Questa è una "boutade" non suffragata da alcun riscontro perché non risulta alcuna dimostrazione sottoscritta da ricercatori che giustifichi tale affermazione.
In effetti, le uniche disamine capaci di comprovare l'invenzione dei mitologici eroi cristiani primitivi sono frutto esclusivo delle mie ricerche, di cui solo una parte può visionare tramite il suindicato link. Se poi intende farsi una cultura più approfondita sulla Storia del Cristianesimo si legga le dimostrazioni pubblicate nel sito web "Cristo, un mito inventato, ecco le prove", consultabili liberamente.
Tengo a precisare, altresì, Prof. Barbero, che a fronte di qualsiasi critica, ovviamente benvenuta, sono disponibile a confrontarmi pubblicamente e apertamente con Lei, anche in sede universitaria e davanti ai suoi studenti.
Addì, 5 febbraio 2018. In fede
Emilio Salsi
Conclusione. Dopo questo preciso atto d'accusa avverso il suo operato, lo storico docente Alessandro Barbero, vista l'impossibilità di contrapporsi apertamente alle prove che accertano scientificamente l'invenzione del mito di san Nicola, ha preferito dileguarsi. Barbero sa di essere con le spalle al muro dal momento che, intenzionalmente, impedisce la conoscenza della verità ai suoi studenti dimostrando, così, di essere un calcolatore, interessato, innanzitutto, a non pestare i piedi all'alto Clero.
L’immaginario San Gennaro, patrono di Napoli
Cathopedia, l’Enciclopedia Cattolica, voce ufficiale del Vaticano, riguardo la biografia di san Gennaro così dichiara:
“Sulla sua vita non si hanno notizie storicamente documentate. La sua storia è stata tramandata da opere agiografiche dove la realtà e la leggenda spesso si intrecciano e mescolano in un unico racconto, i cui elementi storici non sempre sono facilmente distinguibili”.
In verità, gli esegeti del Vaticano hanno messo le mani avanti per prevenire spiacevoli accertamenti antitetici ben sapendo che le narrazioni, riguardanti la vita ed il martirio di san Gennaro, sono molte e totalmente diverse, peraltro esagerate ed inverosimili, al punto da risultare falsificazioni inventate, verso la fine del medio evo, da fanatici psicopatici interessati a condizionare il popolino ignorante e, conseguentemente, richiamare l’attenzione dei nobili potentati per mero tornaconto politico.
Ma proviamo a seguire i miti inventati dell’immaginario “san Gennaro”.
Gennaro sarebbe nato a Caroniti (Vibo Valentia) nel 272 d.C. da genitori cristiani e cresciuto nella stessa fede, poi morto a Pozzuoli (Napoli) il 305 d.C. Una volta adulto, secondo una delle tante “tradizioni”, quando divenne “Vescovo di Benevento”, Gennaro fu perseguitato da un Governatore della Campania “battezzato”col nome “Dragonzio”*, il cui significato ideologico, già di per sé, rappresenta un predeterminato modus operandi particolarmente feroce. Infatti Dragonzio, dopo aver inizialmente destinato il martire ad essere sbranato dagli orsi (un’altra leggenda riferisce “sbranato dai leoni”) assieme a tre amici in quanto cristiani, poi il Governatore decise una persecuzione costituita dalla decapitazione dei quattro, cui aggiunse altri tre correligionari.
* Nelle cronache dell’Impero Romano non troviamo mai citato il nome “Dragonzio”, peraltro, essendo affibbiato ad un Governatore imperiale, l’onomastica latina prevedeva tre nomi (tria nomina): praenomen, nomen et cognomen. Ergo, "Dragonzio" risulta un appellativo di pura fantasia.
Dopo tale vicenda favolosa, Cathopedia afferma che “Il corpo di Gennaro sarebbe stato sepolto nell'Agro Marciano e solo nel V secolo traslato dal duca-vescovo di Napoli Giovanni I nelle Catacombe di San Gennaro”.
Da tale deposizione sembrerebbe che san Gennaro sia veramente esistito, anche se non si parla del sangue del màrtire, “sacro fluido” destinato a divenire famoso in epoca successiva. Ma ecco spiattellata dalla Enciclopedia Cattolica, Cathopedia, un’altra versione dei fatti concernente il mito inventato …
“Negli Atti Vaticani si narrano molti altri episodi leggendari. I più conosciuti narrano di Gennaro e dei suoi compagni che si sarebbero recati a Nola, dove avrebbero incontrato il perfido giudice Timoteo il quale, avendo sorpreso Gennaro mentre faceva proselitismo, lo avrebbe imprigionato e torturato. Ma poiché le tremende torture inflittegli non sortivano effetto, lo avrebbe infine gettato in una fornace ardente; una volta riaperta la fornace, non solo Gennaro ne uscì illeso e senza che neppure le sue vesti fossero state minimamente intaccate dal fuoco, ma le fiamme investirono i pagani venuti ad assistere al supplizio. Ammalatosi e guarito da Gennaro, Timoteo non mostrò alcuna gratitudine, ma lo fece condurre nell'anfiteatro di Pozzuoli affinché fosse sbranato dalle fiere”.
Secondo l'ennesima leggenda appena letta, questa vicenda rappresenta un diverso, ma sempre perfido, persecutore di Gennaro, a dimostrazione della invenzione dell'aguzzino di un finto "santo", fino a chiamare in causa i malvagi pagani anticristiani. Una crudeltà per cui tutti i miscredenti ne pagarono le conseguenze finendo coll’essere investiti dalle fiamme divine che lasciarono illeso Gennaro, ormai “santo màrtire illeso” … ma non risulta Vescovo di Benvento e senza versare alcuna goccia di sangue.
Dopodiché la vaticana Cathopedia riempie il vuoto riguardo la mancata citazione del famoso sangue di san Gennaro: “Secondo la tradizione (?), subito dopo la decapitazione sarebbe stato conservato del sangue, come era abitudine a quel tempo (questa è buona: se fosse vero le catacombe di tutta la cristianità martirizzata sarebbero piene di ampolle colme di sangue), raccolto da una pia donna di nome Eusebia che lo racchiuse in due ampolle; esse sono divenute un attributo iconografico tipico di San Gennaro. Il racconto della pia donna è tuttavia recente, e compare pubblicato per la prima volta solo nel 1579, nel volume del canonico napoletano Paolo Regio su "Le vite de' sette Santi Protettori di Napoli".
Peraltro Cathopedia, sin dall’inizio, ci ha informato che le principali fonti biografiche di Gennaro sono:
gli Atti Bolognesi (datati al VI-VII secolo); e gli Atti Vaticani (datati al VIII-IX secolo).
Ciò nondimeno, se tali datazioni fossero vere, le mirabolanti gesta di Gennaro dovrebbero essere state riferite dagli iniziali e più famosi storici cristiani veramente esistiti: secolari cronisti specializzati nel tramandare a futura memoria i manoscritti con le biografie di tutti i Vescovi martirizzati per la fede in Cristo, pertanto eroi beatificati e spediti direttamente in Paradiso. Indagine che ci apprestiamo ad eseguire.
A proposito del “martirio di san Gennaro” basta consultare il cattolico sito web “Santi e Beati” laddove si riporta la citazione (fra le tante) di una singola versione del martirio di Gennaro, allo scopo di non evidenziare le altre contrastanti, ma … con la specifica aggiunta “Memoria Facoltativa”. A buon intenditor poche parole bastano: come già anticipato sopra da Cathopedia, la Chiesa è consapevole che san Gennaro non è mai esistito, pertanto il ricordo del suo martirio diventa facoltativo. Le sottili menti vaticane conoscono gli antichi Codici stilati dagli storici cristiani, quelli vissuti realmente da quando il cristianesimo conquistò il potere nel IV secolo, e nessuno di loro ha mai tramandato le gesta, ancorché ridicole, di un mai conosciuto “san Gennaro, Vescovo e màrtire”.
Il primo a parlare di Gennaro avrebbe dovuto essere lo storico cristiano Eusebio di Cesarea, il compilatore delle biografie dei Vescovi martirizzati per la fede in Cristo. Soprattutto gli amanuensi che trascrissero i Codici della sua “Historia Ecclesiastica” con l’elenco delle biografie di tutti i santi martirizzati, dalla passione del Salvatore sino agli inizi del IV secolo. In particolare gli scribi redattori degli ultimi due manoscritti risalenti al tardo medio evo - il "Codex Parisinus 1431" (sec. XII) e il "Codex Parisinus 1433" (sec. XII) - se avessero saputo del plurisecolare avvento di “san Gennaro Vescovo màrtire” si sarebbero obbligati ad aggiungerlo nella lista, trattandosi di un alto prelato, testimone di Gesù e vittima d’eccellenza, con la specifica che la salma di san Gennaro, Vescovo e màrtire, fu deposta nelle Catacombe di san Gennaro "nel V secolo dal duca-vescovo di Napoli Giovanni I". Un fatto, quest'ultimo, sconosciuto agli amanuensi del XII secolo.
Il secondo a riferire delle gesta di “san Gennaro Vescovo e màrtire” avrebbe dovuto essere lo storico Dottore della Chiesa, san Girolamo Sofronio, oltre mezzo secolo dopo Eusebio, autore de “Gli uomini illustri” (De viris illustribus): un elenco di 133 fra Vescovi e màrtiri ad iniziare dagli apostoli ed i loro successori sino al V secolo. Inoltre, come per i manoscritti della “Historia Ecclesiastica” di Eusebio, neanche gli amanuensi - che nel IX secolo stilarono i primi Codici del “De viris illustribus” - avevano mai sentito parlare di “san Gennaro Vescovo e màrtire”.
Ancora, risalendo i secoli, troviamo il famoso inventore di miti e miracoli falsamente accreditati agli apostoli ed ai loro successori: l'Arcivescovo di Genova, Jacopo da Varazze, autore della “Legenda Aurea”, risalente a fine XIII secolo, riguardante le “fanta biografie” di 243 santi protagonisti dell’Epopea Cristiana, dall’inizio fino al tardo medio evo.
Ma anche Jacopo da Varazze, morto a Genova il 1298, non sapeva niente di “san Gennaro Vescovo e màrtire”, né aveva mai sentito parlare dello straordinario miracolo con la liquefazione del suo sangue.
Bastano solo queste basilari informazioni per dimostrare che san Gennaro non è mai esistito: è niente altro che un mito inventato in epoca tarda. Un dato di fatto che gli esegeti dell’alto Clero conoscono perfettamente. Ma allora, perché fanno carte false inventandosi “fonti” come gli “Atti Bolognesi” e gli “Atti Vaticani”, accreditati con datazioni fasulle (pur conoscendo i sopracitati Codici che le smentiscono) al fine di salvaguardare un minimo di credibilità a san Gennaro?
Ecco il movente.
Scopo degli inventori delle leggende di san Gennaro (come per i miti degli altri santi) fu quello di riscuotere fondi grazie a donazioni individuali dei cittadini, o comunque elargiti dalla collettività per imposizione dei nobili potenti, anch’essi, come il Clero, esattori dei ricavi del lavoro popolare.
Tale risultato è dimostrato dal più grande patrimonio esistente al mondo: “il Tesoro di san Gennaro”, la cui collezione di gioielli ha un valore superiore a quelle dei reali inglesi e degli Zar di Russia messe insieme.
Al riguardo, la Chiesa, consapevole del dettato di Cristo "Chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi non può essere mio discepolo" (Lc 14,33), afferma che “il tesoro di san Gennaro appartiene al popolo”, nella convinzione (non del tutto errata) che il mondo sia popolato da sprovveduti ... anche in considerazione del fatto che la Chiesa ha molti altri tesori disseminati nel mondo, ad iniziare dai “Tesori Vaticani”, i quali tutti, assommati alle enormi proprietà immobiliari di altissimo pregio, costituiscono un ingente capitale paragonabile a quello degli Stati più ricchi esistenti sulla Terra, anzi, a differenza di questi: sempre in attivo contabile ... grazie all’illusione della vita eterna.
Ite, missa est …
In tutti gli studi fin qui svolti abbiamo provato l’inesistenza di Gesù Cristo, degli Apostoli e dei loro successori, Vescovi e màrtiri: una sequela di seguaci del Salvatore Universale, inventati nel IV secolo dallo storico Vescovo, Eusebio di Cesarea. Dopo di lui, altri potenti cristiani dettarono agli amanuensi di trascrivere nei Codici le biografie di nuovi, numerosi e immaginari santi, al punto di escogitare un falso “Liber Pontificalis” (vedi XVIII studio) con i nomi dei “Papi”, accreditati come “Vicari di Cristo” (facenti le Sue veci) ed eletti appena dopo la Sua morte.
Determinato tutto ciò, non ci resta che indagare i luoghi di sepoltura delle caterve di màrtiri cristiani, eliminati, nel corso dei primi quattro secoli, dagli spietati Imperatori e Governatori delle Province romane ...
L’impostura delle “catacombe critiane primitive”
I musei di tutta Europa conservano moltissime epigrafi su lastre tombali di pietra, pitture e graffiti, ove gli antichi abitanti delle civitas imperiali romane trascrivevano vicende di vita quotidiana, anche fuori delle catacombe ... ma nulla che risulti attinente al cristianesimo dei primi quattro secoli.
Il riscontro lo troviamo nell'epigrafia sepolcrale pagana, ricca di precisi riferimenti utili alla datazione dell'epoca del defunto, quali, Editti Imperiali, Atti del Senato, offerte alle divinità pagane, cursus honorum, atti pubblici e privati, iscrizioni funerarie su oggetti comuni, aspetti di vita intima, ecc., ma niente che dimostri l’esistenza di cristiani primitivi, seguaci del "Salvatore Universale".
Nelle catacombe si riscontrano le prime sepolture connotate genericamente come "cristiane" solo a fine IV secolo d.C. e ciò è comprovato dal fatto che lo storico Vescovo, Eusebio di Cesarea, ha scritto la particolareggiata "Historia Ecclesiatica" nella reggia di Costantino il Grande agli inizi del IV secolo, ma non fa alcuna menzione degli ambulacri sotterranei già usati dai cristiani, tantomeno li indica come i luoghi di sepoltura della sequela di Vescovi da lui descritta nei particolari e martirizzati per la fede in Cristo.
Lo stesso dicasi per il successivo storico cristiano, san Girolamo Sofronio. Anche lui ignora la consuetudine che tutti i famosi cristiani - di cui, nella sua opera (Gli uomini illustri) descrisse le gesta sino al martirio - siano stati sepolti nelle catacombe di Roma, pur avendo vissuto nell'Urbe in qualità di segretario del Pontefice Massimo, Damaso I.
Ma l'aspetto più significativo è costituito dal fatto che neanche agli amanuensi che nel IX secolo trascrissero "Gli uomini illustri" di Girolamo, e quelli che nell'XI secolo trascrissero la "Historia Ecclesiastica" di Eusebio, risultava ad essi che i molteplici Vescovi, martirizzati dai potentati romani, siano stati sepolti nelle catacombe di Roma.
Sepolture di famosi personaggi cristiani che erano sconosciute anche allo storico bizantino, Giovanni Xifilino, il quale, alla fine dell'XI secolo, scrisse l'epitome di "Storia Romana" di Cassio Dione. Tantomeno a Xifilino, pur avendoli descritti, risultava che gli Imperatori Macrino ed Eliogabalo, come approfondiremo fra poco, abbiano fatto amministare le catacombe ai "Papi" Zefirino e Callisto.
Ecco spiegato il motivo per cui, durante l'esistenza dell'Impero Romano e dell'Impero Bizantino, non risulta alcun "Corpus Inscriptionum Christianorum", ovvero una raccolta, riguardante epigrafi, epitaffi, pitture, scritte lapidee o bronzee antiche, a riprova dell'esistenza di numerose Ecclesiae cristiane amministrate dai "Vescovi assisi sul trono" e sparse in tutto l'Impero ... secondo quanto "postulato" da una falsa "tradizione ecclesiastica" creata a posteriori. Un vero e proprio "vuoto archeologico" che conferma gli studi precedenti tramite i quali abbiamo accertato l'inesistenza di Cristo, Apostoli ed i loro successori.
A tal fine verifichiamo come la Chiesa, nel corso dei secoli, abbia attribuito a "san Callisto" il complesso catacombale più famoso di Roma, la cui realizzazione pubblica iniziò alla fine del II secolo e, dal Rinascimento ad oggi, ufficializzato col nome "Le Catacombe di san Callisto"; quindi celebrato quale "sepolcreto dei Papi del III secolo assieme a numerosi màrtiri", allo scopo di farlo visitare (con obbligo del ticket) da masse di credenti di tutte le nazionalità.
Infatti questo è il martirologio di "san Callisto" riferito dalla vaticana Cathopedia:
«San Callisto I, papa, martire: da diacono, dopo un lungo esilio in Sardegna, si prese cura del cimitero sulla via Appia noto sotto il suo nome, dove raccolse le vestigia dei martiri a futura venerazione dei posteri; eletto poi papa promosse la retta dottrina e riconciliò con benevolenza i lapsi, coronando infine il suo operoso episcopato con un luminoso martirio».
Seguiamo adesso, come atto storicamente dovuto, la testimonianza del primo e più famoso cronista critiano, narratore delle gesta che videro protagonisti gli eroici cristiani iniziali e relativi màrtiri, dall'avvento di Cristo sino agli inizi del IV secolo: il Vescovo Eusebio di Cesarea. Lo storico alto prelato accenna appena i semplici nomi dei Vescovi (non Papi) "Zefirino e Callisto", ed in particolare, nel VI Libro al cap. 21,2 della sua "Historia Ecclesiastica", cita brevemente Callisto: "Dopo Zefirino assunse l'episcopato Callisto, che visse ancora per cinque anni, lasciando il ministero ad Urbano". Tutto qui.
Perciò risulta che Callisto si spense senza aver subìto alcun martirio, inoltre Eusebio non può affermare che "Callisto fu preposto da Zefirino all'amministrazione del cimitero stesso, ed ubicato lungo la Via Appia Antica", poiché non gli risultava né l'importante incarico amministrativo, nè il titolo di "papa" ... come invece dichiarano le "fonti" Vaticane (vedi in Cathopedia "san Callisto"). Questa sì che è bella! Ci viene propinato il paradosso che i funzionari Romani, anziché martirizzare pletore di cristiani (glorificati da Eusebio ed inneggiati da tutti i credenti), abbiano concesso ai loro Vescovi il potere di "amministrare le Catacombe di san Callisto".
Ma, poiché quanto sin qui riferito dal clero è niente altro che fantasia dissennata - arricchita di falsi particolari oltre un millennio dopo la primitiva fonte eusebiana - per una ulteriore verifica basta controllare la lista premessa de "Gli Uomini Illustri" (Vescovi e màrtiri) di san Girolamo, al quale, pur essendo uno storico cristiano vissuto fra il IV e il V secolo, addirittura non risultano i Vescovi Zefirino e Callisto, che, per la Chiesa, divennero addirittura "Papi" di Roma, tantomeno il santo Dottore della Chiesa accenna alle “catacombe” degli illustri cristiani di cui lui narrò le gesta.
E’ doveroso evidenziare che, essendo Girolamo uno storico successivo di oltre mezzo secolo ad Eusebio (il cui materiale divenne sua fonte diretta, pertanto degno di essere inserito fra “Gli uomini illustri”), come si spiega il particolare che i “Vescovi” Zefirino e Callisto non siano stati citati da Girolamo?
Per capirlo è sufficiente ricordare ai lettori che i più antichi manoscritti contenenti il “De viris illustribus” di Girolamo (vedi V studio cap. "Le sviste degli scribi tertullianei") furono trascritti dagli amanuensi nel IX secolo, diversamente (come abbiamo riferito in dettaglio nel III studio su “Giacomo il Minore”), le famiglie di manoscritti che includono la “Historia Ecclesiastica” di Eusebio di Cesarea risalgono all’XI e XII secolo. Quindi le prime fugaci citazioni di Eusebio, relative ai Vescovi di Roma "Zefirino e Callisto", risalgono all'XI secolo ed entrambi perirono senza martirio.
Addirittura, allo stesso Girolamo (alla pari di Eusebio) non risulta il titolo “Papa”, non lo conosce; così come non lo sapevano i calligrafi che, nel IX secolo, riscrissero la sua opera: una ignoranza fino allora condivisa da tutti gli Alti Prelati ed il popolo dei credenti, evidentemente inconsapevoli del tardivo postulato che in Terra "Il Papa fa le veci di Cristo".
Con ciò si dimostra che, seppure in qualità di Vescovi, i falsi protagonisti cristiani, Zefirino e Callisto, furono inventati dopo l'undicesimo secolo; pertanto solo in seguito a tale datazione gli scribi ecclesiastici affidarono loro il compito di “amministrare le Catacombe di san Callisto”, come sopra falsamente riferito dalla Vaticana Cathopedia, che persiste nell'inganno elevando san Callisto al rango di "Edile" romano per ordine di Papa Zefirino, come se quella catacomba fosse già allora di proprietà del Clero cristiano:
“La catacomba prende il nome dal diacono Callisto, che, all'inizio del III secolo, fu preposto da papa Zefirino all'amministrazione del cimitero stesso; salito a sua volta al soglio pontificio, papa Callisto ingrandì il complesso funerario”.
Nondimeno è doveroso evidenziare che "san Callisto" è escluso dall'elenco dei santi descritti nella "Legenda Aurea" dall'Arcivescovo di Genova, Jacopo da Varazze, nel XIII secolo. Questo trattato descrive tutte le vite dei santi, ufficialmente riconosciuti dalla Chiesa dell'epoca di Jacopo da Varazze, a partire dai primitivi cristiani, Pietro, Paolo, Giovanni, Giacomo ecc., fino al XIII secolo. Quindi, se a Jacopo da Varazze non risultava la beatificazione di "papa Callisto", dal momento che, come abbiamo appena letto, i Romani, anziché martirizzarlo, gli avrebbero consentito di amministrare le catacombe ... ci viene spontanea una domanda: quando la Chiesa si inventò il movente per mandarlo in Paradiso?
Escludendo nel merrito le ridicole "Tesi" e "Antitesi" proposte dalla vaticana Cathopedia - già smentite dalla più antica documentazione riferita sopra dagli amanuensi del IX secolo quando trascrissero il "De viris illustribus" di Girolamo - restiamo in devota attesa di conoscere quale manoscritto, autenticamente datato e completo dei dati storici precisi, abbia originato la favolosa biografia di san Callisto "Edile" martirizzato, con tanto di finte reliquie ... considerato che Jacopo da Varazze, nel XIII secolo, non era a conoscenza del "beato Callisto martire" né prima di lui Papa Zefirino.
Un rituale macabro, praticato incessantemente dalla Chiesa, che si avvalse del prelievo di anonimi resti umani, sepolti negli ambulacri più antichi, ad iniziare dalle sanguinose lotte iconoclaste, fratricide tra cristiani, dell'VIII e IX secolo, da noi descritte nel XIV studio con la sequela degli appositi Concili sulle reliquie indetti dal clero.
Tali numerose e antitetiche testimonianze contraddicono le strombazzate “persecuzioni” promulgate nei secoli passati, secondo i clericali, dai diabolici potentati Romani avverso i cristiani. Infatti, se fossero state veritiere le torture praticate ai credenti nel Salvatore, gli Imperatori pagani, Macrino ed Eliogabalo - sotto cui operarono i capi cristiani (Vescovi), Zefirino e Callisto - li avrebbero crocifissi anziché far loro amministrare le catacombe di Roma: un fatto già di per sé ridicolo, anche come semplice ipotesi.
Da quanto sopra dimostrato, al XV secolo risale la breve opera “Ad Scapulam”, accreditata ad un mai esistito Tertulliano, laddove al III capitolo si cita un inesistente “Governatore Ilarione” dell’Africa Proconsolare, sotto il quale la popolazione pagana pretese a gran voce che venissero distrutte le catacombe dei cristiani.
Ormai prossimi al Rinascimento gli scrivani del Clero, pur di provare che i cristiani usavano le catacombe per celebrare i loro rituali, presero l’ennesima cantonata dal momento che, sia a Cartagine che a Leptis Magna (come in tutta l’Africa Proconsolare), non sono mai esistite catacombe né semplici cimiteri dei cristiani, neanche il benché minimo reperto archeologico che possa giustificare la presenza di una "enorme diffusione di seguaci di Gesù", come falsamente dichiarato dallo scriba tertullianeo che si inventò "Ad Scapulam".
Ne consegue che “le necropoli dei cristiani dell’età apostolica e dell’età post apostolica”, narrate da Wikipedia e dalla vaticana Cathopedia (basta cliccare in Internet), sono state immaginate da ciarlatani indottrinatori con l’intento di far apparire che sin dall’Avvento di Gesù Cristo esistevano i suoi seguaci.
Nella realtà le catacombe erano preesistenti all’effettiva era cristiana iniziata nel III secolo avanzato, peraltro, nell’Impero Romano, tutte le aree cimiteriali, catacombe comprese, in base alla “Legge delle XII Tavole” (fondamento del Diritto Romano), obbligatoriamente dovevano essere realizzate fuori città: una imposizione, peraltro logica, sempre rispettata in tutte le civitas, quando gli ambulacri sotterranei vennero realizzati, durante e sino alla fine dell’Impero. Pertanto, solo in epoche successive le antiche catacombe verranno inglobate nelle città in funzione della loro espansione. Un aspetto fondamentale di cui gli archeologi devono tenere conto evitando di datare la realizzazione delle catacombe attenendosi ad una cronologia in adempimento della inverosimile “tradizione cristiana”.
Tutto ciò premesso e dimostrato sopra, riguardo le false biografie dei secolari màrtiri cristiani, si ritorce come un atto di accusa avverso i numerosi “studiosi spiritualisti” i quali, senza alcuna verifica critica, danno per scontato che tutte le catacombe, intitolate agli impossibili màrtiri, "eroi" del cristianesimo, siano state adibite come luogo di sepoltura dei credenti in Cristo, torturati a morte per la loro fede, dall’Avvento di Gesù sino al IV secolo: l’epoca dello storico cristiano, Eusebio di Cesarea, ignaro delle “necropoli dei cristiani dell’età apostolica e dell’età post apostolica”.
Al contrario, dopo la morte di Costantino il Grande, furono i cristiani a perseguitare i pagani e, in ottemperanza all'Editto di Tessalonica del 380 d.C. (già citato più volte) e successivi, i cristiani cattolici giunsero a vessare, sino alla morte, i pagani, gli ebrei e gli stessi cristiani dissidenti.
Nelle catacombe più antiche e famose, contenenti semplici raffigurazioni anonime, in epoca rinascimentale gli “specialisti” del Vaticano avviarono un metodo di “identificazione” finalizzato ad abbinare le catacombe con i fantomatici "cristiani primitivi". L'incremento esponenziale del fenomeno avvenne nella fase avanzata del Rinascimento grazie all'attivismo di "Antonio Bosio" (1575-1629), un archeologo indottrinato, appassionato di antiche catacombe romane, che iniziò a catalogare sarcofagi ed oggetti vari rinvenuti nei loculi. Per la sua opera il Bosio si avvalse della collaborazione di disegnatori che riprodussero, oltre gli oggetti, anche i disegni ornamentali.
Agli inizi del XVII secolo, tali immagini, riprese da quelle disegnate o scolpite sulle pietre di copertura dei loculi, furono utilizzate per "comprovare" l'esistenza dei corpi dei "Santi" adottando "criteri identificativi", forzati fino all'assurdo, tipo i "cristogrammi", combinazioni casuali di lettere interpretate come abbreviazioni di Gesù, Cristo, Salvatore ecc.; oppure, ad esempio, i semplici ornamenti dei loculi costituiti dalle palme, chiamati "palmulae" che da allora in poi vennero considerate "simboli della immortalità", la "salvezza eterna" che, manco a dirlo, era ambita dai presunti antichi cristiani, o dalle "sagittae" (frecce) interpretate come "simbolo di martirio".
Questi "segni di riconoscimento" vennero ratificati il 10 Aprile 1668, con apposito Decreto, dalla "Sacra Congregatio indulgentiis sacrisque reliquis praeposita", mentre l'estrazione di anonimi corpi, opportunamente "ribattezzati" e spacciati come reliquie di antichi "Santi", venne affidata al "Custode della Lipsanoteca del Vicariato" e collateralmente al "Sagrista Pontificio".
E’ a questa epoca che risale l’interpretazione di numerosi disegni dei “pesci” ritrovati nelle catacombe (i Romani ne erano ghiotti), precisamente in virtù del nome ΙΧΘΥΣ (ICTUS). Tale vocabolo, che in greco significa “pesce”, con evidente forzatura fu considerato un "acronimo" formato con le iniziali della frase greca “Ιesous Christοs Τheou Yios Soter”; tradotto diventa “Gesù Cristo, figlio di Dio, Salvatore”. Quindi, i pesci, in mancanza di reperti archeologici validi, ancora oggi sono considerati dagli "storici sgranarosari" la prova di eccellenza dell’esistenza del "Salvatore Universale" e dei suoi primitivi seguaci.
Anche in questo caso, la autentica
ricerca storico critica dimostra che l’acronimo “ICTUS” è una colossale
idiozia, basata sul nulla, architettata dai più importanti esegeti
chiesastici i quali fingono di non sapere i Decreti (evitando di
richiamarli per impedirne la conoscenza) emanati nei numerosi “Concili”
convocati dal Clero nel corso dei secoli. Concili chiamati “iconòduli”,
quelli favorevoli alla raffigurazione di Cristo, santi e reliquie; e
“iconoclasti”, quelli contrari. Sinodi che, da ambo le parti in
conflitto, concordavano solo su un punto dovutamente verbalizzato e
codificato: "Dal Suo avvento, Gesù veniva raffigurato esclusivamente col simbolo dell’agnello" (“Ecce Agnus Dei”: Gv 1,29).
Nel II Concilio ecumenico di Nicea, convocato nel 787, venne messo agli Atti il Canone 82 del VI Concilio (Concilio Quinsesto del 692 d.C.) ordinato a Costantinopoli dall'Imperatore bizantino Giustiniano II
Rinotmeto.
Il Canone 82 di quel Concilio, letto a Nicea II ad alta voce
dal Protopresbitero Elia, decretava la possibilità di rappresentare in
forma umana il Cristo:
"Comandiamo che d’ora innanzi, invece dell’antico agnello (Agnus Dei), il carattere di colui che toglie i peccati del mondo, cioè di Cristo nostro Dio, sia dipinto e raffigurato sotto forma umana".
Dunque, eccezion fatta per il sacro simbolo dell'Agnello di Dio, mai,
prima e dopo tutti i Concili della Chiesa, non solo quelli iconoclasti o
iconòduli, nessun Padre sinodale accennò a simboli quali "pesce" "pane"
"vino" "àncora" "fico" "olivo" e quant'altro la fantasia dei saccenti
credenti odierni riesce ad inventarsi, scrivendo trattati pseudo
scientifici, in materia, allo scopo di creare prove sull'esistenza dei
fantomatici cristiani gesuiti nei primi due secoli.
Oggi le
raffigurazioni, rinvenute nelle catacombe pagane di molti alimenti o
oggetti, vengono "abbinate" a Gesù dagli studiosi baciapile ... anche a
costo di espropriare la fede pietosa che imponeva ai Gentili di
"accompagnare" il caro defunto nella discesa agli "Inferi" (il regno
dell'Ade) con ordinarie pitture di cibo e oggetti a lui graditi in vita.
La rappresentazione di un semplice banchetto pagano, molto in voga nella opulenta Roma imperiale, viene fatto passare come "l'ultima cena con la celebrazione dell'eucaristia". Una mamma che allatta un neonato diventa "la Beata Madonna" e l'uomo anziano che le ammira il seno è un "Profeta"; uno squalo che azzanna un naufrago diventa "Giona risputato dalla balena"; una vite con l'uva è "la Chiesa di Cristo"; un comune pastore di ovini non può che essere "il Buon Pastore Gesù che dona la Sua vita per le Sue pecore" ... e così via.
Nel 1632, il Cardinale Marzio Ginetti incaricò il sacerdote Girolamo Bruni, della congregazione di san Filippo Neri, ad effettuare una indagine per accertare il numero esatto dei màrtiri cristiani, sottoposti a pene infinite, a causa della loro fede in Gesù Cristo, dal Suo avvento in poi. L’emerito sacerdote svolse con "diligenza" il suo compito ed il risultato fu spettacolare: 64.000.000 “sexaginta quattuor milione” (Sic! Come testualmente relazionato).
Questa "ricerca", con il suo spropositato esito, venne ufficializzata il 10 Aprile 1668 dalla “Sacra Congregatio indulgentiis sacrisque reliquis praeposita”.
Dalla fine del Medio Evo ad oggi, quasi tutti i siti catacombali, ad iniziare da quelli della cosiddetta "Roma sotterranea cristiana" (sconosciuta da Eusebio e Girolamo), dopo essere stati battezzati con nomi di santi inventati, furono attrezzati per accogliere visitatori paganti ai quali, guide bene addestrate, oggi raccontano le favolose gesta dei primitivi eroi cristiani, le cui false reliquie, in realtà anonimi resti umani prelevati nei loculi più antichi con un procedimento morboso devastante, vennero fatte a pezzi per essere poi distribuite e destinate al culto del popolo credulone, quindi ostentate nelle Chiese del Vecchio Mondo.
Un macabro modus operandi, specifico di fanatici psicopatici, peraltro in contrasto con la più civile, in quanto pagana, nozione di "res sacra", fondamento del Diritto Romano, concernente i sepolti ed i luoghi di tumulazione, affinché, essendo tutelati dagli Dei e in ottemperanza al loro Credo, trascorsi cento anni, i defunti potessero accedere all'Ade.
L'indegno condizionamento religioso cristiano, pur essendo basato su una enormità di simulazioni, si è evoluto fino ad oggi grazie alla servile compiacenza dei media e delle stesse autorità scolastiche, al punto di impedire agli ignari cittadini e studenti la conoscenza degli eventi reali che sconfessano l’esistenza dei santi e dei màrtiri cristiani nella antica Roma ed in tutto l’Impero dei primi quattro secoli, nonostante tali risultanze siano ormai comprovate definitivamente dalla storia e dalla archeologia, alla luce delle ultime ricerche sulla Storia del Cristianesimo.
Il più grande lavaggio del cervello che l’umanità abbia mai subito ha consentito al potente Clero di vivere agiatamente da oltre 1600 anni: una macrostruttura parassitaria mantenuta, sin dall'inizio, da una popolazione indigente, ma indottrinata costantemente dai "Ministri di Dio" con l’illusione della vita eterna.
Emilio Salsi